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Perle di nobile zucchero e dorayaki artigianali

干菓子 Higashi di Saku-chan

干菓子 Higashi di Saku-chan

Più spesso di quanto vorrei la mia mente realizza la distanza geografica che mi separa dal Giappone.Rendersene conto fa un pò male ogni volta.Il Giappone, è inutile stare a girarci tanto intorno, è realmente una parte di me.

Anche quando qui in Italia mi aspettavano tempi bui, dolorosamente strazianti, scoranti fino all’inverosimile – momenti in cui mi allontanai dal blog e da tutto ciò che era giapponese per non infierire ulteriormente sul mio delicato stato d’animo di allora – anche in quei frangenti il Giappone non riusciva ad allontanarsi da me.

Lo ritrovavo continuamente: nelle domande delle persone, da qualche parte in giro per la città, sulle bancarelle di un mercatino delle pulci, oppure nella buca delle lettere.

Il Giappone che trovavo nella cassetta della posta erano le lettere e i pacchetti di Saku-chan che ogni volta mi facevano sanguinare il cuore al solo pensiero di vederne il contenuto, ma al contempo mi facevano provare una confortante felicità nella consapevolezza di essere ancora legata a quella terra e a quelle persone a me così care.

A Saku-chan raccontai tutto quello che successe gradatamente. Sapevo che se le avessi detto tutto quando ancora brancolavo senza appigli e senza meta lei si sarebbe preoccupata molto e questa volevo evitarlo.

Sapevo che da parte sua avrei avuto un instancabile appoggio. E così fu.

L’otto dicembre, quindi molto recentemente, ho scoperto che era arrivato un pacchetto per me pochi giorni prima ma, non essendo a casa al momento della consegna, era stato ritirato gentilmente dai miei vicini.

Il pacchetto, una vera ed inaspettata sorpresa, arrivava da Saku-chan.

Il delicato incarto con due bamboline e i 紋 mon di una pasticceria di Sagamihara

Il delicato incarto con due bamboline e i 紋 mon di una pasticceria di Sagamihara

Saku mi ha inviato una confezione di 干菓子 higashi. Gli higashi fanno parte della grande famiglia dei wagashi, ma si distinguono dagli altri dolci essendo secchi. Il primo kanji 干 significa proprio secco.

Gli higashi sono a base generalmente di un ingrediente tanto particolare quanto tradizionale: il 和三盆 wasanbon.

Il wasanbon è uno zucchero indigeno che ha la consistenza pressappoco dello zucchero a velo. Viene prodotto, dal Periodo Edo, esclusivamente con le canne da zucchero coltivate nelle prefetture di Tokushima e Kagawa.

Pur avendo una somiglianza con l’occidentale zucchero a velo, il wasanbon possiede però un sapore particolare che lo distingue nettamente dal suo parente. Delicate note di burro e miele lo rendono davvero una prelibatezza.

Il wasanbon viene utilizzato principalmente nella pasticceria tradizionale, soprattutto in prodotti di qualita’ particolarmente elevata, e anche nelle preparazioni dolciarie domestiche ogniqualvolta si desidera conferire un tocco di nipponica eleganza ai propri dolci.

Gli higashi sono uno dei prodotti piu’ conosciuti a base appunto diwasanbon.

Questi sono i dolci che generalmente presenziano durante la cerimonia del tè proprio grazie alla loro bellezza, alle loro forme e colori che rispecchiano sempre le stagioni oppure determinate ricorrenze.

L’incantevole confezione che racchiude gli higashi di Saku-chan. Dietro la sua lettera con in alto il mio nome.

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Il nome di questa composizione di higashi è particolarmente evocativo: 松籟 shoorai, ossia il suono, il sussurro, il bisbiglio del vento che soffia tra i pini.

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Ammirate insieme a me la delicatezza di questi dolcini:

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Ci sono uno ひょうたん hyootan e due 波nami (onde)

Ci sono uno ひょうたん hyootan e due 波nami (onde)

La spontaneità e sincerità di Saku la rendono una delle persone più limpide che io abbia mai incontrato.

E senza nemmeno farlo apposta, rimaniamo in tema di wagashi con alcuni どら焼き dorayaki che ho preparato e confezionato con pochi e semplici ingredienti.

Ho parlato tante volte di questi dolcini qui su Biancorosso Giappone, presentandone anche una ricetta attraverso la rubrica che curavo sul sito Insieme a Tè. Ricordate?

Era da tanto che non li preparavo.

Ho iniziato con una scorciatoia. Questi ゆであずき yude-azuki, azuki bolliti in latta, della 井村屋 Imuraya, un`azienda nella Prefettura di Mie.

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La striscia gialla sulla confezione ci indica che sono stati usati solo fagioli azuki provenienti da Hokkaido, da cui arriva una delle varietà più pregiate.

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Ho preparato le frittelle dei dorayaki con un semplice impasto a base di farina 00, zucchero, miele, lievito chimico, uova e acqua.

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Come mi piace sempre fare quando preparo i dorayaki, ho aromatizzato una parte dell’impasto con del buon 抹茶 matcha che conferisce al dolce un gradevole color verde brillante unitamente ad un delicato sapore inconfondibilmente giapponese.
Preparate le frittelle, le ho farcite con gli azuki bolliti i quali e` stato sufficiente utilizzarli così com’erano direttamente dalla latta.
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Ed ecco i どら焼き pronti, confezionati in semplice carta trasparente per alimenti.
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Acquose pennellate di un chiaroscuro dell’anima

Piccole cose belle

Piccole cose belle

Ricordo, con singolare nitidezza, la sensazione che mi accolse e mi accompagnò, in un soleggiato pomeriggio d’autunno, durante una mia passeggiata pigra e rilassante nei giardini del 明治神宮 Meiji-jinguu, a Tokyo. Inutile soffermarsi sui mille dettagli che attirarono la mia attenzione per la loro squisitezza: odori, sensazioni, forme e suoni.

Tutto intorno a me attraversava i filtri delle mie percezioni lasciando sempre un senso di malinconica felicità.

Un punto del vasto giardino che circonda l’antico edificio mi colpì.

Non vi era nulla in quel punto, se non un’aggraziata recinzione di legno e dell’erbetta curata.

Rimasi però affascinata da quell’angolo dove giocavano i raggi di un sole del tardo pomeriggio con i primi segni delle tenebre del tramonto. Era il contrasto fra luce e ombra, in quell’angolo solitario che mi dava l’impressione di essere triste e al contempo serena.

Da qualche parte, nella vasta scia punteggiata dalla miriade di cose perse, lasciate volutamente, sottrattemi oppure semplicemente dimenticate distrattamente chissà dove, vi sono alcune foto che scattai nel goffo e maldestro tentativo di catturare la sensazione provata.

Ma penso sia meglio non ritrovarle perché, le ricordo bene, non mostravano nulla se non un solitario appezzamento di terra in un pomeriggio qualunque.

La macchina fotografica, specie se usata da mani inesperte come le mie, non agirà mai da specchio alle sensazioni ricevute dal cuore. Anzi. Farà da secchio colmo d’acqua gelida che, versato su quelle emozioni non facilmente articolabili, ne spazzerà via ogni traccia.

E in una tranquilla e semplice sera d’autunno torinese, in una biblioteca di periferia circondata dall’oscurità di un muro fatto di alberi e case forse anonime, ho trovato sugli scaffali ben ordinati la versione italiana di 陰影礼賛 In-ei raisan, letteralmente sarebbe “L’elogio dell’ombra” di Tanizaki Jun’ichiroo.

Non amo particolarmente Tanizaki per vari motivi. La sua è una scrittura che porta il lettore ad esplorare confini della mente e dell’etica che io non voglio esplorare e che preferisco evitare. La sua scrittura mi trasmette angoscia e malessere.

Ma In-ei raisan è in una categoria a sè. Nelle sue pagine c’è poco o nulla del malessere che Tanizaki mi trasmette con le parole.

Leggendo In-ei raisan, a dire il vero, dimentico chi sia l’autore. L’autore diventa una voce senza volto e senza nome i cui pensieri, però, per la maggior parte si trovano allineati con tutto ciò che sento io e che tuttavia era relegato nell’angolo delle sensazioni non articolabili.

Non mi dilungherò sul libro e sul suo contenuto. A questo ci pensano già i vari siti di recensioni, di critica letteraria e via discorrendo.

Va precisato però che In-ei raisan è un tributo all’estetica giapponese e ai suoi canoni apparentemente piu’ volatili agli occhi occidentali.

È l’esaltazione della penombra rispetto alla luce abbagliante che sfalsa, acceca, involgarisce e sottrae, a chi osserva, ogni forma di contemplazione.

Tanizaki ci spiega come le lacche giapponesi, ad esempio, siano state create per luoghi dalla luce fioca perchè solo lì riescono a sfoderare il loro ventaglio di contrasti ebano, vermigli e dorati.

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Agli occhi occidentali una stanza tradizionale giapponese, una 和室 washitsu, appare spoglia e triste, ma in realtà e` tutto fuorchè spoglia.

Sono gli spazi vuoti dove la penombra gioca con sprazzi di luce delicata e scivolata attraverso i pannelli di carta delle porte 障子 shooji a possedere l`aggraziata bellezza che non possiamo – e non potremo – replicare addobbando ad nauseam una stanza con decorazioni e suppellettili cariche di colori e luci.

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Pur risultando a tratti schizzinosamente nazionalista, Tanizaki ci spiega ad esempio l’ineguagliata bellezza della carta giapponese che assorbe lentamente i raggi di luce anzichè respingerli come farebbe quella occidentale.

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L’autore dipinge un’immagine della donna giapponese dei tempi che furono e di come essa condusse sempre una vita riservata dove veniva protetta dagli sguardi estranei. La sua esistenza si srotolava essenzialmente fra le mura di casa, una casa ricca di stanze scure e di giochi tra luce e penombra.
E in quella penombra risaltava il candore della sua pelle, messa ancor più in evidenza dall’antica pratica dell’ o-haguro お歯黒 ossia dell’annerimento voluto dei denti attraverso una soluzione a base di ferro e aceto.
Certo, se cercate immagini di donne con o-haguro vi appariranno strane, strambe, addirittura inquietanti.

Nella cultura occidentale, in generale, il nero non viene associato a qualcosa di positivo. Nero spesso significa sporco, poco chiaro, non comprensibile.

Ma bisogna immergersi, anche se solo per un attimo, nella visione nipponica dell’epoca che vedeva la bellezza nelle lacche scure e in tutto ciò che aveva una laccatura nera.

E i denti, anch’essi laccati di nero, assumevano un grado di fascino e bellezza particolari.

E Tanizaki, a tal proposito, fa una riflessione che colpisce:

“forse erano quelle stesse donne (…) a secernere, dalle dentature annerite e dalle punte dei capelli corvini, le tenebre in cui vivevano.”

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Rallentare il passo

椿 Tsubaki - camelia

椿 Tsubaki – camelia

Sono seduta e con entrambe le mani tengo stretta una tazza di tè. Una tazza panciuta e bianca abbellita soltanto da alcune foglioline verdi forse un po’ solitarie.

Sulla superficie del tè si riflette traballante l’immagine della mia lampada di carta di riso azzurra.

Quell’immagine riflessa appare e subito dopo scompare, inghiottita dal movimento che – sovrappensiero – provoco facendo oscillare la mia tazza.

Un vortice di pensieri ed emozioni mi ha investita quando, una manciata di ore fa, ho saputo della sua morte.

Sono quelle notizie che arrivano senza essere preannunciate. Giungono e basta.

E quando giungono ne capiamo il senso linguistico, ma qualcosa dentro di noi si rifiuta di assegnare credibilità alla notizia. Le parole hanno senso e ne capiamo il significato, ma la loro vera essenza ci sembra surreale, irreale e quasi onirica. Scacciamo l’idea costringendola nell’angolo delle cose che semplicemente non possono essere.

È mancata così, all’improvviso. Si chiamava Noura ed era una tra le persone più generose, limpide, spontanee e genuine che io avessi mai conosciuto.

Viveva per aiutare il prossimo e lo faceva dedicando tutta se stessa. Era instancabile nel suo fare, nel suo dar voce a chi voce non ne ha più. Le sue azioni e il suo cuore agivano da amplificatore alle richieste d’aiuto di chi realmente è debole, oppresso e schiacciato – oltre ogni nostra immaginazione – dagli orrori di guerre e sanguinarie dittature.

Condividevamo un’amicizia molto semplice, ma che brillava. Risplendeva perché era condivisa con lei che era una persona dal vero animo puro ed altruista. Da lei arrivavano sempre e solo parole cariche di speranza e fede.

Ripenso, con un’incredulità che – proprio adesso mentre scrivo – ancora mi stranisce, alle nostre chiacchiere recenti e ai ti voglio bene che ci siamo scambiate con genuina sincerità.

Mi ascoltava e mi leggeva sempre con pazienza. Delle tante cose che ci siamo dette negli ultimi tempi, ricordo con tenerezza quando espresse curiosità e ammirazione per il 金閣寺 Kinkakuji di Kyoto dopo averlo visto, probabilmente, in qualche foto.

Aveva sempre una buona parola, un incoraggiamento, un pensiero positivo per tutti.

Era una di quelle persone che risplendono di una luce bellissima e che riescono a spargere ovunque.

Faceva il possibile per aiutare sempre tutti, senza distinzioni.

Dedicava molto del suo aiuto e delle sue energie alla OSSMEI www.ossmei.com l’organizzazione siriana dei servizi medici di emergenza in Italia, associazione in cui Noura era parte molto attiva.

Finisco a fatica questo tè perché i miei occhi, ormai velati di lacrime, non vedono più.

Dedico a Noura questo mio pensiero accompagnato dalle camelie dell’autunno, belle, dolci, luminose come lo era lei.

A lei va il mio pensiero, accompagnato da una tristezza che non posso ignorare.

La nostra vita è come una camminata a passo svelto che a volte si tramuta in corsa a perdifiato.

Quando però il nostro percorso incrocia la morte di una persona a noi cara tutto intorno a noi rallenta. I pensieri si aggrovigliano in un vortice impetuoso, ma tutto il resto assume toni e ritmi lenti. Persino le immagini, i suoni e i sapori sembrano venir percepiti in maniera differente.

Rallentare il passo e lo si rallenta perché ci ricordiamo di essere umani, di essere mortali, di avere una vita che è una mera manciata di istanti rispetto all’eternità.

Che Iddio l’Altissimo conceda a Noura il Paradiso e la ricompensi per tutto il bene sincero che ha fatto a così tante persone.

Le luccicanti gemme del quotidiano

曲げワッパ弁当箱 Magewappa-bentoobako

曲げワッパ弁当箱 Magewappa-bentoobako

È passata l’estate.

È arrivata, si è accomodata col suo solito fare allegro e ridanciano, ci ha intrattenuti con un alternarsi di piogge e soli cocenti … e poi si è rialzata pigramente dalla poltrona su cui si era spaparanzata con molta naturalezza.

Ha afferrato il suo foulard bianco, si è rimessa i suoi occhialoni da sole un pò retrò ed è sparita.

Al suo posto, come tutti già sapevamo, è arrivato l’autunno, una stagione sempre poco ben accolta per svariati motivi.

Poco prima che finisse l’estate, in quei giorni in cui però già si’percepivano nell’aria i primi profumi dell’autunno, un mercoledì pomeriggio ho invitato la mia cara amica Dea a condividere con me una sorta di pranzo/merenda, ai Giardini Reali qui a Torino.

Avevo bisogno di sapori, forme, colori e sensazioni giapponesi. Ne sentivo la necessità.

Per l’occasione, ho utilizzato una scatola da bento dalla storia e dai ricordi dolce-amari.

Un 曲げワッパ弁当箱 magewappa-bentoobako dai colori scuri, dall’aria retrò e dal sapore 昭和 Shoowa.

L’avevo acquistato in Giappone qualche tempo prima di andar via. In preparazione al mio viaggio per l’Italia – e che si sarebbe poi rivelato definitivo, solo che ancora non lo sapevo – decisi di portarmi in valigia questo magewappa e un altro bento tradizionale acquistato dallo stesso artigiano.
L’intenzione era quella – e sorrido ripensando alla mia ingenuità di allora – di preparare un bento da condividere magari con mia mamma o qualcuno di caro in un bel parco torinese come può esserlo quello del Valentino.

Tutto il resto è storia, ma nel dolore del tutto i due bento se ne rimasero chiusi prima in valigie e poi in cassetti senza mai e poi mai avere il piacere di svolgere la loro funzione. Anzi. Erano una rappresentazione tangibile del mio dolore, della mia sofferenza e per questo motivo non riuscivo a trovare il coraggio di godermeli come avevo tanto sperato in quel mio lontano pomeriggio in Giappone quando, vedendo questi due bento, rimasi ammaliata dalla loro bellezza retrò che racchiudeva molto semplicemente tutta la sobria eleganza tradizionale del Sol Levante che sento così mia.

Insomma, l’idea di invitare Dea a fare una bento-merenda con me ai Giardini Reali era l’occasione giusta per rafforzare la nostra già bella amicizia e per liberarsi dalle ragnatele che si formano sulle cose che releghiamo in angoli dimenticati di vecchi dolori.

Quel bento era stato scelto dal mio cuore per essere usato, apprezzato, vissuto ed era quindi giusto che così fosse.

Nel cuore, nello spirito e nel corpo sono guarita. Ho una vita nuova, piena di gioia e di soddisfazioni. Un cuore ricolmo d’amore più che mai e più di prima, una cerchia strettissima ma selezionata di amicizie preziose e altri tesori.

Quindi sì, era proprio ora di tirare fuori quel bento dalla sua scatola di cartone bianca e rossa pinzata con grossi punti di rame e scartarlo dal suo involucro di carta quasi velina che fino a quel momento lo aveva custodito amorevolmente.

Il bento pronto, poco prima di uscire di casa:RIMG1392

Nel ripiano di sinistra: veg-burger, tamagoyaki, un coniglietto di peperone giallo, olive e pomodorini.
Nel ripiano di destra: due onigiri (uno spolverizzato con 塩こしょう shio-koshoo o sale e pepe giapponese e ripieno di pasta di umeboshi; l’altro abbellito da una fogliolina di basilico e ripieno di おかか okakao katsuobushi mischiato a salsa di soia), pomodorini e qualche uvetta.

Assieme ai bento relegati nel dimenticatoio del dolore, vi erano anche questi picks a forma di 簪 kanzashi:

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Ed eccoli all’opera:

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Seduta su una panchina verde mentre un cielo si velava dietro spesse coltri di nubi grigiastre, ero felice di poter assaporare questo piccolo pasto con Dea e di poter finalmente gioire della semplice ma preziosa gioia di un bento amorevolmente preparato e condiviso.

E di poter chiudere un ennesimo cerchio.

Mentre quel cielo si nascondeva dietro le pesanti nuvole pregne di un acquazzone mai arrivato, i sapori erano puliti, chiari, limpidi e parlavano della genuinità delle cose.

Per strada si perdono amori, amicizie, luoghi e oggetti, ma si acquisisce di nuovo tutto. Non si perde nulla, si cambia solo. O meglio: si perde ciò che ci appesantisce e ci insozza e si acquisisce ciò che fa emergere il meglio che è in ognuno di noi.

Da Dea, amica cara e a me realmente preziosa, ho ricevuto doni dal suo viaggio a Saint Tropez, tra cui questo 煎茶 sencha:

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Questo panno morbido ed una saponetta ai fiori d’arancio.

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Lo stesso giorno in cui ho ricevuto questi doni da Dea, tornando a casa e respirando a pieni polmoni i forti raggi di un sole pomeridiano di fine estate, ho deciso di fermarmi in un negozio di alimentari naturali. Sono quei posti dove amo perdermi nell’ammirare le mille varietà di spezie, di cereali, di sciroppi e burri. Sono quei posti che sembrano infondere mille e uno buoni propositi per un’alimentazione migliore, più bilanciata e più incentrata sulla qualità e sulla preziosità del momento anziché sulla quantità, la moda o altri criteri poco saggi.

Tra le corsie disordinate ma rassicuranti nel loro caos, ho trovato questo libretto di poche pagine ma così carino e dolce da non poterlo ignorare:

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Al suo interno vi sono ricette semplici e sane che dovrebbero poter essere preparate anche da bambini (sotto naturalmente la supervisione di un adulto) e che dovrebbero, al contempo, soddisfare la voglia che i bimbi hanno di dolci o cose un pò pasticciate.

Insomma, la filosofia del libretto è: ogni tanto dolci e cose pasticciate si possono concedere ai piccoli, ma limitando il più possibile il consumo di ingredienti raffinati, non biologici, ecc.

Pur non avendo figli, questo piccolo ricettario mi è piaciuto per le sue illustrazioni innocenti e rassicuranti, per i suoi testi amorevolmente autoritari e che sono un po’ come sentir parlare un genitore. Anche le sue ricette – che non so se o quando realizzerò – ma che per ora soddisfano il mio cuore.

Le gemme luccicanti del quotidiano sono tante e sono nella vita di tutti. Basta solo cercarle.

Vedo ogni giorno tanti volti cupi e musoni che spesso riescono, nella peggior delle ipotesi, a trasmettere e magari contagiare il proprio stato d’animo anche a chi solo li osserva.

In questi anni di esperienze, alcune meravigliose e altre laceranti, ho imparato a ritrovare la gioia anche nelle cose scontate.
Il pensiero, ad esempio, di fare due passi, di ammirare delle foglie che cadono da un albero, di sentire il profumo di caffè fuoriuscire da un bar, di scambiare due parole con un’amica, di fare un regalo a qualcuno riesce a rinfrancarmi.

Quando devo dare lezioni mi capita, abbastanza frequentemente, di andare in un quartiere della città dove è concentrato un alto numero di famiglie poco abbienti o in grosse difficoltà economiche.

Provenendo io stessa da una famiglia povera e avendo vissuto per buona parte della mia vita con lo spettro dello stento – tranne che per un periodo relativamente breve dove ho potuto assaggiare il sapore di una vita benestante e sgombra dalle preoccupazioni del come arrivare a fine mese – riesco immediatamente a percepire certe sensazioni e a solidarizzare con esse.

Ero in questo quartiere proprio l’altro giorno. Entrando in uno di questi palazzi, ho rallentato un pò il passo volutamente.

Il palazzo, vecchio e un pò malconcio, non attrae sguardi e non tenta i cuori di nessuno. Eppure, varcandone la sua soglia consunta, ci si trova in un microcosmo traboccante di emozioni.

Davanti a me un modesto cortiletto che – come spesso accade in stabili come questi – ospita da un lato la parte gioco per i bimbi del condominio e dall’altra garage e piccole officine o laboratori.

Una bella bambina, sugli otto o dieci anni, con lunghi capelli ricci scuri e raccolti in una ordinata coda, faceva le bolle di sapone.

Bolle brillanti che, con un pò di iniziale incertezza, si libravano in volo sfoggiando una superficie cangiante e sempre diversa. Vicino a lei, un bimbo più piccolo. Chissà, forse suo fratello.

Ho osservato per pochi istanti mentre a passo non svelto mi dirigevo verso le scale.

Quelle scale di pietra lisa e percorsa da milioni di passi. Nell’aria il profumo rassicurante e fiero del sapone di Marsiglia. Qualche raggio del sole pomeridiano arrivava un pò di qua e un pò di là, mentre io avanzavo.

Su ogni pianerottolo due appartamenti e ogni appartamento una porta.

Molte di queste famiglie, perlopiù straniere, sembrano essere numerose a giudicare dal vociare a volte allegro altre volte lamentoso di bambini di varie età.

Alcune di queste porte rimanevano spalancate ma davanti cui, per rispetto, mi voltavo per non infrangere coi miei occhi le loro case.

Da ognuna di queste case arrivavano gli odori della quotidianità: cibi che qualcuno stava preparando; l’odore della biancheria appena lavata; la fragranza di un caffè; l’odore della vita che si vive giorno per giorno.

Gli odori erano accompagnati dai suoni della vita semplice di famiglia: il tintinnio di posate e stoviglie; l’apertura e chiusura di cassetti; il clac-clac di zoccoli e tacchetti; il gracchiare di radio oppure di qualche programma televisivo; il vociare a volte vivace di discussioni condotte spesso in lingue a me incomprensibili.

Da una di queste case è spuntata una bambina che, dal pianerottolo, ha alzato gli occhi per guardarmi e con la spontaneità e sincerità dei bimbi mi ha salutata con un brillante “Ciao!” accompagnato dal gesto della sua manina.

Naturalmente ho risposto con grande piacere al suo saluto, ricambiandolo prontamente e sorridendole mentre, gradino dopo gradino e con un pò di fiatone, ero quasi arrivata a destinazione.

È bastato entrare nel portone di un palazzo qualunque, di una zona qualunque della periferia torinese spesso intrisa di grigiore e scoraggianti prospettive, per uscirne col cuore gonfio di contentezza.

E ieri, da Monica, mia cara amica, ho ricevuto questa delizia: una marmellata giapponese di fichi prodotta nella città di 尾道市 Onomichi-shi nella prefettura di 広島 Hiroshima.

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Piccole cose belle

Limpidi mondi di un tempo che fu

Limpidi mondi di un tempo che fu

Mi è capitato, tra ieri ed oggi, d’immergermi in piccoli e limpidi mondi fatti di immagini semplici; di parole un po’ antiquate ma dolci come la carezza dalle mani di una mamma; di descrizioni composte e pulite, ma non per questo inamidate.

Mi è capitato, tra ieri ed oggi, di riscoprire un’infinitesima parte di quella letteratura per ragazzi che, forse e con sommo rammarico, sta scivolando suo malgrado in un oblio dove vengono relegate tutte quelle cose considerate ormai superate, démodé, meritevoli di un armadio e qualche bella pallina di naftalina.

Ad allietarmi e ad immalinconirmi anche un po’, il celebre Giornalino di Gian Burrasca di Vamba e un’opera decisamente più oscura della prima, ma non per questo minore in bellezza: Tre Monelli e un Teatrino di Manlio Mora.

Il motore di ricerca più famoso al mondo mi restituisce poche e scarne notizie su questo Mora.

Pare fosse originario di Parma, un poeta e addirittura un generale del Regio Esercito durante la seconda guerra mondiale.

Esistono ancora alcune copie dei suoi vecchi libri, soprattutto in sale di consultazione oppure attraverso antiquari o semplici rigattieri.

Senza farlo minimamente apposta, i due libri – venuti in mio possesso in due momenti temporalmente ed emotivamente lontani fra loro – raccontano entrambi, seppur con impostazioni differenti, le avventure di bimbi monelli e delle loro innumerevoli marachelle.

Vamba ci narra le rocambolesche avventure di Giannino Stoppana, detto Gian Burrasca, un bimbo dei primi nel Novecento che, combinandone davvero di tutti i colori, ci regala uno scorcio unico di vita in una famiglia toscana nobile di quegli anni.

Mora, invece, ci racconta le avventure di due piccoli monelli, due fratelli di nome Mario ed Enzo e della loro sorellina Dirce, appartenenti ad una povera famiglia dove i lussi erano ben pochi e dove bastava un’umile crosta di formaggio a far venire l’acquolina in bocca a questi umili bimbi.

A coloro che hanno la pazienza di rispolverare le letture dei ragazzi di un tempo, la ricompensa che trovano è quella di un linguaggio garbato, pulito, d’altri tempi ma non per questo noioso.

Vi sembrerà di affondare leggermente la testa in un mondo scomparso, dove ci si dava normalmente del Voi e dove – complice forse l’innegabile fascino di tutte le cose che sono state e non sono più – tutto sembrava infinitamente più genuino, sincero, cristallino e umano.

Le marachelle di Gian Burrasca nascono quasi sempre, infatti, dal desiderio in realtà di fare un favore, di facilitare qualcosa a qualcuno. Come quando, all’arrivo improvviso e inaspettato in casa Stoppani della vecchia zia Bettina, le sorelle del monello Giannino si sentirono enormemente infastidite perché sapevano che questa visita non attesa (e non gradita) avrebbe messo a rischio la riuscita della loro festa.
Gian Burrasca, allora, con cuore innocente decide di riportare all’anziana zia i commenti poco lusinghieri che le sue nipoti le hanno rivolto a sua insaputa. Così facendo, il monellino pensa ingenuamente di risolvere la situazione salvando capra e cavoli, ignaro ovviamente delle mille e disastrose conseguenze.

Un’indole decisamente più birichina anima invece le birbanterie di Mario ed Enzo che spesso si divertono a combinarle grosse semplicemente per il gusto di farsi un gran bella risata. Un pò come quando, nella bottega di Mastro Cesare, il loro padre falegname, decisero di versare della colla sopra una sedia su cui si stava per accomodare un uomo anziano e cliente del papà.

Vi lascio immaginare il resto della scena.

Curiosando nei mercati di cose vecchie, come può essere il nostro celebre Balon qui a Torino, oppure negli oramai numerosi negozi dell’usato che popolano le nostre città, vi può capitare facilmente di trovare molte opere risalenti ai primi anni del Novecento. Libri spesso di autori oscuri oppure eclissatisi dopo forse un breve periodo di gloria a noi troppo distante per poter rievocare un ricordo.

Ma sta proprio in questo il fascino. Il numero di autori viventi o defunti che abbiano pubblicato anche solo una parola è talmente grande da non poter forse essere quantificato. E quindi perché mai dovremmo soffermarci testardamente sui pochi e blasonati nomi riveriti da questa o quella persona? Chi ci dice che nei tanti libri di scrittori meno conosciuti o addirittura anonimi non possano celarsi delle piccole meraviglie, dei piccoli mondi vellutati, delle piccole cose belle?

Testimonianze autentiche di un passato, spesso ammonticchiate in polverose casse dove per ogni pezzo bastano pochi spiccioli.

Sempre dalla mia cara amica Dea, ho ricevuto il dono di parole sentite e bellissime.

Da lei ho ricevuto questa collezione di sue poesie che hanno la delicatezza di un giglio e la bellezza di un velo di seta sospinto da uno sbuffo di vento.

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In passato mi sono stati regalati libri di poesie, in varie occasioni, ma poche volte ho provato la sensazione sentita nel ricevere e poi nel leggere le parole di questi componimenti.
Sono stata trasportata, con forza, in una dimensione però delicata fatta solo di sentimenti che dall’anima vengono convogliati attraverso una penna ed il suo inchiostro.

Sono emozioni che prendono la forma di stille d’inchiostro su fogli di carta leggermente ruvidi.

Chiederò a Dea il permesso di riportare alcune delle sue poesie che ho apprezzato particolarmente affinché possiate leggerle anche voi.

Le piccole cose belle continuano nonostante tutto. Certo, perché noi non cessiamo di esistere anche quando si fa buio e a volte si ha paura.

Negli ultimi mesi la mia vita si è arricchita spiritualmente in maniera molto speciale e preziosa. Un giorno, forse, ve ne parlerò. Ma non ora.
E la mia vita adesso, ricca ora anche sentimentalmente, è rifiorita… come un campo che, inaridito da un caparbio sole, riceve acqua che lo rigenera reidratando le sue vene e il suo essere.

Negli ultimi due mesi o tre, però, la mia vita è stata un po’ come una mongolfiera che salendo sempre più su ha dovuto, a un certo punto, liberarsi di pesi, di zavorre. In realtà, a volte le zavorre si liberano da sole senza che sia tu a volerlo.

Ed è esattamente ciò che mi è successo.

Avevo un’amica a cui volevo molto bene. La stimavo particolarmente. Era una persona che ritenevo, senza ipocrisie, una delle migliori che avessero mai incrociato il mio scombussolato cammino di vita.
Era davvero un piccolo diamante. O così sembrava.

Ho il difetto, il grande, enorme difetto di sopravvalutare sempre le persone anche quando l’istinto mi dice che in realtà vi è qualcosa di bizzarro, di strano, di non del tutto chiaro.
Testardamente ignoro i campanellini d’avvertimento, considerandoli meri pregiudizi sciocchi.

Quei campanellini mi avevano avvisata in più occasioni, ma io ho sempre scelto di non prestar loro alcuna attenzione reputandoli fasulli o fuorvianti.

Ma le cose hanno un perché e anche le sensazioni.

Questa persona non mi era amica. Non lo era affatto.

Ma pazienza. Ha scelto di eliminarmi dalla sua vita come si fa con un vestito smesso, sparendo veramente dall’oggi al domani e negandomi addirittura la basilare ed elementare possibilità di un confronto dove, le persone mature di solito, si dicono sul muso quello che hanno in petto anziché scivolar via vigliaccamente nei meandri del quotidiano e del tempo che scorre.

Di vigliaccherie ve ne sono state già a sufficienza nella mia vita negli ultimi anni e quindi riceverne di nuove, soprattutto da chi si professava molto corretta e capace nella gestione del tempo e mille altre cose, lascia amareggiati e un po’ (tanto) sfiduciati.

Incassato il colpo ed ingoiatane l’amarezza, mi sono rialzata – anche se con meno fiducia nei confronti dell’amicizia – riprendendo il mio cammino.

Vi è sempre qualcosa di più bello dopo.

Leggete cosa scrisse Mora negli anni Trenta, nel libro Tre Monelli e un Teatrino:

(…)Non bisogna dimenticare, del resto, che l’idea informativa del bello e del brutto, nelle cose di questo mondo, il più delle volte non è che una manifestazione di soggettività determinata dalle condizioni di spirito colle quali le cose stesse vengono, ad un dato momento, osservate o sentite. La naturale, istintiva filosofia dei piccoli, aveva portato Mario – ad esempio – a tale grado di sensibilità, da non sentirsi veramente felice se non quando suo padre era in collera con lui, perchè – l’esperienza glielo aveva insegnato – sapeva che così non poteva durare molto a lungo: il maltempo, presto o tardi, la cede al suo rovescio: il sereno.

In questa foto, invece, si riassumono tre concetti:

  • Il desiderio, realizzabile chissà quando, di scrivere un libro. Motivo per cui acquistai quel quadernetto dalla copertina decorata in omaggio di antiche lacche giapponesi che ornavano vecchi 重箱 juubako di un tempo…con la speranza di riempirne le pagine con idee.
  • La signora di Malacca, di Francis de Croisset: un romanzo acquistato in un negozio di libri usati. Mi attirava il suo titolo attorno cui, nella mia testa, iniziai a costruire mille storie.
  • Un vecchissimo libro di cultura giapponese, in giapponese, regalatomi dalla mia amica Monica di ritorno da un suo viaggio nel Sol Levante.

Tre piccole cose belle.

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Tante piccole cose belle.

Come questo testo raro dedicato alle prime generazioni di sino-americani e scovato, una sera per caso, da Mercurio in Via Po.

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Oppure queste riviste giapponesi, di decenni fa, dedicate all’origami e trovate sulla caotica bancarella di alcuni signori, al Balon di Torino.

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Piccole cose belle come questo ストラップ sutorappu (pendaglio giapponese per cellulari o borse) ricevuto dalla mia amata amica Saku e su cui compaiono gli hiragana del mio nome:

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Le perdite non sono mai vane. Tutto ha sempre – sempre – un suo perché anche se a volte non lo si comprende subito.

Ma ad ogni perdita segue un una gioia sempre più grande del dolore che l’ha preceduta.

Quel che possono i cuori…

Handala

Handala

Un paio di giorni fa sono ritornata nel quartiere dove sono nata e cresciuta.

Ci sono andata per una commissione che in realtà non era urgente e che soprattutto potevo sbrigare anche da un’altra parte.

Ma ho preferito invece sbrigarla lì perchè sapevo che avrei potuto così godermi una o due ore, in solitaria, per le vie tranquille di quell’angolo di città così intriso di ricordi. Belli o brutti che siano.

È un quartiere dove non c’è assolutamente nulla di speciale, nulla che potrebbe diventar fonte di vanto nei confronti di un forestiero, di un turista.

Non è un quartiere con quella scia affascinante fatta di arte, architettura e storia che solitamente impreziosisce molti quartieri di tante città italiane.

In questo angolo di Torino invece non c’è nulla di tutto questo. Wikipedia elenca, fra i pochissimi luoghi d’interesse e di rilievo storico della zona, una chiesa di deciso sapore ottocentesco, un parco, un giardino intitolato a Peppino Impastato, un oratorio e poco altro.

Questa è una zona di case, case e ancora case. Grossi condomini che agli inizi degli anni Sessanta rappresentavano, in mattoni e cemento, la poderosa forza lavoro di operai non solo FIAT ma di tanti altri stabilimenti e fabbriche che in quegli anni erano realmente la linfa vitale di Torino.

I giardini, i parchi, il tanto verde sono – a mio avviso – uno degli aspetti più belli di questo posto. Un verde abbondante e persin lussureggiante in certi punti. Un verde brillante e generoso che forse nei quartieri più sofisticati e antichi scarseggia fino ad essere inesistente.

E sebbene oramai non esista quasi più la Torino deserta dei mesi estivi dove la città, in seguito al puntuale esodo dei cittadini verso luoghi di villeggiatura, si svuotava fino ad assumere i toni e le sensazioni surreali di una solitudine come quella del prof. Borg ne “Il posto delle fragole” di Ingmar Bergman, si assiste lo stesso ad un alleggerimento delle vie.

Passeggiando per una di queste vie smeraldine e quasi solitarie, a passo volutamente lento e assaporato, con gli occhi cercavo tutti gli appigli della memoria, angoli a cui inevitabilmente sono legati dei ricordi.

Ricordi semplici, d’infanzia e adolescenza. Ricordi forse sciocchi e privi di senso, ma che sono comunque una parte insostituibile di ciò che sono io.

In una di queste vie verdi e illuminate dal sole instancabile del pomeriggio, una donna in dolce attesa aspetta un autobus in compagnia di sua figlia, un’allegra bambina che avrà avuto suppergiù otto o nove anni.

Mamma e figlia chiacchierano felicemente di cose varie.

La bambina, altalenandosi con fare giocoso e con lo sguardo rivolto all’insù, pone alla mamma questa domanda:

“Mamma, ma il cielo è dritto o a cerchio?”

Non ricordo quale fu la risposta della mamma, ma poco importa.

Ho proseguito la mia passeggiata, a passi lenti e assaporati, per le vie alberate e semi-deserte di un modesto quartiere di Torino dove non ci sono tracce di glamour o impronte di acclamati architetti di gloriose epoche che furono.

Tutti i bambini del mondo sono curiosi di quello che li circonda. I loro occhi tentano di interpretare ciò che vedono, dandosi forse spiegazioni che ad un adulto possono sembrare fantasiose o addirittura strampalate.

Ma alle volte, anzi troppo spesso ancora, ci sono bambini i cui occhi vedono da subito il lato peggiore e più scuro dell’essere umano. Sono occhi che vedono, loro malgrado, il personificarsi di violenze e orrori che nemmeno le parole più accorate potranno mai descrivervi completamente.

Forse avete riconosciuto Handala, in alto a sinistra, quel personaggio creato dall’artista e illustratore Naj-al-Ali e che rappresenta un bimbo palestinese proveniente da un campo profughi.

Handala viene sempre rappresentato così, mentre guarda avanti e volta le spalle a noi che guardiamo lui.

Handala si volterà solo e quando la Palestina sarà finalmente una terra libera.

Queste settimane di nuovi attacchi vigliacchi da parte dell’esercito israeliano sulla popolazione civile palestinese hanno portato molta preoccupazione e dolore nella mia vita.

Le tragedie nel mondo sono tante, più di quanto possiamo immaginare, ma credo profondamente che sia dovere di ogni essere umano provare solidarietà nei confronti di tutte le popolazioni oppresse, senza distinzione alcuna.

Il conflitto israelo-palestinese è una dolorosa vicenda che va avanti da decenni e decenni. Molti di noi ricordano vecchi telegiornali che già ne parlavano e in cui già si davano interpretazioni e possibili soluzioni.

Pur essendo una vicenda così complessa, le sue origini e la sua storia sono estremamente semplici e alla portata di chiunque voglia studiarle con una mente pulita, onesta e sincera.

Questo è uno di quei casi dove è possibile avere un quadro completo e preciso dei fatti, unitamente a un’opinione altrettanto chiara e solida, purchè ci si accosti alla questione con sincerità ed onestà.

Se desiderate chiarirvi le idee in merito, vi consiglio, anzi vi invito con il cuore in mano, a leggere QUI e a vedere QUESTO video.

La Palestina ora mi tocca molto da vicino perchè fa parte del mio quotidiano, della mia vita, della mia nuova vita. E non potrei dunque discostarmi mai dalle lacrime e dal sangue che quella terra versa da così tanto tempo ormai, davanti a intere nazioni che sembrano mantenere un’aria di totale impassibilità e addirittura indifferenza.

Cosa possiamo fare davanti al genocidio che Israele continua a compiere contro i palestinesi?

Che cosa possiamo fare noi da qui?!

Manifestazioni?
Lettere e petizioni infervorate su Facebook o altri siti?
Boicottaggi generali contro tutti i prodotti di manifattura e origine israeliana?

Non lo so. Non so nè se queste soluzioni servano nè a quanto possano servire.

Ma so per certo che un primo passo possiamo compierlo attraverso la nostra solidarietà generale, attraverso i nostri cuori.

Quel che possono i cuori forse può apparire come un’insignificante stilla nel mare, ma non lo è ed è certamente un primo passo in quel coro d’indignazione che tutti noi dobbiamo creare per far muro contro ogni forma di bieca vigliaccheria e orrore.

Quel che possono i cuori è opporre forte resistenza contro ogni individuo, sistema, Stato che ritiene accettabile lanciare bombe e gas nervini sulla popolazione civile, sia che ne sia il fautore diretto o un vile complice.

La mia speranza è che a tutti i bambini venga concessa l’innegabile libertà di poter alzare gli occhi e contemplare, con lo sguardo curioso ed innocente dei piccoli, il cielo per chiedersi se questo sia dritto oppure a cerchio.

E chissà, magari un giorno lo farà pure Handala mentre si volterà verso di noi mostrandoci il suo più bel sorriso.
#FreePalestine
#SaveGaza
#PrayForPalestine

Hiyashi-chuuka: il sapore giapponese dell’estate

冷やし中華 Hiyashi-chuuka

冷やし中華 Hiyashi-chuuka

Passano i secondi, passano i minuti, passano i giorni, le settimane, i mesi. E poi gli anni.

E così la vita si srotola davanti ai nostri occhi come una vecchia pergamena.

Gli istanti passano per non tornare più, lasciando dietro sé il sapore dolce-amaro della nostalgia.

L’estate è di nuovo alle porte. Innumerevoli manciate d’istanti sono dovuti passare per ritrovarci di nuovo qui, nel mese di giugno, in quel mese sempre associato alla fine della scuola e all’inizio di quelle vacanze che da bambini sembravano durare per sempre.

Gli istanti passano, fondendosi l’un nell’altro, mentre forse a volte ci sembra di essere fermi, di non aver mosso un passo.

Altre volte, invece, quegli stessi istanti scivolano via con la forza travolgente di un turbine, lasciandoci addosso la sensazione di aver vissuto un giorno come cento.

Maggio e giugno sono stati mesi, per me, emotivamente molto forti.

Ho trovato la dimensione spirituale che cercavo, ritrovando una grande pace e una chiarezza di pensiero che sembrava ormai avermi abbandonata.

Ho rafforzato ulteriormente un’amicizia con un’amica dal cuore limpido.

Ma nel frattempo ho ricevuto una delusione dolorosa da una persona che, come capita nel cento per cento dei casi, sembrava un’amica ma evidentemente non lo era.

Le delusioni hanno un perché e senza di esse non riusciremmo ad avanzare. Conosciamo il loro valore, ma lo conosciamo e lo apprezziamo solo a posteriori, a mente fredda.

In quel momento, però, la lama tagliente dell’amicizia tradita e del tuo cuore trattato come se valesse mezza carta di caramella gettata a terra penetra molto in profondità, facendoti sanguinare. Si sanguinano lacrime calde che lavano via un pò il dolore, smorzandolo fino a farlo arrivare a livelli gestibili e assimilabili da una mente che altrimenti rifiuta di trovare una logica a ferite provocate senza un perché.

A mente e cuore un po’ più alleggeriti dal bruciore di quel taglio ormai in fase di guarigione, trovo una grande verità:

Strada facendo si perdono tanti amici, per i motivi più svariati. Anzi, a volte i motivi possono pure non esistere.

Ma ad ogni amico perso, se ne trova un altro e generalmente migliore del precedente.

E se questo non dovesse accadere, allora vuol dire che ci sarà altro che ci darà equivalente o superiore gioia a quella di un’amicizia.

Con l’aria quasi ormai estiva pregna della fragranza dei gelsomini, il calore sempre più invadente e appiccicoso, mi sono ricordata con nostalgia di una delizia che in Giappone mangiavo non appena il Paese si ritrovava nella morsa di quella sua estate senza pietà: 冷やし中華 hiyashi-chuuka.

Hiyashi-chuuka è l’equivalente nipponico della nostra estivissima insalata di pasta.

Letteralmente il nome significa “cibo cinese freddo” e questo perché il tipo di spaghettini usati sono generalmente i ramen o comunque spaghetti cinesi.

Essenzialmente, quindi, si tratta di spaghettini freddi guarniti da cetrioli, striscioline di frittata, pollo bollito, prosciutto e il tutto irrorato da una salsina a base di salsa di soia e olio di sesamo.

È un piatto davvero molto gustoso, non difficile da preparare, economico ed esteticamente gradevole.

Ecco a voi la ricetta per quattro persone:

4 o 5 matassine di spaghetti cinesi
2 petti di pollo
1 cetriolo
6 fettine di prosciutto (io ne ho usato uno di manzo molto gustoso)
2 uova

Gli ingredienti per il タレ tare o salsina:

140ml d’acqua
100ml di salsa di soia
100ml di olio di aceto di riso o aceto di mele
2 cucchiai di zucchero
1 cucchiaio di olio di sesamo

facoltativo: una manciata di semi di sesamo

Acqua, aceto e salsa di soia

Acqua, aceto e salsa di soia

Per prima cosa, preparare la tare o salsina unendo l’aceto, l’acqua, la salsa di soia, lo zucchero e l’olio di sesamo.

Due cucchiai di zucchero

Due cucchiai di zucchero

L’olio di sesamo è un ingrediente ormai diffuso anche in Italia e reperibile sia negli Asian Market che nei centri della grande distribuzione.
Non costa poco, ma conviene prenderlo di qualità dato che non si usa in grosse quantità generalmente. Una bottiglietta vi durerà diverso tempo, purché la conserviate in un luogo fresco e asciutto. Se non fate attenzione, l’olio di sesamo irrancidirà alla velocità del west.

Qui a Torino, nella zona di Porta Palazzo, e più precisamente nel mio Asian Market del cuore ossia quello di Via delle Orfane, trovo questo olio di sesamo giapponese proveniente dalla Prefettura di Mie, il 純正junsei della Kuki-Sangyo:

ごま油 Goma-abura. Olio di sesamo.

ごま油 Goma-abura. Olio di sesamo.

Mischiando i suddetti ingredienti, otterrete la vostra profumatissima tare:

冷やし中華のタレ Salsina per hiyashi-chuuka

冷やし中華のタレ Salsina per hiyashi-chuuka

La salsina può essere preparata anche con largo anticipo e conservata tranquillamente in frigorifero, fino al momento dell’uso. Anzi, se vi dovesse piacere la ricetta, vi consiglio di preparare una bella quantità di tare da tenere in una bottiglia o contenitore nel frigorifero, pronta da usare all’occorrenza ogniqualvolta vorrete gustarvi un buon piatto refrigerante di hiyashi-chuuka.

Gli spaghettini da usare sarebbero quelli che in Giappone vengono chiamati 生中華そば nama-chuuka-soba ossia spaghettini cinesi freschi. Là si trovano anche secchi e sono buoni comunque, anche se quelli freschi personalmente io li preferisco.

Andate a farvi un giro nel vostro Asian Market di fiducia e vedete un pò cosa riuscite a scovare in quanto a spaghettini. È possibile che non ci saranno degli autentici nama-chuuka-soba ma qualcosa di simile.

La mia scelta è ricaduta su queste deliziose matassine:

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Questi begli spaghettini arrivano da Taiwan e hanno una consistenza simile a quella della chuuka-soba.

Prendete qualcosa di simile oppure anche delle semplici mattonelle di ramen secchi, di quelle che trovate in vendita senza il condimento.

Queste matassine cuociono nel giro di 4 minuti abbondanti. Ricordatevi che la pasta asiatica generalmente va cotta in acqua senza l’aggiunta di sale poichè il sale è già incluso nel suo impasto.

Una volta cotti, vanno risciacquati sotto un getto d’acqua fredda corrente.

Prepariamo le guarnizioni:

1. mettere a bollire in acqua leggermente salata i petti di pollo e – a cottura ultimata – tagliarli a striscioline con un coltello oppure sfilacciarli con le mani facendo attenzione a non bruciarvi.

2. Tagliare il cetriolo possibilmente con la tecnica del 細切り komagiri e che vedete illustrata qui.

3. tagliate a striscioline sottili il prosciutto.

4. Sbattete le due uova e fateci una frittatina sottile e che tagliuzzerete a strisce.

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Prendete dei piatti un po’ fondi e in ognuno mettete una matassina di spaghettini cotti. Sopra gli spaghettini, cominciate a sistemare le guarnizioni cercando di essere ordinati.

Infine, irrorate generosamente i vostri hiyashi-chuuka con un mestolo di tare.

E siete pronti per sedervi a tavola! いただきます! Itadakimasu!

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La mia hiyashi-chuuka: un ritorno olfattivo e papillare al Giappone estivo

La hiyashi-chuuka è facilmente personalizzabile in base ai vostri gusti. Potete farla solo di verdure evitando così la carne, le uova e il prosciutto. Oppure potete aggiungere altre verdure che vi piacciono.
Ad esempio, i pomodorini piccoli sono ideali perchè danno un bel tocco di colore.

In questi giorni al mercato e dal verduriere si trovano i piselli freschi, una di quelle bontà che oramai non siamo quasi più abituati a gustare nella sua versione naturale, che non preveda dunque una scatola di latta.

Avevo un pò di piselli freschi e quindi ho pensato di usarne qualche manciata per dare colore e sapore.

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Arriva l’estate e noi l’aspettiamo. Cos’altro possiamo fare?

Come aspettiamo lei, aspetteremo anche l’autunno e poi l’inverno. È la ciclicità della vita che scandisce i nostri ritmi e il passare delle stagioni dell’uomo.

E come sempre, il segreto sta nel riuscire a trovare il bello in tutto ciò che ci circonda, fossimo anche attorniati da un brullo deserto. Da qualche parte, pure in quel deserto, ci sarà una duna da cui spunta fiera la luna, no?

Io adesso, grazie a Dio, non sono più nel deserto brullo ma mi ritrovo nuovamente in un giardino che diventa di giorno in giorno sempre più verde, più fiorito, più profumato. In esso corre libero l’effluvio del gelsomino e dei cuori più belli che io abbia ora nella mia vita.

Coltre fatata, un torii a Torino e un ricordo

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La coltre fatata

Satsuki.

五月 il quinto mese
皐月 il mese dell’azalea

Questo è uno degli antichi nomi giapponesi del mese di maggio.

Scrivo di Torino perchè, oltre ad essere la mia città di nascita, è la città in cui mi ritrovo ora.

Torino, come tutte le città natali, ha quel qualcosa di rincuorante e di scorante al tempo stesso.

Tornare a casa è ritrovarsi e rivivere, ma al contempo è anche lasciarsi alle spalle l’avventura, rimettere i piedi a terra e la testa a posto.

A me Torino ha sempre fatto questo effetto.

Con un aereo che atterra all’aeroporto di Caselle oppure un treno che, chilometro dopo chilometro su pesanti binari, ritorna a Torino buttandosi fra le braccia della stazione di Porta Nuova, beh… la sensazione è sempre quella.

L’emozione e il sollievo di essere di nuovo a casa misti a un’incontenibile nostalgia per quel che è stato.

C’è quel momento in cui si vorrebbe far dietro-front e correre di nuovo via.

Eppure no. La balsamica sensazione di ritorno a casa ci attira verso sè con la forza di un magnete, ma qualcosa dentro il proprio cuore inguaribilmente viaggiatore non si placa e forse mai si placherà.

Torino in questi giorni è avvolta in una morbida nuvola di polline, una dolce e carezzevole copertina di mille fiocchi volanti che si perdono nell’infinità dell’aria, scivolando sulle superfici di fiumi e pozzanghere, posandosi per terra e lasciandosi intrappolare dai fili d’erba.

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Passeggiando non distante da casa mia, con il sole del tardo pomeriggio che fiero illuminava a sprazzi intensi triangoli di asfalto e strisce di vegetazione, mi sono ritrovata accovacciata ad osservare questa soffice carezza bianca, anche se burlona e dispettosa col naso di molti, mentre con grande grazia ricopriva giardini, cigli della strada e ovunque vi fosse un pò d’acqua.

Sembrava una coltre fatata.

Più di un anno fa, passeggiando in solitaria da queste parti, mi capitò di scorgere in lontananza un 鳥居 torii. O almeno, così mi era sembrato.

Ne avevo immediatamente riconosciuto in lontananza la sagoma e il colore.

Talmente impresso nella mia mente fu quel ricordo che dimenticai però dove avessi visto il torii in questione, tanto che girai a lungo tempo dopo nel tentativo di ritrovarlo… invano.

E oggi pomeriggio, mentre ero a spasso e inseguivo la coltre fatata, ecco che da lontano ho rivisto quel torii.

Allora non ricordavo male! Allora non avevo avuto una visione nippo-mistica?!

No. Era un torii vero. Anzi, erano due!

Incredula, mi ci sono avvicinata. Mi è bastato voltarmi per vedere, a poca distanza, il palazzo dove abito.

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Sono rimasta ferma, con dipinta sul mio volto (ne sono certa) un’espressione tra il contento e l’inebetito.

In quel momento però – è comico lo so – ho pensato sì al Giappone naturalmente, ma il primo pensiero è andato al grande torii che accoglie chiunque entri nella base militare navale di Atsugi, in Giappone appunto.

Quella era la mia vita prima. Ho avuto il privilegio di vivere il Giappone a trecentosessanta gradi e con in più la mia presenza attiva all’interno della comunità militare, soprattutto quella navale, sia statunitense che nipponica.

Quel torii grande a pochi passi dall’entrata della base era stato messo lì per stupire i nuovi occhi occidentali che, di quel posto, avevano il loro primo assaggio di Sol Levante.

Era messo lì per affascinare e non si preoccupava minimamente di essere decontestualizzato. Era lì per compiere una missione: era un biglietto da visita tanto ammirevole inizialmente quanto scialbo col tempo.

Un po’ come lo erano i kimono appesi scioccamente alle pareti del Navy Lodge, l’albergo che ospita i militari e le famiglie.

Ricordo ancora la risata di Sakura quando, vedendo quel torii in mezzo alla rotonda, mi chiese cosa ci facesse un cancello sacro shintoista proprio in quel punto.

Le dissi che era lì per bellezza, per figura, per fare. E in effetti era così.

Lei mi guardò con occhi stupiti. Come poteva un torii essere usato per bellezza?

Nello shintoismo, il torii indica la presenza di un santuario. Anzi, simboleggia il punto di transizione tra la vita terrena e profana e il mondo divino.

Con alle spalle il mondo terreno, al di là di un torii dunque troviamo solitamente un santuario, un luogo considerato sacro da chi pratica il buddismo e lo shintoismo.

Ma nella rotonda principale di 厚木基地 Atsugi-kichi, al di là di quel lucidissimo torii laccato di rosso, c’è una strada che di sacro ha poco o nulla. È una strada che si addentra nel cuore della base e conduce a posti che di spirituale – temo – hanno molto poco.

Capii subito, quindi, lo sguardo stupito e la risata non così sommessa di Saku-chan.

Il torii di oggi pomeriggio fece riaffiorare alla mente questo ricordo perchè in fondo svolge la stessa funzione decontestualizzata del collega nella rotonda di Atsugi-kichi.

Anche se…anche se forse un briciolo di sacralità probabilmente tenta di proteggerla. I torii torinesi sono, infatti, davanti all’ingresso di una famosa scuola di arti marziali.

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Mi è capitato, di recente, di vedere le scene di apertura del film Emperor, diretto da Peter Webber, con nel cast Matthew Fox e Tommy Lee Jones, l’amatissimo dai giapponesi e di rivedere, proprio in quelle scene, i luoghi a me famigliari del Giappone e di Atsugi-kichi, un luogo – quest’ultimo – un po’ sospeso fra due mondi. È un Giappone non Giappone.

Ho avuto un tuffo al cuore e nella mia mente sono ritornati milioni di ricordi e di pensieri, travolgendomi con la forza bruta di uno tsunami.

Semplicità pomeridiane

Un sole pomeridiano magnifico illumina Torino da ore. Un bouquet radioso di raggi caldi impregnati del profumo della vita, del respiro, del battito di un cuore, di un sorriso sincero, di due occhi che – non potendo mentire – lasciano trasparire l’essenza dell’anima.

È rincuorante assistere all’allungarsi delle giornate e alla gioia di un sole che ti accompagna fino alle ore inoltrate del pomeriggio.

Un venticello tiepido e leggermente sfrontato giocherella con le tende verdi dei balconi; con la biancheria stesa che – divertita – sventola come bandiere; con i rami di alberi ormai adornati di stupendi fiori.

Vado fuori, chiudo gli occhi e respiro… e respirando catturo la fragranza della città al pomeriggio.

Tutto profuma di linfa che pulsa, di sangue che scorre nelle vene, di idee che si mescolano e si rimescolano, di nuove energie e propositi.

Se da una parte la routine quotidiana porta conforto, dall’altra ti sottrae la voglia di inventare facendo qualche strappo alla regola che scandisce le nostre giornate.

Si perde la mano nelle cose a cui si ripensa, di tanto in tanto, con una certa nostalgia.

Era da tempo che desideravo rispolverare il mio rito pomeridiano del 抹茶 matcha e quale momento migliore se non questo sereno e profumatissimo pomeriggio quasi primaverile torinese?

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Ho tirato fuori, dunque, la mia tazza da 野立て nodate, il mio 茶筅chasen, il mio 茶杓 chashaku, un どら焼き dorayaki come dolcino e – naturalmente – il mio 抹茶 matcha.

Chissà se ricordate questo mio post qui?

Per una persona, bastano un chashaku e mezzo di tè matcha versato direttamente nella tazza.

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Si mette a bollire l’acqua e quando è pronta la si versa in un’altra tazza (per smorzarne un po’ il calore che potrebbe essere eccessivo), dopodiché la si può versare nella tazza da matcha.

Fatto questo, si inumidisce con acqua tiepida il chasen e si è pronti per mescolare accuratamente avendo l’accortezza di eseguire un movimento a forma di M e concludere con un movimento come se si dovesse tracciare, con le setole del chasen, l’hiragana の.

Mi sono accorta di aver perso un pochino la mano, ma la riacquisterò. Basterà solo non far passare altro tempo.

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Il matcha ha il sapore della natura, del fogliame, del fresco e del vero. Dona energia come il caffè, ma senza la tremarella da caffeina.

Ho ritrovato molta serenità in questa semplice preparazione e nel privilegio di poter sorseggiare questo buon tè dalla mia amata tazza coi bordi dipinti di cielo.

Amicizia con un cuore artistico

Mi piace paragonare il percorso di una vita umana a quello che compie l’alpinista mentre, col cuore e il corpo imbevuti di speranza e forza, affronta la strada che ha davanti a sè, senza tirarsi indietro.

Indubbiamente l’inizio della sua scalata è pregno di emozioni quasi esaltanti, trepidazione, grande ed elettrizzante ansia, ma man mano che procede questi sentimenti periodicamente scemano lasciando il posto alla stanchezza, al dolore, forse alla rabbia, alla paura, alla voglia di arrestarsi.

Però si continua perchè si deve, perchè non c’è altra strada da seguire se non quella che – con occhi traboccanti di sfida – ci aspetta davanti al nostro viso.

Ma l’alpinista è un campione per il solo fatto di voler andare avanti.

E campioni siamo tutti noi che siamo ancora qua a raccontare la nostra storia e che – nonostante i turbini più violenti e spietati del nostro percorso – abbiamo preferito la nostra marcia, pianeggiante o in salita che sia, all’illusorio sollievo di un volo spiccato dai bordi spigolosi di una roccia.

Nel corso delle scalate, talvolta stremanti e altre volte pianeggianti e ristoratrici, s’incontrano persone assortite.

Alcune ci sfiorano solo le spalle; alcune altre entrano nella nostra esistenza soltanto con la punta di un piede riuscendo, nonostante la brevità della loro presenza, a portare dietro sè bruttura e distruzione; altre ancora prendono una sedia confortevole e vi si siedono a cavalcioni, accomodandosi nella nostra vita con quella disinvoltura di chi si trova splendidamente a casa.

Ci sono persone, poi, che invece appaiono nella tua vita apparentemente dal nulla oppure come frutto di deliziosi e casuali (forse) incroci di coincidenze, portando dietro sè una scia di bellezza come tante collane di petali di gigli.

Questo è proprio ciò che è successo con lei. Dea.

Chiudo gli occhi e rivedo e rivivo tutto perfettamente.

Era primavera. La mia vita, sebbene ancora in cocci, stava lentamente lottando per ritrovare una parvenza di serenità.

Era il 2011. Era una mattina che profumava di sole, di risvegli, di battiti al petto, di un caffè bevuto di corsa, di foulard leggeri che si lasciano accarezza volentieri dal vento.

Ero sola su un treno che da Torino Porta Nuova mi avrebbe portata, stazione per stazione, a Piacenza dove lentamente sarebbe rinato il mio cuore. Solo che ancora non lo sapevo.

In quella mattina di sole, seduta in uno scomparto qualunque di un regionale veloce pronto a lasciarsi alle spalle Piazza Carlo Felice e Corso Vittorio Emanuele, ho ricevuto il regalo di un’amicizia con un cuore artistico.Dea

Il suo viso brillante, forse inconsapevolmente, m’incoraggiò a scambiare due parole con lei.

Quel suo viso raggiante incorniciato da una cascata di bellissimi capelli biondi era così bello da farmi pensare, forse scioccamente, che questa ragazza probabilmente fosse una modella in viaggio.

Non ricordo quasi nulla di quella conversazione. Ricordo solo che scesi io per prima, ma non prima di esserci scambiate un contatto.

Sapevo che Dea abitava a Torino e lì lavorava come psicologa.

Ma sapevo anche che lei era un’artista, una poetessa del colore.

Nella mia vita, spesso senza volerlo, mi sono accorta di galleggiare frequentemente nelle orbite degli artisti.
Forse, come sostiene il mio amico Salvatore, è perchè c’è affinità di spirito e perchè ci accomuna una sensibilità al sentito che inevitabilmente si ritrova spesso nel bello, nell’aggraziato.

Le conversazioni che capita di avere in treno, in aereo, in qualche sala d’attesa sono curiose perchè possono essere comprensibilmente superficiali oppure inaspettatamente profonde tanto da lasciare un’impronta, qualunque essa sia.

La superficialità è, come già menzionato, comprensibile: d’altra parte ci si trova in un luogo non-luogo dove non si può far altro che aspettare. E allora, giacchè si aspetta, perchè non aspettare leggendo – più o meno pigramente – un libro oppure scambiando due parole con chi si trova a dover aspettare come noi?

La profondità in una conversazione con estranei, sebbene inaspettata, è altresì comprensibile perchè senza accorgercene pensiamo al fatto che tanto non rivedremo più quella persona e quindi cadono a terra le maschere e le commedie vanno fuori scena.

Non ricordo su cosa fosse quella conversazione con Dea, su quel treno per Piacenza in quella mattina di sole primaverile. Solo qualche sprazzo qua e là: vita a Torino, Giappone, argomento lavoro, dipingere, viaggiare.

A poca distanza, credo, dal nostro incontro su quel treno, andai a trovare Dea nella sua casa qui a Torino. Mi aveva invitata a cena e io, con molta emozione e una certa dose di timidezza, accettai.

Ma quella fu la prima e l’ultima volta.

Fino a gennaio del 2014 quando, con la magia delle cose che sembrano avvenire per caso ma che in realtà seguono una traiettoria specifica, Dea mi chiamò.

Venni a sapere che aveva uno studio a poca distanza, in linea d’aria, da casa mia.

Scegliemmo un giorno e l’andai a trovare.

Bella Dea. Bella, con quel suo viso sempre radioso e con quegli occhi che incoraggiano.

In compagnia di un buon caffè, di una fetta di pandoro meravigliosamente soffice e dolce, il profumo della sua arte, dei suoi colori, dei suoi pennelli e della sua creatività è rifiorita la nostra amicizia.

In un mattino soleggiato, in uno studio d’artista, a Torino.

In lei ho trovato le definizioni di umiltà, di delicatezza, di talento, di grazia, di generosità e bell’anima.

È bastato molto poco, da quella mattina di sole impreziosita dal suo sorriso, da un buon caffè e pandoro nel suo studio, per capire che Dea sarebbe diventata un’amica preziosa e una persona importante nella mia vita.

Importante perchè, come abbiamo avuto modo di constatare insieme, in qualche modo riusciamo ad arricchirci vicendevolmente. In sua compagnia, il tempo scivola via come la sabbia quando si cerca d’imprigionarla in un pugno.

Fra lei e me, oltre a questa bella e solare amicizia, è nata la voglia di collaborare in progetti vari e da cui – ne sono certa – trarremo tanta forza e voglia di fare!

Uno di questi progetti nasce dalla mia volontà di dare spazio qui su Biancorosso Giappone e su Dadakko-ya ad alcune sue opere ispirate al Giappone.

Prima di lasciare la parola colorata e delicatamente dolce alle sue pennellate nipponiche, ecco qui il suo sito: www.deabelusco.it

Le opere sono naturalmente originali e ognuna è un pezzo unico.

I disegni misurano 40cm x 50cm e costano 60 euro l’uno.

La sua collezione, chiamata Kokke, dedicata alle bambole こけしkokeshi:

Kokeshi verde

Kokeshi verde

Kokke2

Kokeshi con ombrello

Kokeshi con momiji fuchsia

Kokeshi con momiji fuchsia

Alcuni disegni sempre ispirati alle maiko, al kabuki, all’arte tradizionale del Giappone. Lasciate che queste pennellate così cariche d’amore vi accarezzino gli occhi.

Jais1

 

Jais5

 

 

Per maggiori informazioni sui disegni di Dea Belusco, contattatemi direttamente all’indirizzo biancorossogiappone@yahoo.it

Per finire, una scultura che è deliziosamente Dea:

Questo cavallo è alto 40cm e il prezzo è di 500 euro.

www.deabelusco.it

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