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Sakura e il libro di bento

Luci ad Ebina

Era ormai sera. Il cielo era scuro e nella sua oscurità si erano già dissolte quelle venature violacee e bluastre che non sono nient’altro che strascichi di un giorno in declino.

Le luci della stazione di Ebina facevano da luminosa cornice al concludersi di quel giorno prezioso e che avrei percorso e ripercorso nel tempo con la mente, soprattutto nei momenti bui perché quello era il giorno in cui Sakura ed io ci salutammo prima della mia dolorosa partenza dal Giappone.

Nell’abitacolo della sua utilitaria, quella stessa auto con cui avevamo esplorato in lungo e in largo le strade delle campagne del Kanagawa alla ricerca di bislacche e a volte tetre botteghe di rigattieri, ora era diventato luogo non luogo di un arrivederci. O forse di un addio.

Cercavo, un po’ goffamente, di sorridere perché non trapelassero la pesantezza di un distacco non ancora avvenuto e di una nostalgia per un passato non ancora diventato tale. Ma dentro di me un pianto sconsolato rimbombava per tutto il mio essere rimanendo però muto all’esterno.

Anche Sakura aveva tentato di camuffare quella malinconia che ci stava lentamente divorando. La nascondeva con il sorriso, lo scherzo e con fantasiose bozze di progetti per il futuro. 
Lei dava una pennellata di colore acceso sulla tela di questo futuro immaginato e io proseguivo il disegno. Poi mi fermavo e continuava lei. 
Pennellata dopo pennellata, tratto dopo tratto, ecco affiorare un trionfo brillante e ingarbugliato di piccoli progetti che avrebbero dovuto coinvolgerci direttamente ma soprattutto azzerare quella distanza che di lì a poco si sarebbe materializzata in tutta la sua soffocante desolazione .

Arrivederci, addii e onde marine

Nei giorni precedenti avevo già salutato le persone a me care e che mi erano state amiche e maestre lungo l’arco di quegli anni straordinari. E ad ogni saluto quel pianto interiore, che sarebbe stato inopportuno manifestare, aumentava di volume inglobando tutte le lacrime trattenute. 
Stava diventando una sorta di onda marina che, seguendo la direzione del vento, impetuosamente s’ingrossava assomigliando sempre più ad un cavallone.

Erano stati arrivederci, e in un caso purtroppo un addio permanente, e ogni volta ho provato un intenso dolore che mi lacerava il sorriso. 
Erano persone con cui avevo percorso quell’incredibile esperienza e che, spesso inconsapevolmente, mi avevano non solo aiutata ad ambientarmi e ad abituarmi alla miriade di differenze ma soprattutto a ricercare le somiglianze. O quantomeno ad innamorarmi follemente di quella diversità che, in fondo, non è che l’altra faccia della luna. 

Reminescenze

Era arrivata davvero l’ora di salutarsi e io non sapevo come fare. 
Non ce l’avrei fatta a congedarmi secondo quelle rigide regole di bonton che avevano alimentato l’onda marina. 

Ma poi come avrei potuto limitarmi ad un garbo e contenuto arrivederci, così come se niente fosse, proprio con la mia cara amica Sakura con cui l’amicizia era arrivata improvvisamente senza cerimonie per poi decantare lentamente attraverso il filtro della graduale comprensione linguistica che dava finalmente una tridimensionalità al tutto?  

Con Sakura, o Saku-chan come mi permise di chiamarla non appena iniziò a sgretolarsi il muro linguistico, a cui avevo fatto assaggiare nella mia cucina la pasta al gorgonzola;

Saku-chan che, in un delicato pomeriggio che profumava di bacche di ginepro, mi portò a visitare il giardino silenzioso di un vecchio tempio le cui incisioni sulla grande stele commemorativa di pietra, proprio davanti all’ingresso, mi aiutò a leggere navigando insieme a me in una giungla di caratteri obsoleti;

Saku-chan ed io, passeggiando un pomeriggio soleggiato per la Zama Kamijuku, avevamo abbozzato un progetto a cui avrei ripensato tante, tante volte soprattutto nei miei momenti bui in cui il bagliore di quei miei giorni giapponesi sembrava così dolorosamente lontano;

Saku-chan che fedelmente mi accompagnò a scovare, in un bizzarro negozio di cose vecchie sembravano porte temporali affacciate sul periodo Edo, un intero servizio di scodelle di una particolarissima lacca rossa e che erano appartenute ai monaci di chissà quale tempio;

La partita Danimarca-Giappone dei Mondiali di calcio del 2010 che Saku-chan ed io seguimmo in contemporanea, aggiornandoci sui risultati tramite messenger;

L’assaggio della cucina di Okinawa là, in quella locanda scura che aveva un solo tavolo, assieme a Saku.

Sigillo dell’amicizia

Ci guardammo in silenzio. I nostri occhi avevano assunto quel sottile ma percettibile velo di lacrime che per il momento aderiva ancora a noi…ma avrebbe resistito poco.

Ci abbracciamo forte e un pianto liberatorio ma anche tanto sconfortato ci investì contemporaneamente.

Che andassero a quel paese la compostezza, la calma, il sorriso fintamente rilassato e le frasette di circostanza ricamate da ringraziamenti, promesse più o meno attendibili di futuri incontri e inchini. 

La nostra amicizia aveva ricevuto il suo suggello in quel preciso istante, nell’abitacolo di quell’utilitaria, nel piazzale trafficato della stazione di Ebina, in quella sera di fine luglio.

L’aria estiva satura di umidità e pregna della mia malinconica inquietudine perché il Giappone non lo avrei mai lasciato.

Il dono

Singhiozzando, Sakura spezzò dolcemente l’abbraccio e mi diede dei doni che avrei conservato gelosamente e che mi avrebbero seguita nel buio tunnel che mi aspettava qui in Italia. Lontana da quella luminosità che aveva caratterizzato i miei anni giapponesi.

Tra i regali che Sakura mi diede, e che si erano un po’ inumiditi delle nostre lacrime, un ricettario per preparare gli o-bentō.

Il ricettario di bento di cui mi fece dono Sakura, in quel piazzale di Ebina.

Non era un libro qualsiasi ma un volume che lei stessa acquistò nei suoi primi giorni di matrimonio quando, resasi conto delle sue scarse (a suo dire) doti culinarie in fatto di bento, necessitava di un supporto che la guidasse passo dopo passo nella buona realizzazione di un pasto da portare via. 

Il suo ricettario è ancora qui con me e lo consulto ogni tanto, forse non troppo spesso perché inevitabilmente riaccende una malinconia che non sempre sono pronta ad accogliere, ma è uno dei miei fedeli compagni di libreria.

Gli ultimi istanti

Ci abbracciammo ancora una volta. Nel sacchetto avevo messo tutti i suoi regali compresa una lettera che mi chiese di leggere durante il viaggio e non subito. Una richiesta che rispettai e onorai.

Riuscire a raccogliere tutte le proprie energie in quel momento e poter scendere da quell’auto richiese molta forza di volontà. 
Mi chiusi la portiera alle spalle e rimasi immobile per qualche istante fingendo che quella era una sera qualunque e che avrei rivisto Saku-chan nei giorni successivi e ci saremmo inventate qualche altra avventura.

Quando mi voltai, vidi che Sakura sorrideva ma aveva il volto rigato di lacrime e gli occhi che parevano luccicare. 
Aveva sul volto il sorriso di chi sa che deve sorridere per non soccombere al pianto.

La salutai con la mano, le sorrisi e mi mescolai nella penombra che divideva il piazzale da uno degli ingressi alla stazione. 
Salii le scale grigie e percorsi il corridoio che conduceva alla linea Sagami, quella piccola linea ferroviaria che attraversava il cuore verde delle risaie e mi portava fino a casa… là, in quella mia casa bianca e blu che ancora in un certo senso mi conserva.


Mariben: Le basi.

Parte1

Mariben
Mini guida ai Mariben

La rubrica dei Mariben, annunciata a metà aprile proprio qui con un articolo introduttivo, inizia oggi la sua prima puntata. Se non avete ancora letto quell’articolo vi consiglio di cominciare da lì per avere le idee chiare sugli obiettivi di questo neonato spazio tematico.

Che cosa sono i bento?

La parola giapponese 弁当 bento o お弁当 obento (che trovate traslitterata a volte anche come bentō o bentou dove il trattino sulla o finale oppure l’aggiunta di una u al fondo indicano l’allungamento vocalico che in giapponese ha valore distintivo*) si riferisce a un pasto sistemato all’interno di un apposito contenitore.

Se si volesse fare un paragone nella nostra cultura diremmo che i nostri bento sono la schiscetta o il baracchino (come lo chiamiamo a Torino) ecc.

Insomma, un pasto ordinatamente messo in un contenitore, pronto per essere consumato al lavoro, a scuola, in viaggio, durante un pic-nic.

Essenzialmente il bento è questo.

*D’ora in poi, per evitare confusione e per facilitare le ricerche di chi vuole informazioni su questo argomento, userò la traslitterazione “bento” che – pur essendo da un punto di vista strettamente linguistico imprecisa perché priva dell’allungamento vocalico – è la forma di trascrizione più comune in occidente.

vecchio bento
Un mio vecchio bento di antiquariato

Origini del bento

Ogni volta che si inizia a scavare nel passato alla ricerca delle origini di qualcosa ci si imbatte, molto spesso, contro elementi nebulosi che rendono il puzzle affascinante ma anche arduo da ricomporre.

L’etimologia può a volte essere una fonte stimolante da cui iniziare queste intriganti indagini.

Parrebbe, infatti, che la parola giapponese 弁当 bento derivi da 便當 biàndāng una parola cinese che un tempo significava comodo, pratico ma poteva anche riferirsi al sostantivo corrispondente.

Quindi il concetto di praticità gastronomica, cioè del non voler rinunciare ai piaceri del palato anche quando lontani da casa propria, era già stato eloquentemente formulato ed espresso nell’antica Cina, la prima e grande maestra del Giappone.

L’importanza del saper confezionare un pasto da asporto che fosse ben bilanciato, esteticamente gradevole e che si potesse conservare per un ragionevole lasso di tempo (ricordiamo che erano epoche dove non si aveva il lusso del frigorifero) era un sapere noto e coltivato.

D’altronde i bento, in Giappone soprattutto, avrebbero ricoperto un ruolo di rilievo in varie situazioni: dal viaggio alla pausa a teatro, dai festival alle varie ricorrenze che scandiscono il calendario giapponese.

Varie testimonianze ci raccontano delle prime tracce di questi pasti da asporto presenti già dal movimentato Periodo Kamakura (1185-1333), di un perfezionarsi di questa forma di gastronomia da asporto durante il mio amato Periodo Edo (1603-1868) fino a toccare curiosissimi sviluppi di questo elemento così squisitamente giapponese nel corso dei periodi storici successivi.

Penso ad esempio alla gogna a cui venne sottoposta la pratica del bento durante il Periodo Taisho (1912-1926) dopo la Prima Guerra Mondiale e l’indebolirsi dell’agricoltura perché percepito come pericoloso strumento di disparità tra figli di famiglie appartenenti a strati sociali diversi. Per me i bento del Periodo Taisho rimangono associati all’immagine della scatola di metallo semplice e senza decorazioni.

Il bento è stato poi riscoperto e in un certo senso “perdonato” per le sue tendenze discriminatorie intorno agli anni Ottanta, periodo del grande boom in questo senso, coadiuvato anche dai messaggi televisivi che orientavano l’opinione pubblica in favore nuovamente di questo antico pasto da asporto.

Tipi di bento

Esistono tanti tipi a seconda ad esempio di ciò che contengono. Possiamo pero dire che fondamentalmente esistono quelli casalinghi e quelli già pronti.

Tra quelli casalinghi annoveriamo i cosiddetti キャラ弁 kyaraben ovvero quegli elaboratissimi bento che le mamme giapponesi confezionano con tanta pazienza (ma anche tanta – forse troppa – competizione con le altre mamme) per i propri bambini. Si riconoscono perché sono molto belli e generalmente riproducono personaggi amati dai piccini come Doraemon, Pikachu, Spongebob ecc.

Sempre tra i bento casalinghi ritroviamo quelli semplici – e i miei preferiti – che milioni di mamme e moglie giapponesi preparano ogni giorno per il lavoro o per la scuola. Sono quelli preparati con ingredienti semplici ma che sanno di casa.

ekiben
Due miei ekiben sullo Shinkansen per Kyoto

In giapponese esiste una bellissima espressione per indicare il sapore speciale della cucina di casa o comunque quella della mamma: 袋の味 fukuro no aji. A me piace pensare che il fukuro no aji ci sia in tutti i bento preparati da qualcuno che vi vuole bene oppure in quelli che vi preparate da soli.

ekiben
Un delizioso ekiben al bambù che ho gustato sullo Shinkansen per Kyoto

Tra i bento già pronti, invece, ricordiamo gli 駅弁 ekiben ossia quelli in vendita presso le stazioni ferroviarie (駅 eki in giapponese significa proprio stazione). Spesso gli ekiben riflettono le specialità gastronomiche della zona in cui è ubicata la stazione stessa.

Gli ekiben sono certamente irrinunciabili se fate un viaggio sullo 新幹線 Shinkansen, il famoso treno ad alta velocità che collega il Kanto col Kansai.

Deliziosi bento già pronti si trovano in tutto il Giappone presso i famosi konbini, quei negozi aperti 24 ore su 24 e che vendono veramente di tutto. Quante volte, in preda alla pigrizia o semplicemente ad una fame incontenibile, ho comprato i bento dei konbini. Li ricordo ancora bene e con gastronomica nostalgia.

Di che materiale sono fatti i bento?

I materiali più comuni sono la plastica, il legno, la melamina, bambù intrecciato, ecc.

Tra i bento più pregiati e costosi, ma che sono anche tra i più belli in assoluto, ricordiamo i 曲げわっぱ magewappa fatti tutti a mano da abili artigiani, usando il profumatissimo legno di cedro della Prefettura di Akita.

Qui un esempio di magnifici magewappa di Akita-ken.


Parliamo di Mariben

E siccome questo spazio tematico è dedicato ai Mariben e a tutti i Mariben che preparete insieme a me, per adesso tralasciamo le notizie di carattere generale e su cui – non preoccupatevi – faremo ritorno a tempo debito.

Vediamo di iniziare a capire quale sia tutto l’occorrente necessario per cominciare.

Vi mostrerò tutto il materiale che secondo me serve per iniziare a confezionare dei Mariben casalinghi ricordando che anche questo spazio si fonda sullo stesso principio della mia rubrica di cucina giapponese casalinga, vale a dire:

tutto l’occorrente deve poter essere facilmente reperibile e ad un costo modesto. Non sarà obbligatorio (che pretesa assurda sarebbe!) procurarsi articoli originali giapponesi poiché a rendere speciali i vostri Mariben non saranno gli oggetti in sé ma il come deciderete di prepararne e disporne il contenuto.

I contenitori

Qui solitamente si parte dal presupposto che si debba tassativamente possedere un bento originale giapponese. Niente di più falso.

Se avete già dei bento giapponesi allora ovviamente rispolverateli e iniziate a utilizzarli con grande orgoglio. Se invece desiderate acquistarne uno sono certa che rimarrete soddisfatti del vostro acquisto.

Diversamente utilizzate dei normalissimi contenitori tipo Tupperware. Potete anche, se volete, fare un giretto in un negozio come Tiger (o Flying Tiger come si fanno chiamare adesso) dove ultimamente sono in vendita tanti bento semplici a prezzo veramente molto basso. La qualità di Tiger non è eccelsa ma per iniziare possono andare bene.

Vi mostro i contenitori che utilizzo io per i Mariben. Ne ho due tradizionali in legno e due più moderni in melamina.

Mariben di legno
I miei amati Mariben di legno giapponesi
Mariben
Dettagli di un Mariben in legno.

Tra i due di legno, il mio prediletto è quello rosso. Acquistai questi due contenitori in Giappone dalla bottega di un artigiano di cui non ricordo più il nome.

Mariben
Tra i due Mariben in legno, quello rosso è il mio prediletto.

E tra quelli in melamina vi sono questi due di Hakoya, uno dedicato al celebre Totoro e regalo della mia preziosa Akiko e l’altro un acquisto che feci dal Giappone qualche anno fa.

Quello blu mi piacque subito perché mi ricordava certe locande di Kyoto lungo le sponde del fiume Kamo.

Mariben moderni
I miei Mariben moderni, in melamina.

Accessori interni

Sugli accessori potete veramente sbizzarrirvi.

Potete utilizzare quei pirottini di carta per muffin di varie dimensioni, dei foglietti di バラン baran ovvero l’erbetta decorativa di plastica per sushi e ottimo divisore, coppette di silicone, stuzzicadenti decorati, ecc.

Accessori
Accessori per Mariben

La formina rossa a cuore per modellare le uova sode proviene da Tiger. I pirottini a pois viola e bianchi vengono da un comunissimo negozio di casalinghi e sono quelli classici per mini-muffin. Idem per la formina arancione di silicone.

I pirottini rettangolari, la baran colorata, i divisori di gomma e gli stecchini decorativi sono giapponesi ma sono tutte cose che potete facilmente rimpiazzare. La baran, ovvero quell’erbetta per sushi, adesso si trova molto comunemente nei market asiatici. Provate a dare un’occhiata!

–> Come divisore potete tranquillamente usare dei ritagli di carta da forno, ad esempio.

Consiglio: andate a curiosare nei negozi di casalinghi oppure nel reparto di articoli per feste di un qualunque ipermercato. Molto probabilmente troverete interessanti assortimenti di pirottini di vari materiali e stecchini decorativi con cui abbellire i vostri specialissimi Mariben!

Mariben
I miei stecchini o picks per Mariben

Per avvolgere i Mariben

Generalmente i bento sono dotati di un laccetto che li tenga ben chiusi. Il laccetto tuttavia non basta e allora si avvolge il bento in un panno che poi si annoda per bene oppure si può utilizzare un sacchetto.

A me piace usare entrambi i metodi ovvero sia il panno che il sacchetto. Ci sono volte in cui uso tutti e due contemporaneamente.

Se il vostro contenitore è un Tupperware o simili quasi sicuramente avrà una chiusura ermetica ben salda. Potrete allora decidere se avvolgere il vostro pranzo in un panno o se usare una borsettina.

Ricordate che il panno farà anche da tovaglietta.

Questa è la mia borsetta termica da bento. Come vedete è molto semplice e senza pretese ma ci sono tanto affezionata.

Mariben
Mariben avvolto nella borsetta termica

In Giappone generalmente si usano dei panni chiamati ふろしき furoshiki. Questi panni esistono di varie misure e di infiniti decori e colori.

Questi sono alcuni dei miei furoshiki.

furoshiki
Alcuni miei furoshiki
Furoshiki
Furoshiki per Mariben

Per il furoshiki andranno benissimo dei tovaglioli di stoffa un po’ ampi, dei panni o dei ritagli di un tessuto che vi piaccia particolarmente.

Anche qui non è assolutamente tassativo usare un furoshiki giapponese. Qualunque pezzo di tessuto quadrato può diventare un vostro bellissimo e irripetibile furoshiki.

Potete scegliere tra cotone, lino, tessuti sintetici. A voi la scelta. Personalmente consiglio tessuti come il rayon che sono maggiormente flessibili e permettono di essere piegati e annodati con più disinvoltura rispetto al cotone.

Preparate dunque i vostri accessori…

Perché dalla prossima puntata inizieremo a vedere da vicino la formula per preparare un vero bento giapponese che sia bilanciato ed esteticamente gradevole oltre che delizioso.

Ricordate di usare l’hashtag #Mariben e #biancorossogiappone 

Mata ne!

Cucina giapponese casalinga: due Asazuke 浅漬け

Due asazuke.

La nostra esplorazione della cucina giapponese casalinga, facilmente realizzabile in Italia, prosegue attraverso un elemento squisitamente tipico della tavola nipponica quotidiana: gli asazuke 浅漬け.

Ricorderete, molto probabilmente, il mio discorso sulla formula ichijuu-sansai 一汁三菜 su cui si fonda l’impostazione ideale del pasto giapponese tradizionale: ichijuu sta per una zuppa (generalmente di miso. Trovate qui la ricetta) e sansai per tre piatti che possono essere di carne, pesce, verdure ecc. più la nostra irrinunciabile scodella di riso la cui preparazione ho spiegato proprio qua.

Il pasto giapponese è un delicato gioco di equilibri, colori, sapori, forme e consistenze, il tutto armonicamente scandito dalla stagionalità e dalla freschezza degli ingredienti.

Anche nella più modesta katei-ryoori o cucina casalinga del Giappone – dico modesta perché spesso confinata dietro le quinte di un palco che mette in risalto la cucina giapponese formale o quella più conosciuta alla maggioranza – si cerca di non dimenticare di aggiungere tocchi di colore, sapore ed elegante equilibrio al pasto da servire in casa.

In un classico pasto washoku, sia nei ristoranti sia in casa, spesso si incontra un elemento che sembra davvero ricoprire un ruolo minore e secondario, quasi una sorta di comparsa volendo prendere in prestito termini cinematografici: gli tsukemono 漬物.

La parola tsukemono è un termine collettivo che fa riferimento ad una grande famiglia di ortaggi di molti tipi, conservati in salamoia.

Gli tsukemono sono realizzabili con un’ampia varietà di verdure e radici,  attraverso vari metodi che vanno dal più semplice e rapido (e che vedremo oggi insieme) ai più complessi e laboriosi come il metodo nukazuke ぬか漬け che prevede la fermentazione e conservazione degli ortaggi nella nuka ぬか, una pasta di crusca di riso.

Gli tsukemono, a cui in italiano facciamo riferimento per comodità come “sottaceti”, aggiungono colore e consistenza al pasto, fornendo un buon equilibrio anche a livello di digestione. Inoltre, un po’ tutti gli tsukemono aiutano a ripulire e rinfrescare il palato durante il pasto.

C’è uno tsukemono che forse quasi tutti conoscete già: il gari ガリ, ossia lo zenzero in salamoia comunemente servito in abbinamento con il sushi. Ma il gari non è che uno dei membri di questa grande e gustosa famiglia che esploreremo, un passettino per volta, insieme.

Come vi ho già anticipato, esistono molti metodi per la preparazione degli tsukemono. Alcuni semplici e altri complessi e praticati al giorno d’oggi solo da artigiani, dall’industria conserviera oppure da pochi e pazienti amanti degli tsukemono che ogni giorno amorevolmente rivoltano, massaggiano e lasciano fermentare in apposite anfore di creta quei deliziosi bocconi di ortaggi ricoperti di nuka.

Tra i metodi però più rapidi, semplici, alla portata di tutti e che godono di maggior stima a livello domestico vi è quello chiamato asazuke 浅漬け, un metodo che prevede la conservazione di verdure fresche usando semplicemente del sale, salsa di soia e altri semplici ingredienti per insaporire, servendosi di tempi ristretti di marinatura.

Il limite qui è davvero la fantasia.

Tra gli ortaggi esistono ovviamente i favoriti nella produzione di tsukemono, indipendentemente dal metodo. Alcuni dei più amati sono i cetrioli, il daikon (o la sua buccia), le foglie di cavolo, le carote, le melanzane, radice di loto, ume, zenzero, ecc.

Oggi qui su Biancorosso Giappone vedremo insieme come realizzare due semplicissimi asazuke, uno a base di carota viola di Polignano (sostituibile con una comunissima carota arancione) e uno a base di melanzana.

Sono entrambi asazuke, ma preparati con ricette leggermente differenti.

Entrambi richiedono pochi ingredienti ma soprattutto pochissimo tempo, permettendovi di realizzare due tsukemono casalinghi deliziosi, rapidamente.

Si prestano anche come eccellenti jobisai poiché è possibile prepararli con qualche giorno di anticipo e conservarli in frigo, pronti per essere utilizzati a tavola oppure quando è ora di confezionare un bento.

Vediamo il primo asazuke.

Murasaki no ninjin no asazuke 紫の人参の浅漬け
Asazuke di carota viola

Ingredienti

Ingredienti per asazuke.

Cosa ci occorre per preparare un asazuke di carote.

1 carota viola di Polignano un po’ grande (oppure una carota comune arancione)

mezzo cucchiaino di sale marino

mezzo peperoncino, privato dei semini

Procedimento

  1. Lavare, sbucciare la carota ed eliminarne le estremità.
  2. Tagliarla a striscioline abbastanza sottili usando, se volete, la stessa tecnica illustrata per il kinpira che vi avevo mostrato qui.
Preparazione asazuke.

I passaggi della preparazione dello asazuke di carote.

3. Seguire i passaggi illustrati nella sequenza fotografica che vedete qui sopra ossia: in un sacchetto di plastica pulito per alimenti inserire la carota a striscioline, il sale e il mezzo peperoncino affettato. Chiudere il sacchetto e metterlo in una ciotola su cui poggerete un peso (io ho semplicemente usato un’altra scodella).

4. Lasciare riposare a temperatura ambiente per un’oretta. Quando fa caldo, lasciate riposare in frigorifero.

5. Servire in una bella scodellina o piattino.

Asazuke di carota.

Asazuke di carota viola di Polignano.

Per questo asazuke ho utilizzato del sale marino della Camargue, ma potete usare qualunque sale abbiate a disposizione. Nessun problema. Massima flessibilità.

Sale della Camargue.

Sale della Camargue.

Il secondo asazuke di oggi, invece, ha come protagonista la melanzana. Io ne ho usata una piccola e lunga. Tenete quindi presente che con una melanzana panciuta nostrana converrà usarne metà oppure raddoppiare le dosi del condimento che comunque, come vedrete, sono molto libere.

Nasu no asazuke ナスの浅漬け

Asazuke di melanzana

Ingredienti

Asazuke di melanzana.

Cosa ci occorre per un buon asazuke casalingo di melanzana.

1 melanzana piccola

due pizzichi di sale

salsa di soia q.b.

dashi granulare q.b. *

*Potete saltare questo ingrediente, se non lo avete. Oppure potete sostituirlo con un pizzico di paprika o peperoncino di Cayenna in polvere, pepe nero ecc.

Vi rimando, inoltre, alla spiegazione sui dashi giapponesi al mio intervento precedente, qui.

Procedimento

  1. Lavare bene la melanzana ed eliminarne le estremità.
  2. Tagliarla a metà per lungo e tagliare ogni parte ancora una volta a metà, sempre per lungo.
  3. Spargere sulla melanzana pochissimo sale, non più di due pizzichi, e lasciare riposare per un paio di minuti.
Salatura della melanzana.

Preparazione dello asazuke di melanzane.

4. Non lasciare la melanzana in compagnia del sale per troppo tempo. Risciacquarla bene sotto un getto d’acqua fredda e asciugarla.

5. Tagliarla a pezzetti piccoli e mescolarla alla salsa di soia (circa due cucchiaini e mezzo per una melanzana di queste dimensioni) e al dashi granulare. Se non usate il dashi, usate qualche pizzico di paprika, peperoncino di Cayenna, del pepe nero o anche – perché no – qualche strisciolina di scorza di limone tagliata finemente.

6. Servire in una bella scodellina o piattino.

Asazuke di melanzana

Asazuke di melanzana

Asazuke di melanzana

Asazuke di melanzana

Entrambi gli asazuke si conservano in frigo, in un sacchetto per alimenti o in un contenitore di plastica o vetro, per 3 o 4 giorni.

Concludo ringraziando Daniela del blog The Messy Luggage che ha voluto annoverare la pagina #Instagram di Biancorosso Giappone tra i profili consigliati.

Trovate qui la sua gentile e generosa recensione.

Alla prossima ricetta di katei-ryoori!

E come si dice in giapponese prima di mangiare e bere:

Itadakimasu!

いただきます!

Cucina giapponese casalinga: Tamagoyaki 玉子焼き

Tamagoyaki o frittata giapponese

Un buon tamagoyaki facilmente realizzabile.

Tra i tanti piatti di cucina giapponese casalinga che ho selezionato appositamente per questa rubrica e che ho dunque intenzione di proporre non poteva mancare un vero classico: il tamagoyaki 玉子焼き o frittata giapponese. Un altro nome con cui è noto è dashimaki だし巻き. Esiste anche un’altra versione chiamata datemaki 伊達巻 che però è molto più spugnosa, dolce e sostanziosa ed è tipica dell’osechi-ryoori おせち料理 ossia della cucina di Capodanno. Mi cimentai nella preparazione di un tradizionale osechi alcuni anni fa e potete leggerne il resoconto qui dove vedrete, fra le varie delizie, anche il tipico datemaki.

Imparai a preparare il gustoso tamagoyaki in Giappone, dalla mia cara amica Akiko. Fu lei ad insegnarmi la tecnica e poi io, da sola nella mia spaziosa cucina di allora, mi esercitai molto mettendo in pratica i trucchetti e le accortezze che mi aveva insegnato.

Chi di voi mi legge da tempo forse ricorderà proprio il mio famoso articolo del 2007 intitolato “Tamagoyaki con Akiko-san” che potrete rileggere cliccando qui.

Mi piaceva molto l’idea di realizzare questa frittata dall’aria cosi diversa dal solito. Il suo aspetto apparentemente complicato la rendeva ancora più invitante.

La frittata giapponese si differenzia da quella italiana essenzialmente per due ragioni:

  1. L’aspetto: il tamagoyaki è una frittata di frittate, composta da tante frittatine sottili arrotolate l’una sull’altra;
  2. il sapore: a differenza della frittata italiana, qui non mettiamo ad esempio il formaggio. Generalmente è più dolciastra per la presenza dello zucchero e ha inoltre una nota di pesce dovuta al dashi che le conferisce quel sapore tipico nipponico. Vedremo nel dettaglio però le varie possibilità relative agli ingredienti.

Riscontro spesso molta curiosità nei confronti del tamagoyaki, una curiosità però mista a reticenza all’idea di cimentarsi nella sua preparazione perché si pensa sia troppo complessa, sia per la tecnica che per gli utensili necessari.

Quali utensili speciali saranno mai così indispensabili? – Vi starete probabilmente domandando.

La caratteristica principale del tamagoyaki è la sua forma: una sorta di tronchetto cilindrico composto da tante frittatine l’una sull’altra.

Per poter ottenere facilmente questo effetto si ricorre, comunemente, ad un’apposita padella particolare dalla forma rettangolare chiamata tamagoyaki-ki 玉子焼き器 (letteralmente significa strumento/utensile per tamagoyaki).

Ecco la mia tamagoyaki-ki:

Padella per tamagoyaki

La mia tamagoyaki-ki.

Sopra vedete appoggiate le mie saibashi 菜箸, ossia le bacchette che si usano per cucinare. Ne ho due paia, ma alla fine uso sempre quelle con la decorazione nera perché vi sono affezionata.

Bacchette da cucina.

Tipiche saibashi o bacchette per cucinare.

Posso però capirlo: l’idea di preparare con le bacchette tante frittatine sottili, per giunta sovrapposte l’una sull’altra, mette abbastanza in soggezione.

E’ facile immaginarsi scene disastrose di frittate bruciate, bacchette che volano, una cucina in disordine e – dopo tutto questo pasticcio – niente di pronto da mangiare.

Ma in realtà è molto più semplice di quel che si creda. Tuttavia, una cosa non negherò: per imparare a fare il tamagoyaki alla vecchia maniera ossia con bacchette e tamagoyaki-ki è necessario essere pazienti e fare un po’ di pratica, ma … chi l’ha detto che non possa esserci un’altra maniera leggermente più rapida e alla portata di tutti tutti proprio tutti?

E soprattutto, considerando la filosofia di questa rubrica che si propone – repetita iuvant – di illustrare classici della cucina casalinga giapponese facilmente realizzabili anche in Italia, come potevate pensare che mi sarei limitata a presentare una ricetta tradizionale senza riadattarla e adeguarla alle comuni cucine italiche?

Infatti, come vedrete, oggi vi mostrerò come realizzare un buon tamagoyaki in due modi: sia alla maniera classica sia alla maniera alternativa cioè senza bisogno di acquistare alcunché di nuovo o di non comune. Neppure gli ingredienti perché, come vedrete, sono tutti forse già presenti nel vostro frigorifero o dispensa.

Prestatemi, dunque, attenzione.

Per prima cosa eliminiamo subito la paura delle bacchette da cucina o saibashi: se le avete e le sapete usare, molto bene. Diversamente, nessunissimo problema: utilizzate tranquillamente una paletta di legno o di plastica. Non consiglio di usare forchette poiché lavoreremo con padelle antiaderenti che non vanno graffiate.

Seconda innovazione: se avete una tamagoyaki-ki, ottimo! Usatela e prendetevene cura. Se non l’avete, non crucciatevi: esistono sempre le alternative. E oggi ve ne mostro una. Volete sapere qual è l’alternativa? Una comunissima padella antiaderente.

Avete letto bene: non vi servirà avere una padella apposita da tamagoyaki, ma potrete usare una normale padella antiaderente.

Alcune precisazioni, ora, sugli ingredienti.

Di ricette per il tamagoyaki ne esistono tante. Non credo ve ne sia una corretta in assoluto. Esistono però elementi ricorrenti e comuni.

Ovviamente, le uova. Senza le uova non si può andare molto avanti col discorso. Quindi, se siete allergici alle uova, non vi piacciono o non le mangiate per motivi vostri, vi invito a provare un’altra delle ricette presenti nella mia rubrica.

Lo zucchero: il tamagoyaki in Giappone tende ad essere molto dolce, forse fin troppo per un palato italiano. Ma qui potete regolarvi in base ai vostri gusti e preferenze.

La componente liquida: a seconda delle ricette, troverete chi usa l’acqua, il dashi, la salsa di soia oppure un mix di tutto. Quando penso alla salsa di soia nel tamagoyaki la mia mente va sempre ad Akiko che mi raccontava che sua mamma, quando lei era piccola, le preparava il bento da portare a scuola. Nel bento c’era spesso il tamagoyaki che però sua mamma preparava usando la salsa di soia. La salsa di soia scurisce un po’ il colore della frittata e alla piccola Akiko questo non piaceva e quindi andava a scuola sempre un poco imbronciata all’idea di avere, nel suo bento, un tamagoyaki scuretto e non dorato come quello che avevano gli altri compagni.

Il sale: si può mettere se non usate la salsa di soia. Se la usate, saltatelo.

Per quanto riguarda il dashi, io uso d’abitudine quello granulare. Se non lo avete, preparatelo fresco seguendo le indicazioni che vi avevo riportato qui. Se non avete dashi di nessun tipo, saltatelo a piè pari e piuttosto compensate con la salsa di soia. Vi dirò come e in che proporzioni.

Come già precisato, vi farò vedere come realizzare il tamagoyaki sia alla maniera tradizionale, ossia con l’apposito padellino rettangolare  sia alla maniera riadattata per le nostre cucine ossia con un normale padellino tondo antiaderente. La procedura è esattamente la stessa; cambiano solo gli utensili.

Ingredienti per il tamagoyaki 玉子焼き.

Ingredienti per il tamagoyaki.

Tutto quello che vi occorre per il tamagoyaki.

3 uova

3 cucchiai d’acqua*

1 pizzico di sale

1 pizzico di zucchero

1 cucchiaino di dashi granulare**

olio vegetale per ungere la padella

*Se volete usare la salsa di soia, inseritela qui usando 2 cucchiai di acqua e 1 cucchiaio di salsa di soia. Se non la volete, lasciate i 3 cucchiai d acqua. Se usate la salsa di soia, saltate il sale mi raccomando.

**Se non avete il dashi granulare ma avete quello fresco (dashi di pesce, shiitakedashi o konbudashi), semplicemente usate 3 cucchiai di dashi al posto dei 3 cucchiai d’acqua. Se non avete nessun tipo di dashi, saltatelo a piè pari. Potete, se volete, compensare usando la salsa di soia nelle dosi indicate poc’anzi.

Procedimento

Per illustrarvi il procedimento, che rimane invariato sia con la padella rettangolare che con quella tonda, ho preparato una sequenza fotografica che va letta seguendo i numerini apposti sulle immagini. Segue descrizione di ogni passaggio.

Preparazione frittata giapponese

Sequenza illustrata relativa alla preparazione del tamagoyaki casalingo.

  1. In una scodella versare le tre uova, lo zucchero, il sale, l’acqua, il dashi granulare. Se usate la salsa di soia, aggiungetela ora nelle giuste proporzioni indicate.
  2. Con le saibashi oppure con una forchetta o frusta sbattere le uova. Attenzione a non incorporare troppa aria nel composto! Sbattete senza metterci troppa forza. Con le bacchette, ma lo potete fare anche con la forchetta, cercate di spezzare l’albume. Questo si fa per una questione principalmente estetica perché spezzandolo non sarà troppo visibile nel prodotto finito.
  3. Prima della cottura, preparatevi tutto: la padella, l’uovo sbattuto, una scodellina con dell’olio vegetale, un pezzo di carta da cucina, le bacchette oppure una paletta di plastica o legno.
  4. Passaggio importante: scaldate la padella, a secco, a fiamma alta per un paio di minuti dopodiché toglietela dal fuoco e appoggiatela sopra un panno umido. Questa operazione consente di portare la padella alla giusta temperatura ideale per cuocere il tamagoyaki bene senza bruciarlo.
  5. Riportate la padella sul fuoco, a fiamma questa volta medio/bassa e ungetene l’interno con la carta da cucina imbevuta d’olio. Ricordate che la pentola andrà unta ad ogni passaggio ossia prima di ogni frittatina.
  6. Versare un primo mestolino di uovo sbattuto. Non aspettate che si cuocia interamente prima di iniziare ad arrotolare la frittata! Cominciate ad arrotolarla quando sarà cotta a metà circa. Non preoccupatevi perché le frittatine avranno tempo a sufficienza per cuocere man mano che andrete avanti.
  7. Arrotolate la frittata partendo dall’esterno e portandola verso di voi. Riportatela dalla parte opposta e prima di versare altro uovo passate nuovamente la carta da cucina imbevuta d’olio. Ora versate altro uovo e procedete allo stesso modo come prima fino ad utilizzare tutto il composto, ricordandovi sempre di ungere la padella tra una frittatina e l’altra.
  8. Andate avanti fino a quando avrete finito tutto l’uovo.
  9. Tamagoyaki finito!

Una volta che il vostro tamagoyaki è pronto potete affettarlo e servirlo subito, ma sarebbe meglio prima avvolgerlo in un foglio di carta da cucina e poi in un makisu 巻き簾 o stuoia di bambù (di quelle che si usano per fare i makizushi). Così facendo potrete modellare un pochino il vostro tamagoyaki e al tempo stesso eliminare l’olio in eccesso.

Tamagoyaki e makisu.

Arrotolare il tamagoyaki nella stuoietta di bambù è un modo per modellarlo ulteriormente.

Come vi avevo anticipato, la procedura per preparare il tamagoyaki con una normale padella antiaderente è esattamente come quella appena vista. Cambiano solo gli utensili e ovviamente cambierà anche un pochino la forma del tamagoyaki stesso che si adatterà a quella della padella classica.

La seguente sequenza vi mostrerà brevemente i passaggi della preparazione del tamagoyaki con una padella tonda:

Tamagoyaki in una padella tonda.

Preparare un tamagoyaki usando una comune padella tonda.

Anche il tamagoyaki preparato nella padella tonda andrà poi avvolto in un foglio di carta da cucina e, se lo avete, nella stuoietta di bambù. Se non avete quest’ultima, non importa. Sarà sufficiente il tovagliolo.

Come vedete, la differenza non è enorme fra i due tamagoyaki. Cambia solo un pochino la forma.

Due tamagoyaki.

Due tamagoyaki: uno classico e l’altro alternativo.

Prima di servire il tamagoyaki solitamente se ne tagliano le estremità chiamate mimi 耳 che significa orecchie. Le mimi, considerate esteticamente poco graziose, sono però un boccone prelibato che spesso finisce alla cuoca oppure al marito curiosone che viene a vedere che succede in cucina. Solitamente le mimi non si servono agli ospiti proprio per una questione di presentazione.

Affettando il tamagoyaki.

Tagliamo le mimi al tamagoyaki.

Tagliate le mimi anche al vostro tamagoyaki fatto nella padella tonda e servitelo come preferite.

Ecco qui, nel piatto di portata, il tamagoyaki realizzato alla maniera tradizionale nella padella rettangolare:

Tamagoyaki

Tamagoyaki realizzato nella padella rettangolare.

Ed ecco qui, invece, il tamagoyaki realizzato in una comune padella tonda antiaderente:

Tamagoyaki

Tamagoyaki realizzato in una comune padella tonda.

Siete pronti ora a provarci anche voi? Aspetto i vostri commenti e le vostre foto.

Alla prossima ricetta di katei-ryoori!

E come si dice in giapponese prima di mangiare e bere:

Itadakimasu!

いただきます!

Cucina giapponese casalinga: Kabochakin かぼちゃきん

Dolcetto di zucca

Una delizia autunnale: i kabochakin

L’estate è ufficialmente un ricordo. Lo era già qualche settimana fa, ma da oggi credo che quell’alone di memoria distante e un po’ sbiadita si acuirà.

La mia rubrica sulle ricette giapponesi casalinghe, ma facilmente realizzabili in Italia, oggi si arricchisce di una ricetta molto speciale: i kabochakin かぼちゃきん.

Perché sia speciale, lo capirete strada leggendo.

Pubblicai per la prima volta la ricetta dei kabochakin nel febbraio del 2009, proprio qui.

La parola kabochakin, inserita su Google, vi porta in automatico a me.

A seguito di quella mia gettonata e apprezzata ricetta, i kabochakin furono replicati da tantissimi lettori.

A distanza, dunque, di anni ho pensato di rispolverare questa amata ricetta in quanto è perfettamente compatibile con la filosofia della rubrica:

a. è autentica giapponese;

b. è facilissima da realizzare anche in Italia;

c. non richiede attrezzature o abilità particolari;

E in più, cosa non trascurabile, si adatta amorevolmente bene alla stagione poiché il suo ingrediente principale è l’autunnale zucca.

Di tutto il repertorio dei wagashi 和菓子, o dolci tradizionali giapponesi, forse i kabochakin sono i più facili da realizzare in assoluto e quindi ideali per tutti!

I kabochakin sono inoltre un delizioso elemento da inserire nei bento, sia dei grandi che dei piccoli, ma naturalmente sono molto buoni anche serviti da soli, accompagnati da una delicata tazza di tè.

Sono doverose due precisazioni, prima di iniziare:

Prima precisazione: la ricetta originale prevede l’uso della kabocha かぼちゃ (nome scientifico: Cucurbita Maxima) che è una varietà tipica asiatica della zucca. E’ caratterizzata da una buccia dura verde e da una polpa molto dolce, soda e asciutta. Se riuscite a trovarla anche voi allora preferitela certamente, altrimenti potete serenamente utilizzare la comunissima zucca nostrana. Quella che ho usato io era una normale zucca a pezzi, acquistata alla Coop.

Seconda precisazione: la kabocha, avendo una polpa molto soda e asciutta, permette di ottenere un composto altrettanto asciutto e modellabile. Le nostre zucche tendono ad essere meno asciutte, anche se questo dipende dalla varietà scelta e dal metodo di cottura. Tuttavia, tenete bene a mente questo fatto per evitare che il composto risulti troppo umido. Comunque sia, nella ricetta vi indicherò anche una sorta di procedura d’emergenza per correggere il composto qualora risultasse non adeguatamente asciutto e modellabile.

La seguente ricetta permette di preparare 3/4 kabochakin, ma il numero può variare in base alla quantità di impasto che deciderete di modellare di volta in volta.

Kabochakin かぼちゃきん. Ingredienti.

zucca sbucciata a pezzi 200g

acqua 4- 5 cucchiai al massimo (oppure un cucchiaino e mezzo se la cuocete al microonde)

zucchero 1 pizzico

sale 1 pizzico

burro 1/2 cucchiaino scarso (facoltativo. Potete anche saltarlo)

zucchero a velo q.b.

farina q.b. (è necessaria solo per asciugare il composto, nel caso ne aveste bisogno)

Ingredienti necessari

Tutto l’occorrente per i kabochakin.

Procedimento

Come vedrete, la realizzazione è molto semplice.

Decidete subito se cuocere la zucca al microonde, nella pentola a pressione, nella vaporiera oppure – come ho fatto io – semplicemente in un pentolino con poca acqua. Questo passaggio è importante perché determinerà la compattezza del composto!

Regolatevi in base al vostro microonde, pentola a pressione o vaporiera. Saprete voi quanta acqua serve per stufare la zucca senza inumidirla troppo.

Io non ho un microonde, ma in Giappone sì ed era lì che cuocevo la zucca per i kabochakin usando un cucchiaino e mezzo d’acqua che aggiungevo direttamente sulla zucca, in una scodella.

Qui ho messo semplicemente la zucca a pezzi in un pentolino antiaderente. Descriverò quindi il procedimento che ho usato io.

  1. In un pentolino antiaderente mettere la zucca a pezzi e – per cominciare – 2 cucchiai d’acqua. Siate molto parchi con l’acqua, aggiungendola gradatamente. Fate cuocere, con coperchio, a fiamma bassissima.
  2. Ogni tanto, controllate con una forchetta per verificare il grado di cottura della zucca. Si deve poter schiacciare facilmente, proprio come se dovessimo fare un purè. Nel pentolino, a fiamma bassa, ci vorranno all’incirca 15 minuti.
  3. Evitate di aggiungere acqua, se possibile. Mettetene solo se assolutamente necessario. Non appena la zucca sarà completamente cotta, spegnere il fuoco.
  4. Scolare la zucca e metterla in una scodella, con zucchero, sale e il burro se lo usate.
    Zucca bollita

    Prepariamo il composto dei kabochakin!

    5. Siate molto avari col burro, se decidete di usarlo. Non solo per una questione calorica, ma anche perché apporta una componente liquida ad un composto che deve rimanere asciutto. Mezzo cucchiaino scarso e non di più. Potete anche saltare il burro a piè pari, ma aggiungendolo il composto assumerà una nota molto delicata e che sarà gradita soprattutto se i vostri kabochakin sono destinati a dei bimbi.

6. Mescolare tutto molto molto bene.

Purea di zucca.

Il composto dei kabochakin.

7. Se il composto dovesse risultare troppo umido, seguite una o entrambe le procedure d’emergenza che ora vi indico:

a. Mettete il composto in un pentolino antiaderente pulito e ripassatelo a fiamma molto bassa fino a quando l’umidità si sarà asciugata. Fate attenzione a non bruciare il composto!

b. Aggiungete, un po’ per volta e senza esagerare, qualche pizzico di farina di riso oppure di grano.

8. Una volta che il composto si presenterà adeguatamente modellabile, prendete un pezzo di pellicola per alimenti e spargete sulla superficie un po’ di zucchero a velo. Andate ad occhio, ma non mettetene tanto.

9. Mettete ora al centro della pellicola una cucchiaiata di composto, piegate la pellicola a mo’ di fagotto e chiudete bene attorcigliando le estremità della carta.

Per modellare i kabochakin

Come modellare i kabochakin

10. Aprite la pellicola e delicatamente prelevate il kabochakin che dovrebbe venir via abbastanza facilmente. Non preoccupatevi assolutamente se non sarà perfetto. Anzi, sarà proprio il suo aspetto imperfetto a dargli quel rassicurante tocco casalingo che distingue la katei-ryoori 家庭料理 dalla cucina, diciamo così, ufficiale. Questo metodo permette, inoltre, di modellare il dolcino in modo tale da farlo quasi assomigliare a una piccola zucca! Non credete?

11. Adagiate i kabochakin sopra un piattino o un vassoio. Inventatevi un modo creativo per presentarli. Se lo gradite, potete guarnire i vostri dolcini con una spolverata leggera di zucchero a velo, zucchero granulato, semi di sesamo, gocce di cioccolato, ecc.

Dolcetto di zucca.

Un kabochakin.

Kabochakin o dolcetti giapponesi

Kabochakin e maneki-neko!

12. Servire da soli, con del buon tè (con del sencha creereste una deliziosa merenda giapponese) o del caffè. A voi la scelta.

Kabochakin

Kabochakin: dolcini autunnali.

Scegliete dei bei piattini oppure un vassoio su cui presentare i vostri kabochakin.

Io ho scelto queste lacche.

Ma sono lacche un po’ particolari, debbo dirlo.

Non solo per il fatto di essere lacche artigianali e pregiate, ma perché sono ritornate a me attraversando molto dolore.

Sono lacche di dolore. Tanto.

Forse, anzi no, è per questo che erano rimaste chiuse in un cassetto per tanto tempo. Sono ritornate alla luce oggi, grazie a questi kabochakin.

Queste lacche, seppur ritornate a me attraverso il dolore, rivelano grande bellezza e decori di struggente nipponicità.

E ne rivelo un po’ anche a voi. Ma solo un po’.

Lacca giapponese

Una mia lacca giapponese.

Lacca giapponese

Una mia lacca.

I nostri kabochakin sono pronti e non ci resta che assaporarli, godendo della dolcezza della zucca e dei suoi colori così rassicuranti.

Kabochakin

Kabochakin

Alla prossima ricetta di katei-ryoori!

E come si dice in giapponese prima di mangiare e bere:

Itadakimasu!

いただきます!

Cucina giapponese casalinga: Yaki-onigiri 焼きおにぎり

Onigiri alla piastra

Yaki-onigiri di una pigra domenica di fine settembre.

Questa rubrica dedicata alla cucina giapponese casalinga ha ormai preso il via andando oltre, per adesso, la prestabilita cadenza settimanale. Mi ritrovo ancora una volta, questa settimana, ad arricchire questo neonato spazio insegnandovi a preparare gli yaki-onigiri 焼きおにぎり.  Uno spazio, questo, che nella mia mente immagino colmo di semplici ricette dai sapori quotidiani del Giappone, realizzabili però senza difficoltà alcuna anche in una qualunque cucina d’Italia, proprio come la mia.

Desidero che questa rubrica diventi fonte di idee e incoraggiamento per tutti coloro i quali vogliono o vorrebbero avvicinarsi ai sapori della cucina giapponese casalinga, ma non hanno accesso a tutti gli ingredienti (e in Italia, almeno qui a Torino, la difficoltà è reale) e non possiedono pentole rettangolari da tamagoyaki, suribachi, otoshibuta, misokoshi e altri utensili presenti normalmente nelle cucine giapponesi.

E’ la facile realizzabilità in Italia il criterio che ho scelto. L’ispirazione, debbo ammetterlo è arrivata anche dalle tante letture che facevo e faccio di blog di giapponesi espatriati per tante ragioni, in varie parti del globo, e dei loro esperimenti nel tentare di ricreare i sapori di casa propria in luoghi dove spesso è difficile persino trovare del riso adatto.

Ma la mia rubrica, anziché essere rivolta agli expat giapponesi, è dedicata agli italiani appassionati o semplicemente curiosi della tavola del Giappone.

Oggi è domenica e la domenica ha sempre un sapore sospeso a metà tra la pigrizia e la malinconia. E’ il punto che mette fine al riposo. E’ la fine di una f(r)ase che sarà seguita da un’altra e poi un’altra ancora.

E’ tutto scandito, oggi, da ritmi pigri.

Un cane abbaia. Dei bambini giocano. Da qualche parte arrivano voci concitate e risate di gente felice. Il cielo di fine settembre inizia ora a tingersi di tonalità bluette già verso le sette e mezza di sera, elevando a ricordo le lunghe giornate d’estate incorniciate dall’afa.

Seguitemi nella mia cucina in questa pigra e malinconica domenica di fine settembre.

Prepareremo insieme gli yaki-onigiri 焼きおにぎり o onigiri alla piastra.

Il loro sapore, semplice e pulito, mi ricorda l’autunno in Giappone.

A piedi, andavo a comprarmi gli yaki-onigiri da Family Mart, in fondo alla strada, oppure ne ordinavo uno o due da Kakashi-ya.

Gli onigiri sono gli snack nativi per eccellenza. Ideali per spezzare la fame in qualunque momento della giornata, si prestano alla perfezione anche per il bento o per un pic-nic all aperto.

Quelli che vedremo oggi sono la versione alla piastra. Si parte da riso condito che verrà modellato come si desidera e poi passato in padella oppure alla griglia.

Yaki-onigiri 焼きおにぎり. Ingredienti per 4 onigiri.

Gohan o riso al vapore (seguite le dosi e il procedimento indicato qui)

Dashi 1 cucchiaino (seguite le istruzioni qui altrimenti sostituite con un cucchiaino d’acqua)

salsa di soia 2 cucchiai

zucchero 1 cucchiaino scarso

olio di sesamo 1 cucchiaino

semi di sesamo q.b.

Ingredienti per yaki-onigiri

Tutto quello che occorre per gli yaki-onigiri.

Procedimento

  1. Preparare il riso al vapore seguendo il procedimento che vi ho illustrato precedentemente. Lo trovate qui.
Gohan o riso al vapore

Si parte dal gohan fresco.

2. Trasferire il riso cotto in un recipiente e condirlo con tutti gli ingredienti in lista, ossia dashi (o acqua), salsa di soia, zucchero, olio di sesamo e semi di sesamo. Mescolare molto bene. Attenzione a non abbondare troppo col condimento perché si rischia di rendere troppo umidi gli onigiri e di comprometterne la compattezza.

Gohan condito

Gohan condito, pronto per essere modellato.

3. Modellare il riso. Se siete abbastanza esperti, vi basterà inumidirvi le mani con un po’ di acqua salata e procedere alla preparazione degli onigiri. Diversamente, potrete servirvi delle apposite formine se le avete oppure utilizzare il metodo più pratico e che accontenta tutti, risparmiandovi grattacapi e chicchi attaccati ovunque. Il metodo consiste semplicemente in un pezzo di pellicola per alimenti in cui metterete la dose di gohan condito da modellare. Così:

Onigiri

Modelliamo gli onigiri con un metodo pratico e adatto a tutti.

4. Chiudete la pellicola attorcigliandola e poi con le mani date al riso la forma che preferite. Gli onigiri non sono obbligatoriamente solo triangolari, ma possono essere cilindrici, sferici, ecc.

Preparazione onigiri

Diamo una forma al nostro onigiri!

5. Con delicatezza, trasferiamo gli onigiri modellati su un piatto.

Onigiri

Ecco gli onigiri pronti per essere grigliati.

Anche senza passare dalla padella, hanno un aspetto davvero appetitoso!

Onigiri

Un onigiri che presto diverra yaki-onigiri!

6. Mettete a scaldare, a secco cioé senza aggiungere olio o altro, una padella antiaderente. E’ importante che il tegame sia antiaderente altrimenti si attaccherà tutto. Lasciar scaldar bene a fiamma media.

7. Facendo attenzione a non romperli, adagiate i vostri onigiri nella padella calda.

Onigiri in cottura

Yaki-onigiri in cottura

Onigiri in cottura

Yaki-onigiri in cottura

8. Lasciarli tostare per alcuni minuti per lato o fino a quando si formerà una leggera crosticina in superficie. Attenzione a non bruciarli!

9. A fine tostatura, se lo si desidera, dare un’ulteriore spennellata di salsa di soia su ambo i lati.

10. Servire ben caldi, accompagnati da qualche sottaceto o tsukemono (vedremo prossimamente insieme alcune ricette per realizzarne di semplici) oppure verdura fresca.  Se desiderate, potete anche avvolgere i vostri yaki-onigiri in mezzo foglio di alga nori.

Yaki-onigiri

Uno yaki-onigiri pronto da divorare!

A seconda del tipo di salsa di soia che userete, i vostri yaki-onigiri risulteranno più o meno scuri. Ma saranno deliziosi in ogni caso!

E se vi avanzano? Dubito, ma così fosse potete tranquillamente congelarli.

La nostra obaachan おばあちゃん consiglia – se si intende consumarli in giornata o il giorno dopo al massimo –  di avvolgerli con della pellicola per alimenti e di tenerli fuori dal frigo. Il frigo indurisce il riso quindi ne è sconsigliato l’uso.

Alla prossima ricetta di katei-ryoori!

E come si dice in giapponese prima di mangiare e bere:

Itadakimasu!

いただきます!

Cucina giapponese casalinga: Norizuae のり酢あえ

Norizuae giapponese

Norizuae: una semplice delizia.

Dopo la lunga, ma credo necessaria, panoramica sul miso e sulla gustosa zuppa che con esso si prepara, oggi ritorniamo alle ricette semplici, veramente veloci ed economiche della cucina giapponese casalinga, con il norizuae のり酢あえ.

Nella cucina giapponese i piatti vengono generalmente suddivisi per categorie, in base al metodo di preparazione (bollitura, frittura, ecc.) oppure in base ad un ingrediente che contengono.

Tra le categorie, vi è quella dei sunomono 酢の物 che raggruppa i piatti a base di aceto, in giapponese O-su お酢 . Sunomono, letteralmente, è traducibile con “cose all’aceto”.

Il piatto di oggi, il norizuae, rientra in questa categoria in quanto l’aceto è uno degli ingredienti che useremo.

Il norizuae è, solitamente, un piatto che compare curiosamente nelle mense aziendali o scolastiche, in Giappone, ma che ultimamente sta trovando popolarità anche nei menù casalinghi poiché non solo è molto buono, ma è veloce e decisamente economico da realizzare.

Attraverso una serie di bizzarre circostanze, sono entrata in possesso di questa ricetta che appartiene alla signora Sato e che ringrazio. E’ il norizuae che in casa Sato non manca mai!

Norizuae のり酢あえ. Ingredienti per 3/4 persone. 

germogli di soia freschi 150g

spinaci freschi 100g

un foglio di alga nori

una scatoletta di tonno* da 80g, sgocciolato

salsa di soia 2 cucchiai

aceto di riso 1 cucchiaio

1 cucchiaino di sale (per bollire le verdure)

Ingredienti

Tutto quello che occorre per un buon norizuae.

*Potete usare tonno al naturale, all’olio di oliva, girasole ecc. Insomma, utilizzate ciò che avete.

Preparazione

  1. Lavare bene sia gli spinaci che i germogli di soia.
  2. Riempire una pentola con acqua e portarla ad ebollizione. Versarvi il cucchiaino di sale.
  3. Nell’acqua che bolle mettere a cuocere gli spinaci per 1 minuto. Trascorso il minuto, girarli e lasciarli cuocere per altri 30 secondi dopodiché trasferirli subito in un recipiente contenente acqua fredda. Così facendo, gli spinaci manterranno il loro color verde brillante.
  4. Nella stessa acqua di bollitura, versare i germogli e lasciarli bollire per soli 30 secondi!
  5. Scolare i germogli. Non raffreddateli con acqua altrimenti l’assorbiranno e saranno troppo acquosi.
  6. Mettete su un piatto i vostri germogli e raffreddateli dolcemente usando un ventaglio.
    Germogli

    Germogli di soia o moyashi, in giapponese.

    7. Scolare gli spinaci e, aiutandosi con le mani, strizzarli bene bene cercando di rispettare la forma della pianta se possibile. Io ad esempio li faccio bollire interi, senza separarli, proprio per questa ragione.

    8. Mettere il mazzo strizzato di spinaci sopra un tagliere e poi tagliarlo a pezzi, possibilmente della stessa lunghezza.

Spinaci

Spinaci strizzati e bolliti.

Spinaci.

Tagliamo gli spinaci.

9. Prendere il foglio di alga nori, piegarlo in quattro e tagliuzzarlo a striscioline. Oppure, se preferite, potete anche spezzettarla a mano.

Alga nori

Nori o yakinori.

Alga nori tagliata.

Striscioline di nori fatte con le forbici. Quando la nori è tagliata cosi si chiama kizami-nori.

10. Ora dobbiamo solo unire gli spinaci tagliati e i germogli di soia e mescolarli delicatamente.

Spinaci e germogli di soia.

Spinaci e germogli di soia.

Spinaci e germogli di soia.

L`abbraccio tra spinaci e germogli di soia.

11. Aggiungiamo alle verdure il tonno sgocciolato, la salsa di soia e l’aceto di riso. Mescolare bene.

12. Servire il norizuae in un bel piattino o coppetta e guarnirlo, se lo si desidera, con qualche strisciolina di nori.

Finito!

Ve l’avevo detto che era veloce!

Se per qualche ragione non gradite il tonno, potete tranquillamente saltarlo e il vostro norizuae non ne risentirà.

Due parole sull’alga nori: oramai, visto l’imperversare della moda del sushi, quasi tutti i supermercati si sono allineati alla nuova mania e hanno prontamente provveduto a mettere sugli scaffali anche cose tipo l’alga nori. Va detto che generalmente, qui in Italia, la si trova di provenienza cinese oppure coreana. Si trova anche giapponese, ma più raramente e a costi naturalmente più alti.

Consiglio, qualora non trovaste la nori giapponese, di preferire quella coreana a quella cinese per il semplice motivo che è un ingrediente comunemente utilizzato nella cucina coreana, a differenza di quella cinese dove – che io sappia – non esiste. Scegliendo quella coreana, dunque, prendereste un prodotto comunque buono.

Faccio presente, però, che tendenzialmente la nori coreana viene salata e aromatizzata con olio di sesamo, mentre quella giapponese no. Comunque sia, utilizzate il tipo di nori che riuscite a reperire con maggior facilità.

Se per qualche motivo non doveste gradire l’alga nori, provate a sostituirla con dell’alga wakame.

Alla prossima ricetta di katei-ryoori!

E come si dice in giapponese prima di mangiare e bere:

Itadakimasu!

いただきます!

Norizuae

Un buon norizuae casalingo!

Cucina giapponese casalinga: Gohan ご飯

Riso giapponese al vapore

Gohan. Il pilastro portante.

Lo so, non ve l’aspettavate. La rubrica di cucina casalinga giapponese è settimanale, ma oggi si fa un’eccezione con questa ricetta bonus che vi insegnerà, spero definitivamente sgombrando il campo da dubbi e perplessità, a preparare il gohan ご飯 ossia il riso giapponese al vapore.

Una volta per tutte.

Vi spiegherò poi il perché di questa ricetta bonus, ma prima accompagnatemi in una digressione dell’anima che in qualche modo trova il suo raccordo con l’argomento di oggi.

Era un pomeriggio di glorioso sole come suo solito. Io ero sulla University Avenue, un’esuberante e brillante strada che attraversa la città di San Diego, una città che io ho chiamato casa per sei lunghi anni.

Attratta, come sempre, dai negozi di cose vecchie e cose antiche, decisi di curiosare in un oscuro thrift store che si affacciava pigramente su quella strada.

Gli oggetti esposti sembravano perdersi e poi ritrovarsi in un ombroso abbraccio di luci acuito da nuvole di finissima polvere che, con leggerezza, galleggiavano nell’aria noncuranti degli ultimi morenti raggi che precedono il tramonto.

C’erano tante cose. Bicchieri. Posate scompagnate. Valigie stremate da chissà quali viaggi. Ogni oggetto con una sua storia, una sua mappa fisica del proprio passato.

Su una mensola di vetro trovai una scodella di ceramica. Era inconfondibilmente una scodella giapponese per il riso. Me lo diceva la sua forma. Era bianca con decori neri di foggia datata.

Presi in mano quella scodella e iniziai a guardarla. Avevo gli occhi aperti, ma le palpebre invisibili del sogno erano chiuse e io dunque sognavo il suo passato, la sua storia, tentando di carpir qualcosa dalla sua mappa.

Quando, inverosimilmente dal nulla, sembrò materializzarsi vicino a me un anziano signore cinese.

Non dimenticherò mai l’espressione sul suo volto rugoso e stanco. Era un’espressione di rimprovero e di sdegno.

Rivolse quello sguardo accigliato di rimprovero verso di me e mi chiese

You do know that this is a Japanese rice bowl, right?

“Lo sai, vero, che questa è una scodella giapponese per il riso?”, ponendo un accento stizzito sull’aggettivo giapponese.

Umm, yes sir, I do

“Ehm sì, signore, lo so”, risposi.

Scodella per il riso

お椀 Owan. Una mia scodella giapponese per il riso.

Sottolineò il fatto che le scodelle cinesi per il riso sono diverse e non hanno certamente quella forma lì, strana e sciocca.

Borbottò ancora qualcosa, ma che non ricordo.

Un po’ confusa dall’incontro, acquistai quella scodella che chissà ora dov’è.

Ma ora ci ripenso e sorrido teneramente al ricordo di quel nonno immusonito.

Di certo, quel giorno, non immaginavo quante scodelle cosi avrei visto, avrei tenuto in mano, avrei ammirato, avrei riempito di delizioso riso caldo.

Scodella giapponese

Una mia scodella giapponese.

Quella scodella, presa sulla University Ave. in quel lontano pomeriggio, in quello scuro negozio di cose già vissute, era un inizio. Un preludio. Una porta d’ingresso.

Sentivo la necessità di spiegare il procedimento per preparare il gohan, ossia il riso giapponese al vapore.

Avvertivo questo bisogno perché il gohan è il pilastro del pasto giapponese. E’ il muro maestro della dimora gastronomica nipponica tutta e non solo della cucina casalinga.

Ecco il perché della ricetta bonus.

C’è ancora tanta incertezza sul metodo di preparazione, sugli ingredienti e sul modo di concepire il riso giapponese.

Spesso si afferma che il riso sulla tavola asiatica sia paragonabile, come funzione, al nostro pane, ma io non sono d’accordo: il riso non è l’accompagnamento; lo sono gli altri piatti.

Se il pane accompagna la carne o il formaggio, il riso non accompagna il pesce o le verdure ma sono loro che accompagnano il riso.

Saper preparare un buon riso giapponese al vapore è un requisito fondamentale per potersi cimentare nella katei-ryoori o comunque in qualunque preparazione giapponese in generale.

Vedremo insieme che serve poco o nulla per realizzare un buon gohan degno di questo nome. Sono sufficienti un paio di accorgimenti.

Prestatemi attenzione.

TIPO DI RISO

Si dice che al mondo esistano, suppergiù, centoquarantamila varietà di riso! E naturalmente, non sono tutte uguali.

Considerando che riuscire a trovare riso di provenienza giapponese al di fuori del Giappone è impresa ardua, soprattutto in Italia e a meno che non riusciate ad infilarvi in qualche esclusiva nicchia che vi dia accesso a prodotti di élite, direi che sia meglio da subito semplificare le cose e cercare con concretezza la migliore alternativa.

E` inutile stare a cercare cocciutamente un Koshihikari o un Akita Komachi a Torino o altrove nella Penisola.

Ricordate che miriamo alla realizzazione semplice ed economica di piatti di katei-ryoori, anche se il gohan è presente in tutta la cucina giapponese e non solo in quella casalinga.

Vi dico la verità: sebbene in molti consiglino di utilizzare varietà italiane di riso quali l’originario o il Vialone Nano, io andrò coraggiosamente controcorrente chiedendovi di lasciar perdere queste alternative, immantinente. Forse apparirò presuntuosa, ma chi propone queste come soluzioni probabilmente non ha mai avuto il privilegio di gustare una scodella di buon e vero gohan fumante!

Semplicemente perché non vanno bene e producono risultati deludenti.

Vedete, contrariamente a quanto si possa pensare, non basta usare un riso glutinoso qualunque che risulti in una pappa collosa.

Un gohan ben eseguito avrà chicchi che rimangono delicatamente attaccati fra loro per facilitarne il consumo con le bacchette, ma quei chicchi non si spezzeranno e la loro forma rimarrà distinguibile.

Negli anni ho visto tante foto e video in rete di gohan mal riusciti dove i risi utilizzati erano irriconoscibilmente fusi in un appiccicoso ammasso tale da non permettere più di intravedere la rotondità dei chicchi.

No, dunque, a Basmati, Thaibonnet, Vialone Nano, Originario, Arborio, Jasmine, Roma, Long Grain, ecc.ecc.

No, no, no e poi no.

Datemi ascolto. Il miglior compromesso è quella varietà comunemente commercializzata sotto la dicitura di riso per sushi, un’etichetta usata – credo – per dare un indizio ai potenziali acquirenti circa il suo utilizzo che, ovviamente, non è l’unico.

Oramai lo trovate in tutti i supermercati, anche in quelli piccoli dove non mancano più gli angoli dedicati al cibo etnico, come va di moda chiamarlo.

Lo trovate sotto vari marchi, tipo Arnaboldi, Scotti o Gallo.

Ma se conoscete un negozio di alimentari orientali, prendetelo lì piuttosto: vi costerà senz’altro meno ed è possibile che troviate ottimi risi coltivati in Italia con piantine portate dal Giappone, come avviene in Lomellina grazie alla famiglia Morimoto e al progetto Italpo.

Io, a seconda di cosa trovo nei market asiatici di Porta Palazzo qui a Torino, acquisto regolarmente il riso della famiglia Morimoto oppure lo Shinode coltivato nell alessandrino, dalla Riseria Monferrato.

Riso Shinode

Riso Shinode reperibile comunemente in Italia.

Il samurai-san dal volto pacifico e l’aggraziata casa kurazukuri 蔵造り sullo sfondo sono i rassicuranti segni distintivi di questo buon riso stile giapponese, ideale per quasi tutte le preparazioni di washoku in Italia, con un prezzo al kilo che oscilla tra €1,50 e €2,00.

UTENSILI NECESSARI

Non vi serve acquistare una pentola cuociriso. Sono stupende e certamente molto comode, ma non obbligatorie.

Un tempo, quando ancora questi elettrodomestici semplicemente non c’erano, in Giappone si preparava il riso alla vecchia maniera ossia sulla stufa. In particolare, c’era un tipo di stufa chiamato kamado 竈 di cui è possibile ammirare ancora qualche incantevole esemplare in qualche casa di campagna oppure al Museo di Edo, a Tokyo.

Per preparare un buon gohan a casa vi serve solo una pentola con un coperchio. Antiaderente o meno, non fa differenza. L’importante è che abbia un coperchio.

Vi serve poi un cucchiaio di legno o una paletta. Tradizionalmente si usa lo shamoji しゃもじ. Ecco il mio shamoji di bambù, modesto e senza pretese ma fedele al suo incarico.

Paletta per riso.

Il mio shamoji di bambù.

Ma un qualunque cucchiaio di legno andrà benissimo.

Ci mettiamo il sale, l’aceto, ecc.?

No, assolutissimamente no.

Ho visto ricette dove si consigliava di mettere il sale nell’acqua di cottura come se ci stessimo preparando un piatto di spaghetti. No. Niente sale.

E la questione aceto va risolta subito: l’aceto di riso si usa solo ed esclusivamente per insaporire lo shari, ossia il riso che si utilizzerà per preparare il sushi. Per tutte le altre preparazioni, compresi gli onigiri che vengono spesso bistrattati con l’inspiegabile aggiunta di questo ingrediente, niente aceto.

Fa eccezione il takikomi-gohan 炊き込みご飯  – a cui comunque non aggiungeremo mai aceto -che, come indica il suo stesso nome, è riso cotto con qualcosa. E’ riso al vapore insaporito da qualche ingrediente speciale di stagione a cui si vuol dare risalto, come ad esempio i takenoko たけのこ o germogli di bambù oppure i pregiati e ambiti funghi matsutake 松茸.

Ma dei takikomi-gohan ci occuperemo in seguito.

Per il semplice gohan bianco vi serve solo acqua pulita.

L’unico ingrediente che, se proprio volete, potete usare per apportare maggior profondità al sapore del vostro gohan è l’alga konbu, reperibile secca nei reparti etnici dei supermercati, nei market asiatici e nei negozi di alimentari naturali come la Bio Bottega e simili.

Konbu

Strisce di alga konbu.

L’alga konbu, tuttavia, va trattata come desidera. Detesta due cose: il lavaggio e la bollitura.

Non lavate mai la konbu. E` sufficiente sfregare la superficie da ambo i lati con un canovaccio pulito.

Se la utilizzate per la cottura del riso, immergetela prima di accendere il fuoco e rimuovetela istantaneamente non appena l’acqua avrà preso bollore. La konbu, se lasciata bollire, si vendica rilasciando un cattivo sapore amaro che rovinerà irrimediabilmente i vostri piatti.

Il riso, elemento cosi essenziale nella cultura del Giappone, possiede un posto speciale nel cuore e nella lingua dei nostri amici di Yamato.

Il riso da crudo, e che si chiama okome お米, si cuoce e  nell’armoniosa interazione con l’acqua e la fiamma ritroverà un altro nome: gohan ご飯.

Vediamone la preparazione nel dettaglio.

Riso crudo giapponese

Okome ossia il riso crudo.

Ingredienti

2 misurini di riso

2 misurini più un paio di cucchiai d’acqua (usate lo stesso misurino del riso)

una striscia di alga konbu sfregata con un canovaccio pulito (facoltativo)

Ingredienti per gohan

L’occorrente per preparare un buon gohan.

Procedimento

Per dosare il vostro riso crudo, usate un misurino qualunque. Vanno bene dei bicchieri o una tazza. Usate lo stesso misurino del riso per dosare l’acqua. Tenete presente che lo shinode non rende tanto come altre varietà di riso.
Generalmente, si usa la stessa quantità d’acqua che avete usato per il riso (es. un misurino di riso per un misurino d’acqua) aggiungendone un pochino in più.

Procederemo in fasi che numererò. Qui di seguito vedrete riassunte in questa mia illustrazione, da seguire in senso orario, i passaggi del lavaggio.

Riso giapponese

Gli essenziali passaggi nella preparazione del riso giapponese.

  1. Mettere la quantità desiderata di riso crudo in un tegame e versarvi sopra acqua pulita, quel tanto che basta per poterlo ricoprire e iniziare a lavare.
  2. Con le mani, sfregare e agitare dolcemente il riso senza usare troppa forza. Vedrete che l’acqua si intorbidirà.
  3. Ripetere il passaggio n.2, ossia il risciacquo del riso, fino a quando l’acqua non sarà più torbida. Con lo Shinode servono in media 3 o 4 risciacqui. Il consiglio della nostra Obaachan おばあちゃん: non gettate via l’acqua di risciacquo del riso, ma usatela per innaffiare le vostre piantine!
  4. Scolare molto bene il riso e metterlo nel tegame di cottura a cui aggiungeremo la giusta quantità d’acqua che, come vedete dall’immagine in basso a sinistra della sequenza, ricopre il riso di circa mezzo dito scarso.
  5. Se la si usa, immergere la striscia di alga konbu ora. Coprire la pentola col suo coperchio e mettere a cuocere, a fiamma alta, fino a quando inizierà il bollore.
  6. Non appena l’acqua inizierà a bollire, se avete usato l’alga konbu, rimuoverla immediatamente. In ogni caso, appena comincia il bollore, abbassare subito la fiamma al minimo e senza togliere il coperchio lasciar cuocere per circa 10/15 minuti.
  7. Terminata la cottura, non aprite subito il coperchio. Lasciate riposare ancora per circa cinque minuti.
  8. Togliete il coperchio e aiutandovi con un cucchiaio di legno (potete passarlo rapidamente sotto l’acqua per evitare che i chicchi vi si attacchino), smuovere il gohan delicatamente senza rompere i chicchi.
Riso giapponese

Prepariamoci a servire il nostro gohan.

Prendere una bella scodellina – usate ciò che avete – e con garbo riempitela di riso avendo l’accortezza di non riempirla troppo e di lasciare visibile l’interno della scodella come richiede l’etichetta culinaria nipponica. I piatti troppo pieni risultano sgraziati e volgari.

Riso giapponese

Il nostro delicato gohan.

Riso giapponese

Gohan: la quintessenza della tavola nipponica.

Avete ora preparato quello che forse è l’elemento più importante del pasto ideale giapponese che, come vi ho spiegato nell’articolo precedente dedicato al Kinpira, risponde alla formula ichijuu-sansai.

Durante la cottura si è formata una crosticina sul fondo della pentola? Nessun problema. Si chiama koge 焦げ ed e il boccone prelibato, indice di una buona riuscita del gohan!

E se vi avanza del gohan? E` sufficiente riporlo in sacchettini tipo Ziploc e congelarlo.

Alla prossima ricetta di katei-ryoori!

E come si dice in giapponese prima di mangiare e bere:

Itadakimasu!

いただきます!

Cucina giapponese casalinga: Kinpira きんぴら

Kinpira di carote

Delizioso kinpira di carote.

La neonata rubrica dedicata alla cucina casalinga giapponese facilmente realizzabile in Italia è un progetto che vorrei fosse a cadenza settimanale, quindi, salvo imprevisti, ogni sette giorni circa troverete una nuova ricetta.

Tutte le ricette di questa rubrica devono possedere le seguenti quattro caratteristiche per poter essere annoverate nella collezione:

  1. Devono indiscutibilmente essere autentiche ricette giapponesi, del repertorio casalingo.
  2. Devono essere facili da realizzare, senza quindi l’ausilio di ingredienti di difficile reperibilità o di utensili / pentolame non comune.
  3. Devono poter essere riprodotte senza difficoltà da chiunque disponga di un fornello e degli ingredienti previsti di volta in volta.
  4. Essendo ricette del repertorio casalingo, la loro realizzazione non sarà solo semplice ma anche clemente col portafoglio.

Alcune ricette sono state riadattate per poter facilitare l’incontro tra la katei-ryoori 家庭料理 e il pubblico italiano attraverso intelligenti sostituzioni di ingredienti non comuni nella nostra Penisola. Tutti gli ingredienti utilizzati, come vedrete, sono in vendita in tutti i supermercati del territorio nazionale. Le poche eccezioni saranno chiaramente evidenziate, ma si tratterà sempre di ingredienti che potrete comprare in market asiatici oppure nei negozi di alimentari biologici e naturali.

Ricetta di oggi.

Kinpira. きんぴら

La ricetta che vi propongo oggi è un grande e amato classico della katei-ryoori (cucina casalinga giapponese) perché oltre ad essere facilissimo da preparare e gustoso, è uno di quei piatti che ben si prestano ad essere preparati in anticipo facendo cosi parte della categoria dei jobisai 常備菜.

I jobisai sono una sottocategoria della katei-ryoori che comprende tutti quei piatti che possono essere preparati in anticipo ed essere quindi serviti nei giorni successivi, aiutando così a risparmiare tempo ed energie.

Nelle case giapponesi, dove c’è  una brava mamma o qualcuno che si occupi coscienziosamente della gestione del ménage famigliare, generalmente non mancano i jobisai nel frigorifero, preparati periodicamente.

I jobisai aiutano nella composizione del pasto ideale giapponese che risponde alla seguente formula: ichijuu-sansai 一汁三菜 ossia “una zuppa, tre piatti”. A questo, si aggiunge una scodella di riso al vapore, elemento pressoché sempre presente.

Avremo modo, nel corso di questa rubrica, di approfondire ichijuu-sansai. 

I jobisai sono anche un grande alleato di chi prepara gli o-bento!

Prima di vedere da vicino come realizzare un ottimo kinpira, devo fare una necessaria precisazione: la ricetta originale prevede, per tradizione, la carota e la radice di bardana (o scorzonera). Purtroppo, questa radice qui da noi è difficilissima da trovare se non a prezzi stellari sul web oppure essiccata, in negozi di alimentari naturali. E` un peccato che sia così rara perché, credetemi, è molto buona.

Che fare, dunque?

Cinque possibilità. Scegliete il sostituto che preferite:

  1. Sedano;
  2. Renkon o radice di loto;
  3. Buccia di daikon o rapa cinese, affettata (consiglio di Kyoko-san);
  4. Patate (consiglio di Akiko-san);
  5. Nessun sostituto. Utilizzare solo la carota.

Questo jobisai prende il nome da Kinpira, un rocambolesco personaggio del joruri o teatro dei burattini particolarmente in voga nel Periodo Edo ossia dal 1603 al 1867/68. Questo incredibile Kinpira del teatro era protagonista di impavide e spericolate avventure come quando riuscì a pescare, da solo, una gigantesca balena!

Vediamo, quindi, il jobisai dedicato a questo ardimentoso eroe!

Ingredienti:

200g di carote

1 peperoncino

mezzo cucchiaio di olio di sesamo*

mezzo cucchiaio di olio vegetale (mais, girasole, ecc.)

2 cucchiaini di zucchero

4 cucchiaini di salsa di soia

Ingredienti per kinpira

Tutto l’occorrente per un buon kinpira.

*Se non avete l’olio di sesamo, nessuna paura. Usate l’olio vegetale portando la dose quindi a 1 cucchiaio totale di olio vegetale di vostra scelta.

E’ importante, però, che il kinpira abbia un po’ di sapore di sesamo quindi se non avete l’olio, procuratevi qualche semino di sesamo tostato. Io ho usato sia l’olio che i semini, questi ultimi come guarnizione.

Olio e semi di sesamo

Olio di sesamo e semi di sesamo nero giapponese.

Procedimento

Per prima cosa, lavare e sbucciare le carote privandole delle estremità.

Le carote, ora, vanno tagliate a listarelle fini. Generalmente, si procede con il tanzaku-giri 短冊切り, ossia una semplice tecnica di taglio che permette di ottenere le agognate striscioline tipo julienne.

In questa mia illustrazione, vi mostro una versione facilitata del tanzaku-giri, un taglio che prende il nome da tanzaku 短冊 ossia le tradizionali strisce di carta rettangolare su cui, fin dai tempi antichi, i giapponesi scrivono verticalmente poesie. Il taglio ha questo nome perché la forma che produce ricorda quelle appunto delle strisce di poesia.

Taglio della carota

Il tanzaku-giri.

In poche parole, si taglia la carota in pezzi più o meno della stessa lunghezza (figura in basso a sinistra). Ad ogni pezzo, poi, si tagliano le estremità per lungo in modo da poter mettere l’ortaggio in piano e affettare i nostri bei tanzaku da cui – come avrete facilmente intuito – ricaveremo delle delicate striscioline.

Non fate strisce troppo spesse altrimenti impiegheranno troppo tempo a cuocere. Tuttavia, non è necessaria la perfezione chirurgica nel taglio. I nostri sono, dopotutto, piatti di katei-ryoori e non di kaiseiki o della cucina di Kitcho di Arashiyama.

Miriamo ad una sobria ma elegante modestia che sappia di casa giapponese.

Potreste utilizzare le carote julienne confezionate per sveltire i tempi, ma ho fatto questa prova e sinceramente il sapore era un po` diverso e non come piace a me. Se possibile, optate per le carote fresche che taglierete voi stessi.

Terminato il taglio della carota, pulire il peperoncino eliminandone i semini interni e il picciolo. Affettare finemente.

Peperoncino

Un piccolo peperoncino italiano, affettato.

In un tegame antiaderente, mettere a scaldare l’olio di sesamo e quello vegetale (o solo quello vegetale, se non avete l’altro).

Versare le carote affettate e farle saltare rapidamente a fiamma media.

Kinpira

Kinpira in cottura.

Farle saltare per circa due minuti, dopodiché abbassare la fiamma al minimo, coprire con un coperchio e lasciar cuocere per altre due o tre minuti. Le carote si ammorbidiranno delicatamente, mantenendo però la giusta croccantezza.

Togliere il coperchio e aggiungere lo zucchero, la salsa di soia e il peperoncino. Far saltare il tutto a fiamma media fino a quando il condimento liquido sarà evaporato.

Servire con garbo in un bel piattino, guarnendo – se si desidera – con del sesamo nero o bianco e un anellino di peperoncino.

Colgo l’occasione per ringraziare pubblicamente la dolcissima Cristiana Cenedese di Ars Cenedese di Murano (Venezia) per l’incantevole piattino che mi regalò e che oggi fa da raffinata cornice al mio kinpira.

Kinpira di carote

Delicatissimo kinpira.

Il kinpira, essendo un eccellente jobisai, si conserva in frigorifero, in un contenitore ben chiuso, per tre o quattro giorni. Se lo surgelate, anche un mese!

Alla prossima ricetta di katei-ryoori!

E come si dice in giapponese prima di mangiare e bere:

Itadakimasu!

いただきます!

Kinpira di carote

Il re dei jobisai: il kinpira

Cucina giapponese casalinga: la Poteto Sarada ポテトサラダ

Insalata giapponese di patate

ポテトサラダ L`insalata di patate del Lontano Oriente

Cucina giapponese. Cosa vi viene in mente?

Vediamo se riesco ad indovinare.

Sushi. Sushi. Sushi. Sushi. E ancora sushi, declinato in tutte le sue varianti: nigiri-zushi, temaki, kappamaki e altre ancora.

Anfore di sakè.

Scodelle di riso al vapore. Scodelle laccate contenenti calde zuppe di miso.

Eteree composizioni di tempura.

Tazze di tè verde.

Delicati edamame.

E poi di nuovo sushi. Bacchette. Stuoiette di bambù. Paraventi. Ventagli.

A proposito, sapete come si chiamano quelle barche di bambù cosi` utilizzate qui in Italia come coreografico metodo di presentazione di sushi e sashimi?

Funamori 舟盛り.

La realtà, cari amici e lettori di Biancorosso Giappone, è che la cucina giapponese è un piccolo e gustoso universo di cui ancora si conosce poco qui in Occidente.

Una cucina che sorprende. Delicata. Raffinata. Eppure semplice e che si appella ai gusti autentici degli ingredienti più freschi e di stagione, dribblando abilmente tante spezie o tutto ciò che possa disturbare la nuova armonia di sapori. Il concetto di shun 旬, o stagionalità dei cibi, è davvero un ingrediente cardine nella washoku (questo il nome della cucina tradizionale del Giappone) e un criterio sempre rispettato, laddove possibile.

Chi di voi mi segue e legge da tempo ricorderà che dalla mia vecchia casa (il mio storico blog, per intenderci) ho condiviso tante, tantissime ricette: alcune mi erano state insegnate dalla mia mentore di washoku, Kyoko-san; altre provenivano da appunti presi guardando trasmissioni di cucina sulla NHK; altre erano frutto di mie traduzioni di ricette prese dai più disparati libri di cucina.

Vi ho parlato tanto di washoku negli anni. Tantissimo.

Ma in particolare vi ho parlato tanto di katei-ryoori 家庭料理, ossia la cucina giapponese casalinga.

I sapori della quotidianità. Le rassicuranti delizie che appaiono ogni giorno in tavola, negli obento per la scuola o il lavoro, ai picnic.

I piatti dell’anima.

La cucina della semplicità, della famiglia, della sfida di un budget ristretto con cui nutrire bene però i propri cari. Piatti a volte meno aulici di quelli proposti dalla cucina ufficiale, ma non per questo meno meritevoli di lodi; ricette dove, col tempo, si sono intrufolati ingredienti di origine occidentale (ad esempio la maionese, la salsa di pomodoro, il burro, ecc.)

La cucina, in poche parole, della vita.

Ebbene, io con questo post vorrei inaugurare la sezione “cucina casalinga giapponese” dove, pian piano, proporrò e riproporrò grandi classici della tavola nipponica di tutti i giorni.

Le ricette, come quella che vi presento oggi, hanno le seguenti caratteristiche:

  1. Sono autentiche ricette giapponesi del repertorio casalingo;
  2. Sono di facile realizzazione e non richiedono attrezzi particolari o abilità strabilianti;
  3. Laddove possibile, sono state riadattate per poter essere realizzate qui in Italia facilmente e senza spendere tanto.
  4. Vi permetteranno di portare sulla vostra tavola autentici sapori del Sol Levante.

La ricetta di oggi è la Poteto Sarada ポテトサラダ o insalata di patate, un contorno (o okazu おかず, come si dice in giapponese) molto amato e che spesso compare negli obento, sia casalinghi che acquistati già pronti. Questa versione che vi propongo proviene dal Kanagawa, dove un tempo abitavo.

A primo acchito, forse, vi ricorderà la nostrana insalata russa anche se gli ingredienti qui sono un po’ diversi.

Un’altra differenza sostanziale sta nella quantità di maionese che qui deve essere modesta. Niente oceani di maionese, dunque!

E’ sufficiente una quantità di maionese tale da legare solo gli ingredienti insieme. Miriamo ad ottenere una consistenza tale da permetterci di poter consumare la nostra poteto sarada con le bacchette!

Vediamo insieme gli ingredienti e il procedimento.

Preciso che la poteto sarada, in Giappone, è solitamente servita in piccole quantità ma seguendo porzioni un po’ più italiane direi che, approssimativamente, le dosi che vi darò siano sufficienti per quattro o cinque persone.

Ingredienti per 4 o 5 persone:

2 patate di media grandezza

1 carota

mezzo cetriolo

1 uovo sodo

1 cipolla piccola

maionese* q.b.

sale e pepe q.b.

Una punta di Karashi o senape giapponese (facoltativo)

Ingredienti per la poteto sarada

Ingredienti per la ポテトサラダ poteto sarada.

Procedimento

  1. Lavare le patate e metterle, ancora con la buccia, in un pentolino d’acqua a bollire. Lavare e pulire la carota e metterla a bollire con le patate. I due ortaggi andranno fatti cuocere quel tanto che basta affinché siano morbidi e si possano tagliare a cubetti. Non devono disfarsi, dunque. Io ho tagliato la carota a fettine perché mi sentivo ispirata così.
    Carote affettate.

    Carota affettate finemente.

  1. Lavare il cetriolo, tagliarlo per lungo e – aiutandosi con un cucchiaino – privarlo dei semini. Affettare il cetriolo molto finemente. E’ importante!
  2. Sbucciare la cipolla e affettarla altrettanto finemente.
  3. Disporre su un piattino il cetriolo e la cipolla affettati e cospargerli di sale fino. Lasciarli riposare per alcuni minuti. A contatto col sale, i due ortaggi rilasceranno tanta acqua.
    Cetrioli e cipolle

    Il cetriolo e la cipolla affettati finemente e cosparsi leggermente di sale.

  4. Aiutandovi con le mani, prendete sia il cetriolo che la cipolla e strizzateli bene bene, con un po’ di forza. Mettete da parte.
  5. Una volta cotte, scolare le patate, pelarle e tagliarle a dadini. Stessa cosa con la carota.
  6. Sbucciare l’uovo sodo e tagliuzzarlo grossolanamente.
    Uovo sodo a metà.

    Un uovo sodo pronto a contribuire alla causa della poteto sarada.

  7. In un recipiente unire: le patate e la carota a dadini, il cetriolo e la cipolla strizzati, l’uovo tagliuzzato, il sale, il pepe, la karashi (se la usate), e la maionese. Mescolare bene e con delicatezza. Coprire il recipiente e, se possibile, lasciar riposare in frigorifero per almeno un’oretta.
    Karashi o senape giapponese. Si distingue da quella europea e americana per l'assenza di aceto.

    Karashi o senape giapponese. Si distingue da quella europea e americana per l’assenza di aceto.

  8. Servire fredda, possibilmente in un bel piattino.
Insalata di patate

Insalata di patate giapponese o poteto sarada.

Come con la quasi totalità delle ricette mondiali, credo, anche per la potato sarada esistono varianti. Quella che vi ho presentato io è forse la versione più classica e comune. Un’altra variante altrettanto gettonata prevede anche l’aggiunta di prosciutto. Io personalmente non lo aggiungo.

*Bisognerebbe utilizzare la maionese giapponese (Kewpie) dal sapore diverso dalla maionesi nostrane. Tuttavia, essendo un ingrediente di non facile reperibilità ed essendo questa sezione dedicata a ricette autentiche giapponesi ma di facile ed economica realizzazione in Italia, consiglio di utilizzare una maionese qualunque purché non abbia un sapore di aceto troppo pronunciato.
Consiglio o una maionese casalinga preparata con succo di limone oppure la Delicata Calvè.

Alla prossima ricetta di katei-ryoori!

E come si dice in giapponese prima di mangiare e bere:

Itadakimasu!

いただきます!

Insalata di patate giapponese

Ed ecco pronta la vostra ポテトサラダ poteto sarada o insalata di patate…alla maniera dei giapponesi!

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