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Banzai. Guida al Giappone e alle sue guerriere

Ero nella mia amata galleria ottocentesca Umberto I a Torino a sorseggiare un matcha latte 抹茶ラテ preparato sorprendentemente ad arte da Avocuddle. Come avevo già fatto migliaia di volte nella mia vita, anche quel giorno i miei occhi si beavano dell’eleganza di quella galleria progettata nel puro stile dei passage parigini.
Ed ecco arrivarmi un inaspettato messaggio che sapeva di Giappone e di guerriere.

Un giapponesissimo matcha latte…nel cuore di Torino!

A scrivermi il messaggio è stata Elisabetta Percivati, in arte Epi, una giovane illustratrice torinese con il talento per il disegno e il racconto. E una passione travolgente per i viaggi.
Tre ingredienti che Epi è riuscita abilmente ad intrecciare fra di loro dando vita ad uno stile narrativo distintivo e riconoscibile.
Devo ammettere che non conoscevo Epi e nemmeno il suo lavoro. Eppure in pochi istanti ho colto la preziosità del suo messaggio.

Dall’Islanda al Giappone

Infatti, Epi inizia a filare il filo della sua magica narrativa visivo-emotiva con Takk. Perdersi in Islanda, un tributo d’amore a una terra dove l’autrice si ritrova per motivi di studio e di cui finisce per innamorarsi. Uno scrigno di ricordi, sensazioni, esperienze e insegnamenti che Epi sapientemente crea con le sue illustrazioni e i suoi racconti.

Ecco come Becco Giallo, il suo editore, presenta Takk. Con queste parole:

Un viaggio in Islanda, un reportage sulla storia e sulla cultura islandese dove convivono antichi elfi e moderni lupi.

Una giovane fumettista italiana finisce per errore in Islanda, e se ne innamora perdutamente. Seguono quattordici anni di vita e ricordi minuziosamente raccolti in questo libro, che parla a tutto tondo di una nazione dagli occhi di ghiaccio e dal cuore di lava.

Uno degli ultimi paradisi perduti, ammirato dal resto del mondo eppure non privo di scheletri sepolti
nell’armadio, di notizie occultate, corruzione e inchieste ambientali internazionali.”

La filatura dell’ammaliante tessuto narrativo prosegue con l’opera per cui Epi mi ha scritto. Un salto geografico che va dall’Islanda al Giappone per giungere al suo incantevole Banzai. Guida al Giappone e alle sue guerriere.

Banzai. Guida al Giappone e alle sue guerriere

Lo splendido viaggio cartaceo di Epi nel Sol Levante

Con questo generoso volume, Epi ci prende delicatamente per mano e ci accompagna nell’esplorazione di questo suo diario di viaggio. Un resoconto appassionato di un suo viaggio in Giappone che però diventa viaggio per chiunque apra la prima pagina.

Un viaggio…di carta!

Devo confessare di non essere un’esperta del fumetto. Da bambina, come penso tanti della mia generazione, ho amato i fumetti della Disney, le avventure di Braccio di Ferro come anche le storie di Cucciolo, Beppe e Tiramolla di Rebuffi. Da adolescente non avrei voltato le spalle a questi classici senza tempo ma avrei allargato i miei orizzonti scoprendo il fascino irresistibile dell’investigatore dell’incubo di Tiziano Sclavi: Dylan Dog.
A quest’ultimo assocerò per sempre il ricordo di una piccolissima e stracolma libreria dell’usato, nel mio quartiere di periferia a Torino, dove compravo i fumetti di seconda mano del tenebroso detective a duemila lire. Una libreria, ormai scomparsa e inghiottita dal tempo, dove i libri avevano piano piano reclamato ogni cm di spazio, un po’ come rigogliosi rovi reclamano un vecchio edificio.

Nei miei anni in America, poi, avrei proseguito nella mia modesta scoperta del fumetto attraverso le nostalgiche storie di Archie, un personaggio a cui sono affezionata ancora adesso.

In Giappone, invece, mi sarei ritrovata circondata da un’infinità di possibilità fumettistiche. Non solo: avrei scoperto quanto più ampio e più variegato fosse (e sia tutt’ora) il pubblico amante di questo genere artistico-narrativo che invece da noi è comunemente associato all’infanzia e all’adolescenza.
Nonostante tutto, avrei sempre mantenuto un distacco dato forse da una sorta di soggezione. Chissà.
Però nei miei lunghi pomeriggi nipponici, specialmente quelli nel mio accogliente e profumato studio al piano di sopra, mi sarei persa nelle avventure senza tempo di Doraemon, Yotsuba-to, Sazae-san e Kobo-chan.

Ma il diario di Epi non si sarebbe rivelato un semplice fumetto qualunque: avrei scoperto in esso ben di più.

Il viaggio di Epi e le sue guerriere

Il programma. Foto volutamente un po’ sfocata perché questo è un viaggio soprattutto dell’anima.

Nello sfogliare curiosamente prima e nel leggere attentamente poi il diario di Epi, ecco accompagnarmi una sensazione: quella del viaggio come esperienza fisica e spirituale. Non una mera avventura vissuta tramite un racconto di altri quindi con frapposta la naturale distanza tra narratore e lettore. Qui si percepisce, invece, l’emozione elettrizzante della scoperta e riscoperta.
Per me, poi, che col Giappone mantengo un legame vivo e sentitissimo, viaggiare con Epi è stato come tornare a casa.

Una pagina d’assaggio

Dalla partenza all’arrivo e poi dall’inizio di tutto all’adesso. E tutto ciò che vi è nel mezzo.

Il viaggio di Epi, e di conseguenza il viaggio di chi legge, segue un preciso tema nonché percorso: le storie di donne giapponesi lontane e vicine che sono riuscite a lasciare un’impronta e un messaggio forte in un Paese tradizionalmente maschilista.

Un filo rosa

Un altro assaggio

Un filo rosa, dunque, tiene uniti i momenti di questo patchwork esplorativo quasi magico alla scoperta di donne coraggiose, intraprendenti, anticonformiste e forse semplicemente depositarie di intriganti intuizioni.
L’esplorazione assieme a Epi è a volte così accurata e realistica da commuovere. Come ad esempio quando ci si trova nei dintorni dell’immensa e trafficatissima stazione ferroviaria di Shinjuku oppure accomodati in un kaiten-zushi. L’accuratezza delle illustrazioni restituisce al lettore un’emozionante sensazione di essere proprio lì. Si sentono i rumori del traffico cittadino, i segnali acustici dei semafori, i concitati richiami registrati dei negozi verso i clienti, gli irasshaimase gridati con vigore. Si percepisce il profumo del pesce fresco mescolato a quello del sencha bollente; la fragranza dolciastra delle caldarroste e dei taiyaki.

Viaggio dell’anima attraverso un sentiero di carta

Epi porta a conoscenza dei suoi lettori nomi delle guerriere che spesso sono sconosciuti a tanti italiani. Ci parla della straordinaria cantante Misora Hibari, della designer Mari Murata, dell’acclamata attrice Sadayakko (a tal proposito vi rimando anche alla biografia che Lesley Downer le dedicò: Madame Sadayakko: The Geisha Who Bewitched the West), della donna samurai Tomoe Gozen e tante altre donne del Giappone antico, moderno e contemporaneo che in qualche modo hanno cambiato il corso della storia.

Un percorso originale, carico di emozioni e da cui traspaiono l’intensa passione che ha animato questo progetto.

Un messaggio di fiducia

Un messaggio di fiducia

Ho accompagnato Epi e ho viaggiato assieme a lei attraverso questa navicella di carta che tutti accoglie e nessuno esclude. In essa ho rintracciato un modo con cui attingere dal coraggio e dalla determinazione di chi ci ha ci preceduto, distante o vicino che sia sulla linea del tempo. Poco importa. E nell’epoca di stravolgimenti e capovolgimenti che stiamo vivendo, qualunque tributo al coraggio è ben accetto.

Tempura Stories: fragranti contemplazioni

Una tenpura ideale.
Immagine di いらすとや

C’è profumo di tempura (o tenpura, per usare la forma traslitterata corretta) nella cucina virtuale di Biancorosso Giappone!


Uno dei libri prediletti della mia libreria giapponese è un prezioso volumetto acquistato qualche anno fa da Tanabata, dedicato alla cultura alimentare nel periodo Edo.
Sono un’appassionata di storia giapponese dell’epoca Edo che durò circa due secoli e mezzo (1603-1868). Caratteristica principale di quell’epoca fu il controllo della potente famiglia Tokugawa su tutto il territorio, tramite l’instaurazione dello shogunato (bakufu 幕府).
Il periodo Edo – o Edo-jidai 江戸時代 in giapponese – è un’epoca che affascina gli storici e gli appassionati di cultura nipponica per le sue peculiarità. Fu, ad esempio, l’epoca della politica di isolamento quasi totale (nota come sakoku 鎖国 ) iniziata a metà del Seicento e terminata nel 1853 con le famigerate navi nere o kurofune 黒船 del Commodoro Perry. Fu l’arrivo di quelle temute navi da guerra statunitensi a sancire di fatto la fine non solo del Giappone feudale ma del Vecchio Giappone. Per sempre.
I due secoli e mezzo di isolamento favorirono la riscoperta e la valorizzazione di saperi indigeni, delle arti e della letteratura. Fiorì l’editoria e la letteratura conobbe una popolarizzazione effervescente e davvero piena di vitalità.

La tavola del periodo Edo

Uno dei miei libri preferiti: 江戸の食卓 Edo no shokutaku. La tavola del periodo Edo.

Un libro di poco più di duecento pagine in cui sono conservate affascinanti notizie di quell’epoca lontana eppure ancora presente. Curiosità e peculiarità delle abitudini alimentari del tempo che riescono a darci strumenti con cui degustare prospetticamente anche la tavola giapponese di adesso.

Nel libro sono contenuti, ad esempio, sfiziosi racconti sulla nascita e l’evoluzione del sushi. Vi sono affascinanti aneddoti che illustrano il rapporto che la cucina giapponese ha con le uova e con la carne di pollo. Ritroviamo appassionati ritratti dedicati al tofu, al miso e alla soba. E inframezzati qua e là, ecco qualche ricetta raccontata con la leggerezza di un’amica che ti spiega il procedimento migliore per realizzare questo o quel manicaretto.
E in mezzo a tutto questo, non mancano i numerosi episodi che ci raccontano di imperatori buongustai e ingordi samurai.

Uno shogun goloso

Tokugawa Ieyasu, fondatore nonché primo shogun dello shogunato Tokugawa.

Il libro ci racconta, tra le tante cose, un fatto che sembra però essere sospeso in quello strano mondo tra una realtà distante nel tempo e la leggenda. Insomma, non si sa con certezza se siano andate davvero così le cose.

Comunque sia, secondo questa storia, l’illustre primo shogun Tokugawa Ieyasu pare fosse un golosone con un debole per la tempura.

Bisogna precisare che in Giappone, a differenza di quanto avveniva nella vicina Cina, la frittura non era una tecnica di cottura conosciuta. Storicamente sappiamo che essa fu introdotta dalle numerose delegazioni di missionari gesuiti portoghesi che approdarono in Giappone tra il quindicesimo e la prima metà del sedicesimo secolo.

Croccanti etimologie


Fu comunque in quel periodo, secondo alcune teorie, che il termine tempura entrò nella lingua giapponese. Alcuni sostengono derivi dal portoghese tempero che significa condimento. Altri rintracciano una sorta di legame esoterico con la parola templo.
Una delle teorie più diffuse, tuttavia, vuole che il termine tempura derivi dai giorni delle Tempora, periodo che per i cattolici rappresenterebbe un momento di santificazione del tempo nelle quattro stagioni accompagnato da raccoglimento, preghiera, astinenza dalle carni. Sarebbero stati proprio i giapponesi, molto probabilmente incuriositi da quegli strani costumi, a domandare cosa fossero quei piatti di pesce e verdure fritti che i religiosi consumavano in questo periodo liturgicamente impegnativo. E chissà, forse nei goffi tentativi di comunicazione, il nome della ricorrenza venne frainteso come il nome del piatto.

Un’appetitosa scodella di ebi-tendon: una saporita tempura adagiata su una generosa scodella di riso bianco al vapore.


Tokugawa Ieyasu fondò il suo shogunato nel 1603 e quindi in un periodo quando ormai questa tecnica di cottura era già ampiamente nota da tempo. A quell’epoca, infatti, era diffusissima la cultura degli yatai 屋台 ossia delle bancarelle ambulanti di cibi vari. I giapponesi del tempo erano già grandi estimatori dello street food! E indovinate qual era uno dei cibi più gettonati per le strade di Edo?

La tempura!

Insomma, secondo quella storiella di cui non conosciamo il grado di attendibilità, il nostro shogun era così goloso di tempura da mangiarne a tal punto fino…a morire!

Già. Sembra proprio che la golosità per questo piatto lo abbia addirittura condotto alla fine dei suoi giorni.

Tempura di Akiko-san

Chi segue Biancorosso Giappone da anni ricorderà le ricette con la mia cara amica Akiko. Imparai da lei a preparare una buona tempura anche se, come mi disse, non è certo un piatto che si prepari comunemente nelle cucine domestiche. In effetti, aveva ragione. La tempura infatti, per quanto si possa stare attenti, garantirà fornelli e schizzi d’olio un po’ ovunque. Inoltre, è un piatto semplice solo in apparenza ma che richiede velocità e tempi ben calibrati in ogni fase della preparazione.
Insomma, è una di quelle preparazioni in cui – come le descrive molto prosaicamente mia mamma – uno cucina e gli altri mangiano.

La tempura preparata con Akiko nella mia cucina di Sagamihara.

La nostra fu una tempura classicissima e composta, cioè, dagli ingredienti prediletti per questo piatto: gamberi, zucca, melanzane, funghi e foglie di shiso.
Ovviamente, niente carne! Altrimenti che tempura sarebbe!

Se desiderate fare un tuffo indietro nel tempo e rileggere il mio racconto di allora, assieme alla ricetta di Akiko, ecco QUI.

Che nostalgia. Ricordo come fosse ieri il giorno in cui preparammo insieme questo profumato piatto!

Per l’occasione acquistai addirittura la carta da tempura che si trova comunemente al supermercato (in Giappone, naturalmente!) e serve ad assorbire l’olio in eccesso con garbo ed eleganza. Evitano, così, gli inestetismi della frittura servita su carta da cucina tipo Scottex.

Ecco i fogli di carta apposita per servire la tempura. Si chiamano 天ぷらの敷紙 tenpura no shikigami.

Un samurai imprenditore

Il glorioso tenpura-teishoku che mangiavo da Seigetsu, la locanda a pochi metri da casa, sulla Zama Kamijuku.

Torniamo agli aneddoti del libro.

Quelle spassose pagine propongono una teoria che a me era completamente nuova e che spiegherebbe la vera origine del termine tempura – o tenpura se vogliamo seguire la traslitterazione corretta.

Pare che un tale Risuke – il quale era, a dirla tutta, un ronin 浪人 ossia un guerriero samurai rimasto senza padrone, lasciò Osaka alla volta di Edo nella speranza di trovare lavoro. Giunto nella capitale, Risuke decise di intraprendere un’attività commerciale. Ispirato dal ricordo delle apprezzate bancarelle di pesce fritto di Osaka (chiamato goma-age ごま揚げ perché l’impanatura conteneva anche fragranti semi di sesamo), il nostro ronin imprenditore decise di giocarsi questa carta gastronomica nella grande Edo.

Ma…c’era un ma.

Lustri letterari



L’idea di chiamare la sua frittura “frittura di pesce e sesamo” non lo entusiasmava affatto. C’era bisogno di un nome più accattivante e che attraesse gli esigenti palati degli edokko.

Decise (saggiamente, aggiungo) di rivolgersi a un vero maestro della parola del tempo: nient’altri che all’acclamatissimo Santō Kyōden, famoso poeta e scrittore che visse a Edo tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo. La geniale penna (anzi, dovrei dire pennello) di Santō Kyōden seppe immortalare con arguzia e ironia la vita quotidiana del tempo, districandosi tra le vicissitudini di mercanti e riportando storie ambientate nel quartiere di piacere di Yoshiwara e per i quali fu colpito dalla severa censura del tempo.

Il brillante Santō Kyōden interpellato dal ronin aspirante imprenditore. Immagine di Hannah.

Il nostro Santō Kyōden non tardò a trovare una soluzione. Guardò con attenzione Risuke dopodiché gli disse che dopotutto era un 天竺浪人 tenjiku-ronin ossia un ronin viandante e che vagava per le strade di Edo senza una meta. Questo vagare senza una destinazione precisa in giapponese si chiama furari ふらり.
E come tanti giapponesi, anche l’astuto Santō Kyōden amava divertirsi con le parole creando giocosi portmanteau.

Ecco che gli propose di prendere il ten di tenjiku-ronin e di unirlo a fura di furari:

ten+fura = che produce, secondo un fenomeno fonetico comune in giapponese quando si uniscono certi suoni, la parola: TENPURA!

Quindi la tempura sarebbe il piatto del ronin vagante!

Un samurai-san. Forse Risuke? Immagine di いらすとや

Chicca linguistica

Chi studia il giapponese conoscerà sicuramente il curioso fenomeno degli ateji cioè dei caratteri che vengono assegnati in maniera arbitraria con l’intento di creare un’etimologia fantasiosa, e immaginaria.

Ebbene, secondo questa storia, lo scrittore diede un’ulteriore pennellata di creatività al nome della neonata attività del ronin viandante scegliendo gli ateji sia per FU sia per RA:

Per FU scelse che è il glutine di grano quindi in riferimento alla farina utilizzata per la pastella;
per RA scelse, invece, che indica un tessuto leggerissimo ossia un chiaro paragone al leggerissimo velo di frittura che avvolge gli ingredienti.

Infine, ci sarebbe ancora un’affascinante chiave di lettura dei kanji scelti: il 天 ten di tenpura non indica solo la natura vagabonda del ronin ma anche (e soprattutto, direi) il cielo! Infatti, una tempura ben riuscita dovrà risultare fragrante, gradevole e leggera come un cielo terso!

Santō Kyōden scrisse egli stesso i caratteri sull’insegna della nuova attività di Risuke:

天麩羅

Nel giapponese contemporaneo, tuttavia, la parola tempura ha mantenuto solo il ten del cielo e del ronin viandante mentre il resto della parola viene scritto con i caratteri fonetici dello hiragana.

Una locanda di tempura! Immagine di いらすとや

La magia di Kawakami Hiromi

Kawakami Hiromi. Foto di proprietà di The Reading Life.

Ci sono parole ed eventi che, chissà perché, restano impressi indelebilmente nei ricordi. E’ successo, ad esempio, con una riflessione di Michael Emmerich, straordinario traduttore e professore di letteratura giapponese presso il dipartimento di Asian Studies della prestigiosa UCLA. In uno dei suoi volumi, principalmente rivolti a studiosi di lingua e letteratura giapponese, Emmerich paragonò un racconto di Kawakami Hiromi a un dolce. Una ricca torta al cioccolato, se non ricordo male.

Una sequenza di racconti che il professore equiparò a un abbondante banchetto la cui degustazione avviene al contrario cioè partendo da un sontuoso dolce. E quindi dal mondo incantato di Kawakami Hiromi.

Dolce accoglienza a settembre

Fichi maturati sotto i raggi di un sole di fine estate. La parola sulla foto è il nome giapponese del frutto ossia ichijiku.

Avevo iniziato a scrivere questo articolo il primo di settembre ma poi è rimasto in quel cantiere dove ultimamente sempre più cose tendono a stazionare. Voglio lo stesso dare il benvenuto a questo mese perché è l’aggraziata volta d’ingresso verso l’autunno. E il mio benvenuto avviene così, con uno scatto a questi dolcissimi fichi delle colline piemontesi.

Ed è la dolcezza di questo nobile frutto che si presta da gancio naturale all’amabile candore della penna di Kawakami.

Perché è proprio a questa scrittrice che oggi dedico queste mie parole. In questo inizio di settembre di quest’altro anno così turbolento ecco che mi ritaglio un momento di vitale spensieratezza e ricerca di uno spazio di pace. E cascate copiose di bellezza. Salvifica bellezza ovunque, tra le pennellate di artisti di strada e dal cuore libero oppure tra le pagine della più bella letteratura di sempre.

Kamisama

La mia amata copia di Kamisama di Kawakami Hiromi.

Sarà stata l’autorevolezza di Emmerich che traspare dai suoi appassionati ma severi scritti a mettermi un po’ in soggezione. O forse era solo la mia immaginazione. Sia come sia, complici queste impressioni e quelle riflessioni pasticcere del professore, per diverso tempo ho creduto di non essere pronta per avvicinarmi alla scrittura di Kawakami.
Immaginavo la sua penna immersa in uno sfuggente microcosmo fatto d’introspezione, di drammi esistenziali e qualche scintilla di mistero.
Credo ci sia un tempo per ogni cosa ed evidentemente il mio tempo per Kawakami è ora.

Kamisama 神様 è il titolo del primo racconto di questa scrittrice, pubblicato nel 1994. Ma è anche il titolo di una raccolta di brevi racconti (v. foto).
Kamisama significa Dio. La parola viene usata anche per indicare in senso generale le divinità, soprattutto quelle del pantheon shintoista.

Sfogliando Kamisama…qui uno stupendo racconto dedicato ai Kappa. Vi parlai qui di queste creature mitologiche.

Non sapevo bene cosa aspettarmi. Avevo questo distante ricordo delle parole di Emmerich il quale, è bene precisarlo, ha tradotto in inglese moltissimo di questa scrittrice diventando a mio avviso un esperto del suo stile e del suo messaggio.

Ho iniziato dalla prima storia ovvero da Kamisama, appunto.

Ed è stato come entrare in punta di piedi in un giardino fatato, un po’ come quelli che inaspettatamente punteggiano segretamente Torino. Oppure come il giardino segreto di Frances Hodgson Burnett.

Basta leggere la prima frase del celebre racconto per trovarsi catapultato istantaneamente in un mondo impregnato di quel magico realismo che contraddistingue la penna di Kawakami.

Incontri inaspettati

La prima straordinaria pagina di questo indimenticabile racconto

くまにさそわれて散歩に出る。
(Kuma ni sasowarete sanpo ni deru).

L’orso mi invitò a fare una passeggiata.

Inizia così questo incredibile racconto che profuma di realtà e di sogno. Un piccolo e prezioso ritratto in cui le pennellate di parole donano al lettore una scena di aliena familiarità, bizzarro tepore, confortante stravaganza ed innocente bislaccheria.

D’altra parte, raccontare una storia è fare un regalo.

E questa è la storia di una neonata amicizia tra il narratore – un essere umano – e il suo nuovo vicino di casa, un orso. Questa curiosa amicizia muove i primi passi dalla primissima riga quando appunto veniamo a conoscenza di questo invito, da parte dell’orso, a fare una passeggiata. Una passeggiata con annesso un intrigante picnic, sulle rive di un fiume. Per l’orso, una pagnotta alla francese tagliuzzata un po’ qui e un po’ lì e farcita di patè e ravanello. Per il narratore, un confortante omusubi (altresì noto come onigiri) con umeboshi.

Kawakami sembra prendere per mano il lettore e condurlo in questo suo personalissimo giardino segreto per raccontargli di un orso, curiosamente attento al galateo, che si trova a vivere tra gli umani e che si impegna dunque per iniziare nel migliore dei modi il suo rapporto con loro.

Nel leggere questa strana storia sono passata attraverso curiosità e gioia per poi ritrovarmi delicatamente in uno sbalordimento malinconico miscelato ad una punta di terrore. Un ventaglio di sensazioni inaspettato.

Anche se il racconto è scritto, sembra quasi di venir cullati da un dolce yomikikase ovvero le letture ad alta voce generalmente destinate ai bambini. Magari con l’incanto degli Yin Yin in sottofondo.

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The Rabbit That Hunts Tigers

In un pigro pomeriggio qualunque, ecco srotolarsi davanti ai nostri occhi un’amicizia straordinaria che riesce addirittura ad oltrepassare la barriera di confine tra il regno umano e quello degli animali selvatici. Un orso che si avvicina all’uomo cercando di rispettarne le regole ma al tempo stesso preservando la sua orsitudine. Innegabile e inoccultabile.

Ho immaginato l’uomo e l’animale i quali, giunti al cospetto della grande vetrata che separa i loro regni, si ritrovano intenti ad osservarsi vicendevolmente con coinvolgimento, diffidenza ma anche speranza. E ho immaginato anche il punto di quasi contatto tra mano e zampa in cui la barriera si assottiglia fino a sparire del tutto. Anche se solo per pochi istanti, anche se solo per un unico e spensierato pomeriggio.

Purtroppo sia Kamisama il racconto sia il resto delle storie contenute nel volume non sono ancora stati tradotti ufficialmente in italiano. Per chi legge l’inglese, tuttavia, ci sono buone notizie: in seguito al disastro nucleare del 2011 di Fukushima, l’autrice riscrisse il racconto Kamisama apportando alcune modifiche che lo rendessero rilevante alla luce dei tragici fatti appena avvenuti. Lo trovate qui.

Kamisama

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