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Incenso Hibi e fragranti riverberi

Inforco gli occhiali della reminiscenza e vedo immagini di fragranti riverberi che si sovrappongono. Vedo, infatti, gli ultimi bagliori di quella mia breve e personalissima estate in compagnia di Aki e Toretto.

L’ultima.

Ritornano i ricordi di quel caduco momento con la prepotenza distintiva della malinconia che, in certi momenti, ti afferra per la gola e ti costringe a un pianto faticoso.

Era la sera del 24 ottobre quando, all’improvviso, è morto il gatto.

Non era il mio gatto ma è come se lo fosse stato. Il dolore che ho provato – e che provo tuttora – è tagliente e curiosamente infingardo: quando sembra affievolirsi ecco che ritorna con più spietatezza di prima.

La vita prosegue e dunque si va avanti. Si perdono persone, animali e cose. È inevitabile.

Mi torna in mente la fiaba di Pollicino che mi raccontava mia nonna la sera, nella sua casa di allora, sulla collina torinese. Ripenso alle briciole di pane che quel bambino lasciava dietro sé nel bosco che poi venivano mangiate dagli uccelli. E in quelle briciole mi sembra di rivedere tutte le persone, gli animali e le cose che ho perso nella mia vita.

Non posso tornare indietro e – anche se potessi – non le ritroverei più.

I don’t know a soul who’s not been battered – cantava il magnifico Paul Simon nella sua commovente American Tune che sento intimamente mia.

E allora queste persone, questi animali e queste cose continueranno ad esserci nel ricordo, nella mia rimembranza leopardiana in cui il dolore si stempera in una stilla di nostalgia.

Hibi

Settembre, ottobre e novembre sono scivolati via, un giorno fugace dopo l’altro. Una quotidianità scandita dai miei impegni di lavoro e di studio i cui ritmi sembrano quasi aver compresso il tempo.

Non so dove siano finiti quei giorni. In quale angolo sono raggomitolate le ore? Su quale tetto si saranno posati i minuti? Forse c’è un cassetto dove sono riposti ritagli di tempo passato, assieme a spolette di filo colorato e forbicine?

Desideravo scrivere del gatto nel tentativo – forse un po’ goffo – di vederlo e poter fantasticare di giocarci ancora. Ma le parole non mi venivano e ancora non riescono a trovare la strada per emergere dai miei abissi.

Le lacrime trovano la strada senza difficoltà ma le parole no. Forse restano imbrigliate nelle sapide scie di quelle lacrime che scorrono con facilità.

E una sera di novembre è arrivato il regalo di Daniela.

Daniela, cara amica che ha seguito con entusiasmo il mio corso di giapponese, mi ha voluto ringraziare così:

Incenso Hibi

Una preziosissima scatolina di incenso Hibi. Si tratta di un prodotto molto speciale: il frutto dell’unione tra apertura e tradizione.
Non è infatti un incenso come ce lo si aspetterebbe (ripenso ai miei Profumi di Edo).

Sono fiammiferi d’incenso.

Fiammiferi d’incenso

Questi incensi provengono dalla Prefettura di Hyōgo, nel Kansai, nel Giappone occidentale. I fiammiferi furono introdotti in Giappone all’inizio dell’epoca Meiji e fu proprio a Hyōgo, specialmente ad Harima, che la loro produzione trovò la massima espressione qualitativa. Le manifatture di fiammiferi di questa zona divennero infatti i maggiori produttori ed esportatori grazie anche alla vicinanza con la città portuale di Kobe.

Ma dov’è il nesso tra incenso e fiammiferi, oltre al fatto di avere bisogno della combustione per poter vivere?

Sempre nella Prefettura di Hyōgo c’è l’isola di Awaji, conosciuta per essere il luogo di nascita dell’incenso giapponese.

E così alcuni anni fa, dalla sensibilità giapponese che mira sempre a suggellare passato e presente con legami nuovi, è nata l’idea di coniugare queste due industrie tradizionali del territorio.

È nato in questo modo l’incenso Hibi.

Il suo nome significa ogni giorno, giorno dopo giorno. Il suo logo – che ricorda una finestra da cui forse entrano i raggi di un timido sole invernale – in realtà è la parola stessa scritta in kanji: 日日 ひび.

Dieci minuti con Hibi

Daniela mi ha mandato una scatolina di Hibi alla fragranza elegante ed evocativa del legno di sandalo.

Ogni fiammifero arde per circa dieci minuti regalando così una breve momento di fragrante contemplazione.

Hibi

La confezione, in cartoncino delicatamente ruvido, è divisa in due parti: la prima scatolina contenente di fiammiferi d’incenso e la seconda che all’interno custodisce un tappetino ignifugo su cui si dovrà poggiare l’incenso mentre brucia.

Incenso Hibi: fragranti fiammiferi che rappresentano passato e presente.

La scatolina contiene anche le semplici istruzioni in giapponese e inglese per poter accedere a questo momento profumato.

Anche il foglietto delle istruzioni è impregnato della fragranza preziosa del sandalo.

Con delicatezza, è sufficiente sfregare il fiammifero sull’apposita striscia collocata su un lato della scatolina per poter dare avvio alla magia.

Dieci minuti di fragranza

Ho realizzato un breve video per condividere con voi parte dell’emozione provata nell’accedere nel microcosmo profumato di Hibi:

Fili di fumo profumati che si librano in aria…
Per il primo brano suonato allo shamisen ringrazio Itō Keisuke 伊藤ケイスケ;
Per il secondo brano invece ringrazio MFP

Attraverso i nastri di fumo d’incenso anche le parole prigioniere trovano comunque una strada.

Dalla mia biblioteca giapponese

La mia piccola biblioteca giapponese personale sta lentamente crescendo. Ne ho parlato tanto in questi anni perché è frutto di una volontà di ricostruire, di ritrovare, di rimettere in piedi. La mia è una collezione di libri in giapponese che rinasce dalle ceneri della mia prima collezione, andata perduta in circostanze strazianti.

Ed è da quel dolore che è rinata questa biblioteca a cui vorrei dare un nome. Ci sto pensando.

Si sono aggiunti alcuni volumi ultimamente.

Alla già nutrita sezione Cucina si sono uniti questi due deliziosi ricettari:

Le ultime due aggiunte alla sezione Cucina della mia biblioteca giapponese

Sono due libricini deliziosi che ho acquistato da Paola, una ragazza di Guidonia. Le avevano fatto compagnia per un lungo tratto del suo percorso di studio del giapponese ma da essi aveva poi deciso di separarsi. E sono arrivati a me, seguendo la strada del destino.
Il libro in primo piano è un ricettario dedicato agli obentō per bambini, quindi un vero manuale che spiega per filo e per segno come realizzare dei bentō indimenticabili per i più piccoli.
Il secondo volume dietro, invece, è un classico manuale che spiega pazientemente le basi della cucina presentando prevalentemente piatti giapponesi sia washoku sia yōshoku.

Qualche tempo fa, invece, tramite le mie nippo-esplorazioni su Instagram, sono venuta a conoscenza di una preziosa libreria a Lucca che si chiama Etta’s Bookshop. La libreria è specializzata in libri in lingua inglese ma vanta inaspettatamente anche un angolo di libri in giapponese di seconda mano.

La distanza geografica tra Torino e Lucca non ha minimamente minato la mia curiosità. Ho infatti preso subito contatto con proprietaria, Giulia, persona gentile e altamente competente, la quale nel giro di poco tempo mi ha inviato tantissime foto di tutti i titoli giapponesi presenti in negozio.

Non è stato semplice decidere ma alla fine ho scelto quattro titoli.

I quattro libri mi sono arrivati accompagnati dalla graziosissima sporta di tela di Etta’s Bookshop che mi ha regalato Giulia:

Ed ecco i titoli:

I miei libri giapponesi acquistati da Etta’s Bookshop di Lucca.

Questi quattro libri sono opera di tre autrici giapponesi che non conoscevo.
Dall’alto a sinistra in senso orario:
「食べものだけで余命3か月のガンが消えた」(Tabemono dakede yomei sankagetsu no gan ga kieta) di Takato Tomoko. Un libro in cui l’autrice racconta di come, attraverso una forma di alimentazione molto particolare, sia riuscita a guarire dal cancro. È un libro che ha generato molta polemica da quel che leggo, data la natura delicata dell’argomento che tratta.

「暖簾」e 「花のれん」(Noren e Hana-noren) di Yamasaki Toyoko, giornalista d’inchiesta e scrittrice originaria di Ōsaka che spesso si ispirava a fatti realmente accaduti per i suoi libri, raccontando molto della società dell’epoca Shōwa. Ad esempio, per il suo primo romanzo – Noren – del 1957 in cui racconta le vicende della famiglia di un commerciante di alghe, l’autrice si ispirò alla propria famiglia. Nel 1965 pubblicò 「白い巨塔」(Shiroi kyotō) La torre bianca, in cui si narra un’intricata vicenda di avidità, potere e corruzione all’interno di un grande ospedale di Ōsaka. L’opera riscosse enorme successo ma generò anche tanta indignazione nel pubblico.

L’ultimo libro è 「白蓮れんれん」(Byakuren renren) dell’acclamata Hayashi Mariko, scrittrice prolifica che in questo romanzo racconta la storia di Yanagiwara Byakuren, poetessa di epoca Meiji / Taishō, cugina dell’imperatore, che rimane coinvolta in una storia amorosa con un socialista destando scandalo e sdegno nella società del tempo.

Dicembre

Dicembre è ormai qui da poco più di una settimana e anche lui sembra dissolversi alla velocità con cui viaggia il tempo dopo una certa età.
L’aria è fredda. Le decorazioni natalizie e tutta la cornice di contorno ormai sono ovunque. Luci che, osservate dall’oscurità, suscitano un senso transitorio di sorpresa che però presto svanisce.

Primavera d’ottobre

Una personalissima e stramba folata di primavera in questa domenica d’ottobre. Proprio qui, in questa casa a due passi dalle sponde del Po.

La finestra spalancata si affaccia sulla mia via sonnecchiante che è puntualmente avviluppata nella sua consueta coltre domenicale. Gli ombrelloni amaranto della caffetteria di quartiere sono chiusi e sembrano boccioli ancora avvolti nelle brattee, quasi come a voler gelosamente custodire memorie di fugaci convivialità.

Qualche casuale passante percorre questa via addormentata attraversandola a passo lento, addirittura svogliato. È il passo della domenica che incarna l’essenza di un meritato otium spesso, secondo me, striato di malinconia.

I ventidue gradi e qualcosa riportati dal barometro certificano l’illusione di una timida primavera estemporanea. In lontananza, un accenno di un pallido sole si sta dissolvendo nell’azzurro fumoso del cielo mentre, sul corso principale, sferraglia il tram della linea 15 che riporta i torinesi quasi ai piedi della collina dopo la passeggiata di rito in centro.

Tante altre finestre sono aperte, gioiosamente aperte, come ad accogliere questa gentile aria tiepida che forse – chissà – è preludio dei primi freddi. Sia come sia, i davanzali sono ancora abbelliti da fiori colorati che anche in mezzo alla città sanno essere rimando alla natura.

Oh, se solo il sole fosse stato un po’ più sfrontato oggi ci si sarebbe potuti illudere ancor di più di essere ritornati per un attimo in una primavera sbocciata!

Sakura-mochi a ottobre

A suggellare questa strana primavera ottobrale e transeunte, una solitaria merenda frutto di una bizzarra scoperta del tutto inaspettata: i sakura-mochi.

Sakura-mochi
Sakura-mochi

I sakura-mochi comparsi inaspettatamente nel negozio della mia amica Nu (di cui vi ho parlato qui) mi hanno talmente sorpresa da non poter proprio resistere alla tentazione di acquistarli. Sebbene i sakura-mochi, ora, siano completamente fuori tempo massimo come stagione.

I sakura-mochi sono, infatti, dei tradizionali dolci giapponesi gustati in primavera. Sono dolci di riso glutinoso avvolti in una foglia di ciliegio in salamoia.

Nel banco freezer del negozio di Nu, invece, eccoli lì. Ecco i sakura-mochi a ottobre, come a voler riportare un assaggio di primavera in autunno.

Nello specifico, si tratta dei sakura-mochi di 芽吹き屋 Mebuki-ya, un’azienda di prodotti di pasticceria tradizionale giapponese con sede nella città di Hanamaki, nella Prefettura di Iwate.

E ancora di più nello specifico, i sakura-mochi in questione sono preparati nello stile del Kansai.

Piuttosto bislacco, devo ammettere, parlare di sakura-mochi il 16 di ottobre. Ma tant’è.

Due declinazioni dello stesso dolce

Il sakura-mochi è famoso per essere non solo uno dei wagashi primaverili più noti ma anche per la sua doppia versione.

Vi è infatti la versione stile Kansai e quella stile Kantō. Le due aree geografiche si riferiscono rispettivamente alla zona ovest ed est del Giappone con i due poli di rappresentanza: Kyōto e Ōsaka per la parte occidentale e Tōkyō per quella orientale.

Ma i veri punti di riferimento per entrambe le varietà sono due templi specifici: il 道明寺 Dōmyōji di Ōsaka e il 長命寺 Chōmeiji di Tōkyō. I due templi sono i luoghi in cui hanno avuto origine le due versioni del dolce.

Durante i miei anni nel Kanagawa – che è nel Giappone orientale e quindi rientra a pieno titolo nel Kantō – i sakura-mochi per me erano prevalentemente quelli preparati nello stile locale ossia alla maniera del Chōmeiji. Questi sakura-mochi sono composti da una sottile crepe rosa liscia ripiena di pasta di azuki, e il tutto avvolto nella foglia di ciliegio salata.

Nelle scatole di wagashi che ricevevo ogni mese da Ishii-san, tuttavia, trovavo ogni tanto nel periodo primaverile anche i sakura-mochi nello stile del Dōmyōji. Questi, a differenza degli altri, sono composti da una morbida pallina di impasto glutinoso e un po’ colloso, sempre di color rosa, ripiena di marmellata di azuki e poi il tutto avvolto nella consueta foglia di ciliegio in salamoia.

Immaginate, dunque, la frizzante estemporaneità del trovare sakura-mochi in stile Dōmyōji provenienti da Iwate, in una bottega di alimentari asiatici a conduzione vietnamita a Torino, in un giorno d’ottobre.

Impossibile resistere a questo mosaico di suggestioni.

E così, per godere appieno della bizzarria di questa finta primavera accentuata dalla mia immaginazione, una merenda a base di sencha e sakura-mochi.

La mia merenda primaverile di ottobre

Lo sfuggente sapore del sakura

Tutto ciò che ruota attorno al sakura in traduzione spesso fa riferimento al ciliegio. E questo crea l’inganno maggiore per chi non conosce lo sfuggente ma inconfondibile sapore del sakura. Perché qui il frutto non c’entra nulla.

Il gusto dolce della ciliegia, con la sua innocente esuberanza, non ha alcunché a che vedere con il sapore del sakura. Nulla. È una distrazione fuorviante.

Qui si parla del sapore del fiore e della foglia del ciliegio, non del frutto. La protagonista è la 桜葉 sakuraba, la foglia!

La fragranza e il sapore del sakura non sono semplici da descrivere. Tra i pochi aggettivi adeguati sceglierei aromatico, floreale, erboso. Ad accentuarne poi la gradevole nota asprigna contribuisce la complessità palatale data della conservazione in salamoia dei fiori e delle foglie, tecnica che facilita l’utilizzo di queste parti della pianta nelle preparazioni gastronomiche e di pasticceria.

Foglia sì o foglia no? Ma foglia sì!

A rendere ancora più curioso questo primaverile incontro di ottobre con questi wagashi è stato notare la quasi assenza della classica tonalità rosa che normalmente accompagna questi dolci, in entrambe le versioni. Forse perché, dopotutto, sono sakura-mochi di ottobre? Un impasto pressoché bianco candido, quasi come a voler richiamare la fumosità del cielo d’autunno oppure le prime nevi che verranno?

Il contrasto tra l’impasto dolce, morbido, piacevolmente colloso e la sapidità aromatica della foglia di sakura è certamente un’esperienza olfattivo-palatale che sa indiscutibilmente di Giappone. Il Giappone in casa mia, con gli occhi chiusi e con una tazza caldissima sencha in mano.

Morsi autunnali di primavera

Il morbido ripieno di marmellata di azuki di Hokkaidō contrasta armoniosamente con la fragrante sapidità della foglia. Ci sono persone che, nel mangiare i sakura-mochi, eliminano la foglia; io appartengo invece al gruppo di coloro che la considerano parte integrante – anzi, caratterizzante – del dolce stesso.

読書の秋 Dokusho no aki

Di recente ho raccontato qualcosa di un libro che ha iniziato a farmi compagnia da fine agosto e che continua a narrarmi fatti passati, giorno dopo giorno. Trovate qui l’articolo.

Il libro in questione, in corrispondenza della data di oggi, riporta un fatto decisamente poco attinente all’evocazione poetica anche se bizzarra dei sakura-mochi assaporati in autunno.

16 ottobre 1973

La mini commemorazione proposta dal libro rievoca la famigerata crisi energetica del 1973 che comportò un aumento repentino del greggio e dei suoi derivati, con tutte le pesanti conseguenze del caso. In Giappone questa situazione degenerò portando la popolazione al 買いだめ kaidame ossia alla corsa alle scorte alimentari, ma soprattutto alla carta igienica.

Tra le letture d’autunno che mi accompagnano, ecco invece un volume decisamente più in sintonia con il clima semi-primaverile-poetico di oggi:

「漢字の成り立ち図鑑」Kanji no naritachi zukan. Guida illustrata all’evoluzione dei kanji.

Un volumetto piccolo ma ricchissimo di informazioni storiche relative all’evoluzione dei kanji nei secoli. Frutto degli studi della ricercatrice 吉田裕子 Yoshida Yūko che, grazie alla sua capacità preziosa di saper condividere questioni linguistiche usando un linguaggio accessibile a tutti, si impegna anche a sfatare una serie di miti riproposti in tanti libri di testo circa l’origine dei caratteri. Ovviamente lo trovate su Verasia, proprio qui.

Svanito l’incanto

È calata la sera. Il cielo si è ammantato nuovamente del suo drappo di un grigio nero con sprazzi di rosa antico. Tutt’attorno le luci di una città che già si prepara al ciclico trantran di sempre. La via si è rianimata e tutto già odora di un quasi lunedì. L’aria ha quella freschezza che inizia a pizzicare dolcemente la pelle.
Il barometro è già sceso al di sotto dei venti gradi e certifica la fine di questa effimera primavera immaginata, inventata e ricamata anche grazie a questi transitori sakura-mochi ormai scomparsi.

Sensazioni autunnali e pagine di storia

Uno scorcio incantato vissuto in solitudine: il Lungo Dora Voghera, a Torino.

Settembre si è già dissolto nelle acque del tempo e ottobre è qui. Nell’aria si sono già diffuse prepotentemente quelle note di bruciato che sembrano marcare la linea di confine tra l’estate morente e il giovane autunno. L’aria attraversata da venature già fredde e il cielo con quei suoi colori quasi taglienti mi hanno ricordato che l’estate è – anche questa volta – soltanto un ricordo.

E in effetti è così: mi volto e la vedo nella sua bolla rovente contro cui climatizzatori e bibite ghiacciate poco potevano.

Rivedo le settimane scivolate via, a volte faticosamente, nell’afa che sapeva inghiottire anche il più frizzante degli entusiasmi. Così, in un sol torrido boccone.

Le pale di ventilatori che instancabilmente tentavano di fendere quella coltre infuocata restituendo una parvenza di sollievo.

Le ponderose notti estive avvolte in un cielo colloso dove l’aria era immobile in una stasi meditativa.

Le strade d’agosto deserte e bollenti in cui tutto sembrava assumere le sembianze di un quadro di De Chirico.

È tutto un ricordo.

Eccoci qui, avvolti nella coltre dell’autunno.

Tazze di tè bollenti che intiepidiscono le mie dita già fredde e il mio cuore già planato nelle acque della malinconia. Calde fette del mio banana bread che sa sempre di America e bastoncini d’incenso di agarwood che lentamente bruciano liberando esili nastri di fumo fragrante.

È così che in una domenica di fine settembre ho percorso in solitaria il Lungo Dora Voghera aggrappandomi agli ormai già flebili raggi di sole e pensando alla bellezza limpida dell’istante. Ho assaporato quegli istanti di un settembre che appassiva davanti ai miei occhi.

読書の秋 Dokusho no aki

Il libro con cui ho attraversato la fine dell’estate per fare ingresso nei giardini dell’autunno.

In giapponese esiste un’espressione: 「読書の秋」(traslitterato: dokusho no aki) che è adatto a questo periodo. Letteralmente significa, infatti, autunno di letture. Fa riferimento al fatto che l’autunno è un periodo perfetto per riscoprire la lettura. Saranno le temperature che via via ci invogliano a riscoprire angoli caldi di casa. Ma forse saranno anche i colori straordinari con cui la natura si ammanta in questi mesi ad aumentare la voglia di introspezione nonché la ricerca del sapere.

Verso la fine di agosto ho trascorso alcuni giorni a casa di mia sorella, in compagnia dei suoi due splendidi animali: un cane e un gatto. Al mio arrivo mi aspettava questo libro che avevo fatto appositamente recapitare a quell’indirizzo, in previsione del mio imminente soggiorno. E così, nei panni della pet sitter, ho vissuto quelle giornate regolari in un silenzio rotto soltanto dalla voce di Jamiroquai e dalle mie conversazioni con i due amici a quattro zampe.

Le giornate con Aki e Toretto sono scivolate via, scandite dai ritmi regolari delle loro necessità, dalla morsa del caldo che non mollava la presa e dal mio desiderio di calma e silenzio.

E ho vissuto quelle giornate fantasticando tra le pagine di un libro che mi ha presa per mano in quegli ultimi giorni di agosto e continua il cammino insieme a me ora.

読書の秋

Il libro che mi aspettava a casa di mia sorella è intitolato 「日本の歴史366ぜんぶこの日にあったこと!」Nihon no rekishi 366 zenbu kono hi ni atta koto. Cioè La storia del Giappone 366 – tutto ciò che è avvenuto in questa data.

Si tratta di un bellissimo volume curato dall’esimio Professor Owada Tetsuo dell’Università di Shizuoka, storico specializzato in storia giapponese.

È un libro rivolto principalmente ad un pubblico giovane dato il modo accattivante con cui sono presentati i contenuti.

Con la presenza del Professor Owada, la storia giapponese non poteva che essere l’argomento protagonista.

Storia giapponese

La storia giapponese viene presentata, giorno dopo giorno, raccontando ai lettori di poeti, scrittori, guerrieri, imperatori, dame di corte. Non ci sono solo sguardi biografici ma anche giornate in cui si ricordano importanti battaglie oppure tragiche calamità naturali.

Il volume, dunque, propone ogni giorno al lettore contemporaneo un fatto storico avvenuto in quella data, secoli e secoli prima. L’episodio, di cui viene riportata la data sia secondo il calendario tradizionale sia quello gregoriano, è raccontato attraverso un breve testo accompagnato da illustrazioni sempre molto carine ed efficaci nel far immaginare il momento descritto.

Al fondo di ogni pagina, inoltre, l’autore mette alla prova la comprensione con una brevissima domanda a scelta multipla.

Anche dal punto di vista grafico l’opera è molto curata. Ad ogni mese è assegnato un colore le cui sfumature servono per evidenziare varie parti di ogni pagina. Il tutto è stampato su carta di qualità, piacevole al tatto e gradevole alla vista.

Uno strumento straordinario per arricchire la propria conoscenza non solo di storia giapponese ma di kanji, vocaboli, modi di dire! Questo è un vero scrigno pieno fino all’orlo di conoscenza preziosa, soprattutto per i giapponesisti di quasi ogni livello.

Per poterlo leggere fluidamente vi servirà partire almeno da un livello N3 solido. Tuttavia, se siete al di sotto dell’N3, non disperate: potete certamente trarre beneficio da questo libro con una lettura parziale, magari soffermandovi sui vocaboli e i kanji.

Figure affascinanti

Questo libro è un vero viaggio nella storia, in una storia lunga, ricchissima e costellata di personaggi incredibili. È stato proprio grazie a quest’opera che sono venuta a conoscenza, ad esempio, di una figura davvero curiosa: 中浜万次郎 Nakahama Manjirō (noto anche come John Manjirō) nato nel periodo Edo e morto nel periodo Meiji. È passato alla storia per essere stato uno dei primissimi giapponesi a visitare gli Stati Uniti ed essere poi diventato uno dei primi traduttori e interpreti durante quel complicato momento di apertura del Giappone all’Occidente.

Nakahama Manjirō

Ho trovato storia di John Manjirō talmente straordinaria da aver poi condotto delle mie ricerche per approfondirne alcuni aspetti.

Grazie a Ko e Verasia!

Sono venuta a conoscenza di questo magnifico libro grazie a Ko, una ragazza nippo-neozelandese che ha un account Instagram @ko.studygram dedicato alla lettura di libri giapponesi. Attraverso eventi e consigli vari, Ko cerca di incoraggiare i giapponesisti di ogni dove ad appassionarsi alla lettura in lingua. Perché leggere è e rimane la miglior strategia per incrementare il proprio bagaglio lessicale nonché la propria capacità di comprensione strutturale della lingua.

E grazie ai bravissimi amici della libreria Verasia, di cui ho già parlato qui, ho potuto acquistare questo libro del professor Owada e riceverlo in pochi giorni.

Le letture continuano…

Questo autunno è iniziato già impregnato del profumo dei libri e dell’atmosfera che essi sanno creare già dalla prima riga. Probabilmente racconterò di altri libri che allietano queste giornate già fredde e piovose e così squisitamente in sintonia col mio essere.

Il blog è in attesa di tante novità, alcune ancora in bozza e altre per adesso solo nel cantiere della mente.

Forse è per questo che non sono una blogger di grande successo?

O forse lo sono? D’altronde Biancorosso Giappone racconta da tanti anni ormai e in moltissimi mi leggete ancora. Le statistiche e i messaggi che mi mandate non mentono.

Okayu

Agosto è arrivato avvolto nel suo mantello infuocato e l’estate ormai ha raggiunto il suo sfolgorante zenit.

È questo il periodo in cui – più di qualsiasi altro momento – il tempo sfodera l’illusione più sorprendente: apparenti dilatazioni che avvengono a dispetto di quanto sembri postulare la fisica.

In queste roventi giornate diluite da chimerici strascichi allunganti, riscopro sapori giapponesi radicati nel mio cuore.

Come quello dell’okayu.

Ma prima di iniziare, ho due comunicazioni importanti per tutti i miei lettori.

Corso base di giapponese

A settembre avrà inizio il mio corso base collettivo di giapponese, progettato specificatamente per chi è completamente a digiuno della lingua. Si tratta di un corso gratuito, finanziato da Formatemp.
Per chi fosse interessato ad avere maggiori informazioni e desiderasse iscriversi può consultare questa pagina. È un corso a distanza dunque siete tutti i benvenuti, a prescindere dalle vostre latitudini.

Mi raccomando, quando vi iscrivete non dimenticatevi di dire di aver saputo del corso direttamente da me!

Quindi non vi resta che iscrivervi e preparare matite e quaderni. Vi aspetto!

Sono in arrivo…

Ricette della mamma di Megumi
Lo sfondo che ho scelto è color 藤色 fuji-iro, color glicine, che ho scelto istintivamente e ho poi scoperto essere il preferito di Megumi!

Inizierà prossimamente un nuovo spazio dedicato alle preziose ricette della mamma di Megumi. Vi racconterò qualcosa di questa cara amica, della speciale amicizia che ci lega e soprattutto del dono delle preziose ricette di sua mamma. Ricette che, con il permesso di Megumi naturalmente, vorrei condividere con voi.

Sono ricette che profumano di casa, di quotidianità, di convivialità e ricordi. Sono piccoli tasselli di un vissuto inestimabile.

Ma arriviamo ora all’argomento di oggi…

Cos’è l’Okayu?

Okayu con umeboshi
Il mio Okayu

L’okayu, molto semplicemente, è una zuppa di riso stracotto. Alcuni usano il termine porridge per rendere meglio l’idea della consistenza.
È un piatto dalle origini antichissime e che ancora oggi fa parte del repertorio di ricette curative, ideali per quando non si sta molto bene. Ma l‘okayu è delizioso anche semplicemente quando si ha voglia di sapori non complicati.

Come vedremo, prepararlo non è affatto difficile e gli ingredienti sono pochissimi, tutti reperibili ovunque siate. Inoltre, è una preparazione che permette un grande margine di libertà per poterla personalizzare in base ai propri gusti e a ciò che avete in dispensa.

Per i giapponesi, l’okayu è il comfort food – o il ソウルフード sōru-fūdo (soul food) come lo chiamano loro – per eccellenza. È il cibo confortante nei momenti di malattia, di poco appetito, di malessere fisico o emotivo in generale.

L’okayu inoltre è un ottimo alimento indicato sia agli anziani sia ai bambini molto piccoli grazie alla sua consistenza morbida, il suo sapore delicato e la sua composizione leggera. Compare spesso, infatti, sulle riviste e sulle pubblicazioni rivolte alle mamme proprio perché è una preparazione ideale per aiutare i bimbi nel passaggio dai cibi liquidi od omogeneizzati ai solidi.

Ho voluto assaporarlo nuovamente dopo tanto tempo per placare un po’ i morsi della nostalgia che ogni tanto tornano ad attanagliarmi.

Illustrazione di un Okayu
illustrazione di un Okayu con umeboshi.

Che origini ha questo piatto?

Una scodella di buon Okayu. Fonte.

È un piatto con alle spalle ben seimila anni di storia! In Cina è conosciuto da millenni ma in Giappone l’okayu è stato introdotto circa mille anni fa. Comunque sia, non proprio una novità nemmeno per i giapponesi.
Tuttavia, le origini di questa zuppa non sono in Cina! Infatti, uno dei termini con cui è conosciuta in molte parti dell’Asia e anche tra le varie diaspore asiatiche nel mondo è congee. Questa parola, infatti, deriva dalla lingua Tamil parlata nel Tamil-Nadu, nel sud-est dell’India. Il termine originale è kanji (che non ha nulla a che vedere con i kanji della scrittura). In lingua Urdu questa zuppa di riso si chiama ganji mentre nella lingua Malayalam del Kerala è nota come kanni. (cit. Lisa Lim).

Insomma, una zuppa ormai diffusissima in tante versioni soprattutto nell’Asia orientale che però ha inaspettate origini dravidiche.

Okayu, invece, è il termine in uso esclusivamente in giapponese.

Date le sue origini antichissime e che toccano un territorio molto esteso, si può facilmente immaginare la varietà di versioni e metodi di preparazione. Un tempo in Cina, ad esempio, se il riso scarseggiava allora si impiegavano altri ingredienti come il miglio, l’orzo, la farina di mais, ecc. (fonte). In alcune zone al posto dell’acqua si usa il latte di cocco. La zuppa può essere servita semplice senza niente oppure con l’aggiunta di ingredienti molto saporiti che varieranno a seconda degli usi locali. In alcuni Paesi, ad esempio, si serve questa zuppa arricchendola con dell’arrosto, uova di anatra, frutti di mare, erbe assortite, pollo, ecc.

Noi però oggi vedremo come si prepara tradizionalmente in Giappone, tenendo sempre presente che le versioni sono comunque tante e ognuna rispecchierà preferenze e abitudini di famiglia.

La proporzione giapponese ideale

Questa zuppa non ha proprio una consistenza standard. Dipende da chi e dove viene preparato. La versione cantonese (chiamata jook) è particolarmente liquida: si prepara con un rapporto di 1:10 tra riso e acqua. In Giappone, invece, si preferisce che l’okayu abbia una consistenza più compatta e meno brodosa. Nella cucina giapponese esiste, infatti, una proporzione considerata ideale per l’okayu: 1:5. Quindi una parte di riso per cinque parti d’acqua. Questa proporzione ben bilanciata è frutto di molti esperimenti nei secoli e pare sia stata infine inquadrata nel Periodo Edo. Questa proporzione armoniosa si chiama 全粥 zen-gayu.

La mia ricetta dell’okayu segue naturalmente la proporzione zen-gayu.

Sentitevi, però, liberi di aumentare la dose d’acqua se lo ritenete necessario.

Okayu: ingredienti

La ricetta è per una persona e prevede la cottura in un pentolino di ghisa. Ma potete usare un pentolino qualsiasi purché dotato di coperchio.

Vediamo subito gli ingredienti per un okayu giapponese tradizionale. A questa ricetta ovviamente potrete apportare le modifiche che desiderate.

INGREDIENTI

Ingredienti per un buon okayu giapponese, per 1 persona.

50g di riso giapponese (originario)
250ml d’acqua
sesamo nero q.b.
1 umeboshi q.b.*
parte verde di un cipollotto q.b.
kizami-nori o alga nori tagliuzzata, q.b.

*Le umeboshi sono le tradizionali prugne essiccate e conservata in una salamoia a base di foglie di shiso (che dona quel colore caratteristico al frutto). Sono ingrediente importantissimo della tavola giapponese per le sue numerosissime proprietà benefiche. Dato però il loro elevato contenuto di sale, generalmente non se ne consuma più di una al giorno.
Le trovate comunemente in commercio nei negozi di alimentari macrobiotici oppure nei negozi di prodotti asiatici (sia fisici sia online).

Io ho acquistato delle ottime umeboshi provenienti dalla Prefettura di Wakayama, prodotte dall’azienda Sekimoto, una realtà molto attenta alla qualità delle materie prime.

Le deliziose umeboshi da Wakayama!

Se non vi piacciono o non le avete, potete certamente saltarle. Vi indicherò più sotto alcune aggiunte alternative. Tenete però presente che l’okayu è un piatto curativo, come si diceva, quindi la presenza dell’umeboshi è totalmente coerente con la filosofia della preparazione stessa.

Buonissime e ricche di proprietà benefiche!

Okayu: preparazione

Per prima cosa è essenziale preparare il riso. Sarà necessario risciacquarlo un paio di volte sotto acqua corrente. L’acqua dovrà risultare piuttosto limpida. Dopo aver scolato il riso, metterlo a bagno in acqua (non i 250ml che serviranno per la cottura) e lasciarlo a riposo per circa mezz’ora.

Passaggi preliminari per la preparazione del riso

Come già accennato, ho utilizzato un pentolino di ghisa ma andrà bene anche di altro materiale. Volendo, si possono usare i classici tegami di coccio o addirittura ricorrere alle cuociriso elettriche.

Il mio tegame di ghisa.

Trascorsa la mezz’ora di ammollo, scolare molto bene il riso e trasferirlo nel pentolino in cui avverrà la cottura. Aggiungere i 250ml d’acqua, coprire con un coperchio e mettere a cuocere a fiamma alta.

Cottura dell’okayu

Non appena inizierà il bollore, abbassare la fiamma al minimo. A questo punto si può aprire il coperchio per dare una mescolata veloce. Richiudere subito e proseguire la cottura a fiamma lenta. La cottura procederà per circa mezz’ora.
Consiglio di dare un’occhiata dopo circa un quarto d’ora per verificare che il riso non si stia né asciugando troppo né bruciando. Se necessario, aggiungere ancora un pochino d’acqua molto calda.
Tuttavia, non dovrebbero servire aggiunte d’acqua oltre quella prevista dalla ricetta.

Trascorsa la mezz’ora di cottura, spegnere il fuoco e lasciare riposare a coperchio chiuso per qualche minuto.

Okayu: è ora di servire!

Non resta che scegliere una bella scodella in cui servire il vostro delizioso okayu appena fatto! Riunire i condimenti: l’alga nori, l’umeboshi, il sesamo, il cipollotto verde tritato. Ci sono altre possibilità che vi elencherò a breve.

Quasi pronto!

Dopo aver versato l’okayu nella scodella, guarnite a piacere con i condimenti prescelti.
L’aggiunta dell’umeboshi al centro dell’okayu è una scelta molto tradizionale perché simboleggia la bandiera biancorossa giapponese, la Hi no Maru 日の丸!

In ricordo della Hi no Maru!

Aggiungete il resto e siete pronti per gustarvi una vera coccola delicata!

Il mio delizioso okayu!

Condimenti alternativi

Al posto dei condimenti tradizionali che vi ho consigliato nella ricetta, potete sperimentare con altre possibilità tra cui: salmone affumicato, uova, verdure a scelta. Al posto dell’acqua, se volete più sapore, potete usare del brodo di pollo, brodo vegetale oppure del miso. E se lo gradite, come tocco finale, qualche goccino di salsa di soia o dell’olio di sesamo tostato.

Okayu: una curiosità linguistica

Il kanji in utilizzo per la parola okayu è 粥 che si legge kayu. Ad essa generalmente si antepone l’onorifico o-.

Il kanji è a mio avviso molto gradevole dal punto di vista estetico. Si presenta in modo bilanciato ben strutturato.

Kanji di (o)kayu.

Il kanji presenta al centro il riso mentre gli elementi ai lati rappresentano lo yuge ossia il vapore.

Ode allo Yokan

Nella densa incandescenza di queste giornate di fine luglio scrivo un’ode allo Yokan.

Uno scritto in onore dello Yokan oppure al sapore di Yokan?

Forse entrambe le cose. Anzi sì, tutte e due.

Uno Yokan a metà tra realtà e immaginazione.

Nel ferreo rigore di questo feroce caldo le ore sembrano veramente scorrere ad una velocità diversa dal solito. Flussi di tempo saturi che fluiscono con fatica mentre con difficoltà cerco di concentrarmi sulle pagine di un libro. Ma quelle pagine sono improvvisamente più spesse, quasi umide. Mi sembra quasi di intravederne i bordi leggermente ondulati, il che provoca in me un fastidio lieve ma pungente.

Cedo alle lusinghe di un breve sonno come onirica tregua alle roventi ore di veglia. Ma poi me ne pento. Quel leggero sonno si trasforma presto in un tormentato girarsi e rigirarsi che mi catapulta in un odioso dormiveglia.

Desidero una folata di brezza anche gelida. Qualsiasi cosa purché porti sollievo.

Mi perdo allora in una fantasia. Insomma, se non posso mandare via il caldo posso però immaginarmi il fresco. Posso rievocarlo con le emozioni.

Penso allora al buio, all’oscurità, a quel territorio dove i nostri occhi s’indeboliscono e devono fidarsi di altri sensi. Quel territorio che sfugge alla luce e ai raggi irosi di questo irremovibile sole.

E penso a Tanizaki.

In’ei raisan e lo Yokan

『陰影礼賛』In’ei raisan di Jun’ichirō Tanizaki. La poca luce della foto è certamente voluta.

In’ei raisan è un saggio che io chiamo casa. Lo conosco davvero come le mie tasche. O come casa mia. È una delle mie opere letterarie preferite in assoluto. Infatti non è un caso che sia stato oggetto d’indagine della mia tesi di laurea. Attraverso l’analisi approfondita di questo libro ho avuto quasi la sensazione di aver conosciuto Tanizaki. E in un certo senso è così.
In’ei raisan è un po’ il manifesto del mio sentire giapponese più profondo.

La traduzione italiana di In’ei raisan: Libro d’ombra. Traduzione di Atsuko Ricca Suga.

In un bislacco intrecciarsi di suggestioni, penso all’esaltazione dell’oscurità di Tanizaki mentre ascolto la voce struggentemente americana di Garth Brooks nella sua The Thunder Rolls.
Giappone e America. I miei due mondi. Le mie due dimensioni dove mi sono trovata intrappolata in un ciclo di fioriture, appassimenti. E poi nuovi sbocciare.

Dalle pagine di In’ei raisan

Nel 1933, anno di pubblicazione di In’ei raisan, Tanizaki così scriveva:

“Si dice spesso che la nostra cucina non bada tanto a deliziare il palato, quanto a lusingare con le seduzioni proprie alle arti decorative. Io penso che le sue composizioni mirino anche più in alto. Si direbbe che intendano sprofondarci in meditazioni silenziose. Nel suo romanzo Il guanciale d’erba, Natsume Sōseki lodò, per il colore, quel dolce di pasta di fagioli e zucchero che chiamiamo yōkan. Che cosa più dello yōkan, e della sua tonalità, possono indurre alle meditazione? Solo a metà trasparente, e come rannuvolata, la pasta somiglia alla giada. Dall’interno si sprigiona un chiarore di sogno, quasi una sorgente di luce solare, che la liscia superficie abbia risucchiata e inabissata nel centro del dessert. Quale, fra i dolci occidentali, potrebbe rivaleggiare con questo impasto, e con il suo sapore così complesso? Non certo la panna montata, infantile, superficiale, esuberante. Nella penombra di una stanza, disponete i blocchi dello yōkan in un recipiente di legno laccato: il suo fascino misterioso aumenterà; il suo colore delicato e indefinibile si sposerà perfettamente con le tonalità della lacca. Sulla punta della lingua, il liscio, il compatto e il freddo dello yōkan si combineranno armoniosamente, come se tutta la tenebra circostante si fosse fusa in un’unica massa.” (tratto da Libro d’ombra, pagine 25 e 26).

Il mio Yokan, assaporato in una semi-penombra. Accompagnato da un matcha nella mia solita tazza da Nodate, coi bordi dipinti di cielo. Ho seguito il consiglio estetico di Tanizaki servendo lo Yokan su un vassoio hangetsu (cioè a forma di mezza luna) di lacca.

Cos’è lo Yokan?

Proprio come ha spiegato Tanizaki, lo Yokan (o yōkan, nella traslitterazione corretta, quindi con l’allungamento vocalico sulla o), è un dolce di pasta di fagioli e zucchero. Si presenta come un blocchetto di consistenza gelatinosa.
È un wagashi ossia uno dei dolci tradizionali della pasticceria giapponese classica. La sua composizione è semplice.
Esistono diverse versioni di questo dolce dove l’elemento differenziante sono le proporzioni degli ingredienti:
練り羊羹 neri-yōkan contiene più gelificante e quindi ha una consistenza più soda;
水羊羹 mizu-yōkan contiene più acqua il che contribuisce a renderlo più fresco e dunque adatto all’estate;
蒸し羊羹 mushi-yōkan preparato senza gelificante. Al suo posto si usano alcuni amidi come quello di arrowroot. Il tutto viene poi cotto al vapore.

Illustrazione di un classico mizu-yōkan estivo.

Quali sono le sue origini?

Lo Yokan è uno dei dolci giapponesi più antichi. Si dice, infatti, sia stato introdotto in Giappone nel periodo Kamakura-Muromachi (1185-1573). Quello fu un periodo caratterizzato da enormi instabilità interne e conflitti. Fu però anche il periodo in cui fiorì la cultura sotto l’influenza del buddismo Zen. Molte delle arti classiche conosciute in tutto il mondo sono nate in questo tumultuoso ed effervescente periodo della storia giapponese. Si pensi al teatro Nō, all’ikebana, alla cerimonia del tè.

In quel periodo i rapporti con la Cina erano all’apice dell’intensità, in un rapporto di massima ammirazione del Giappone verso il millenario Regno di Mezzo. Erano gli anni dei grandi viaggi dal Giappone verso la Cina, alla ricerca del sapere. La grande Cina era modello di civilizzazione e di saperi avanzati in tutti i campi conosciuti dell’epoca.

Studiosi, avventurieri ma soprattutto i monaci erano i protagonisti indiscussi di quei leggendari viaggi. Si sapeva quando si partiva ma non quando si sarebbe potuti ritornare in patria. Alcune volte i viaggiatori ci impiegavano anni a ritornare. Altre volte, invece, il ritorno non sarebbe mai avvenuto.

Fu proprio un monaco di ritorno dalla Cina ad introdurre questa specialità in Giappone.

Ma c’è una curiosità piuttosto affascinante.

Un dolce che non era un dolce

I bellissimi caratteri che compongono il nome Yokan sono questi: 羊羹.

I caratteri non hanno bisogno di essere interrogati. Basta osservarli. Sono loro a raccontarci storie che a volte sembrano dissoltesi via da un sogno verso la dimensione di veglia.

I due caratteri, infatti, ci restituiscono due vocaboli curiosi: pecora e brodo caldo.

Nell’antica Cina si consumavano abitualmente solo due pasti al giorno: uno al mattino e uno alla sera. Però capitava che magari durante il giorno le persone trovassero ristoro in un piccolo spuntino leggero. Questi intermezzi gastronomici si diffusero soprattutto tra i viaggiatori della Via della Seta che, come si può immaginare, avevano bisogno di fermarsi spesso durante il tragitto per rifocillarsi.

Ebbene, al tempo del monaco che importò la ricetta in Giappone, i cinesi erano ancora abituati a questi due pasti principali inframezzati ogni tanto da spuntini che chiamavano 点心 tenshin (ovvero quelli che ora conosciamo col vocabolo cantonese Dim Sum). I tenshin erano e sono tradizionalmente accompagnati dal tè. Il nome in cinese indica qualcosa che tocca il cuore, che conforta, che ristora.

Tra i tenshin in voga all’epoca ce n’era uno a base di una leggera gelatina prodotta dalla bollitura di un brodo di montone.

Il monaco portò con sé la ricetta della preparazione di questo particolare tenshin ma, ovviamente, la riadattò perché fosse in linea coi precetti alimentari del buddismo zen che vietavano il consumo di ingredienti di origine animale.

Il riadattamento prevedeva l’uso di fagioli dolci, il che generò proprio lo Yokan come lo conosciamo noi oggi.

La ricetta

La ricetta dello Yokan è sorprendentemente semplice. Si tratta, in fondo, di un composto che viene unito ad un gelificante vegetale.

La difficoltà, tuttavia, sta nella realizzazione della marmellata di azuki che è molto più complessa e insidiosa di quanto non sembri.
E una buona marmellata di azuki realizzata correttamente richiede una certa esperienza ma è un qualcosa che sa regalare ricordi indelebili.

Marmellata di azuki e varie

In Giappone ho mangiato molte marmellate di azuki artigianali e casalinghe. Era un dono piuttosto comune e mi capitava abbastanza spesso di riceverne dei vasetti da amiche e conoscenti.

Erano tutte diverse, ognuna col tocco personale di chi l’aveva preparata. Alcune erano più dolci e spesse mentre altre viravano verso una dolcezza più sobria, più contenuta, quasi educatrice.

La migliore era la marmellata di azuki della signora Fusae. Me ne portava spesso dei piccoli vasetti, a volte come ringraziamento per le nostre indimenticabili lezioni pomeridiane d’italiano. La sua era veramente straordinaria: perfettamente equilibrata nella dolcezza e nella cremosità che a volte tendeva ad una leggera cristallizzazione.

Insomma, ho pensato che la via migliore per invitarvi a preparare il vostro primo Yokan senza impelagarvi nelle insidie della marmellata di azuki artigianale fosse quella di iniziare usando degli azuki bolliti.

Ossia questi:

Yude-azuki o azuki bolliti.

Gli azuki bolliti si trovano molto facilmente nei negozi di alimentari asiatici qui da noi. Li ho visti veramente ovunque, addirittura nel reparto etnico di qualche grande supermercato!

Quasi sicuramente troverete proprio questi della marca Imuraya.

Yude-azuki di Imuraya.

Gli yude-azuki sono azuki già bolliti al punto giusto. Sono già zuccherati e pronti da consumare. Sono la base ideale per preparare una buona marmellata di azuki senza sbagliare.

Della marmellata di azuki esistono due tipi principalmente: la 粒あん tsubuan e la こしあん koshian. La prima è la più rustica e grossolana avendo pezzi visibili di fagioli al suo interno. La koshian, invece, è la versione più raffinata in quanto liscia e priva di bucce. Quest’ultima è molto indicata per farcire dolci oppure per uno Yokan elegante.

Yokan: finalmente la ricetta

Con questa ricetta si realizza un blocchetto di Yokan adatto ad una pausa tè per due o tre persone.

La ricetta si divide in tre fasi: la preparazione della koshian, dello Yokan e dello stampo.

Preparazione della koshian:

Preparazione Koshian

Servirà una lattina di Yude-azuki da 200g (questo è il formato standard che si trova qui da noi). Aprirla e versarne il contenuto nella coppa di un frullatore ad immersione. Frullare fino ad ottenere una crema omogenea. Trasferire la crema in un tegame e far cuocere a fiamma bassa per circa dieci minuti. La crema si asciugherà parecchio. Attenzione a non bruciarla. Otterrete così circa 100g di koshian.

Preparazione dello Yokan:

Servono i seguenti ingredienti:

Ingredienti

100g di koshian
63ml d’acqua
4g di agar-agar in polvere

La procedura è semplice e veloce.

Preparazione Yokan

In un pentolino versare l’acqua e l’agar-agar. Mescolare bene con una frusta. Mettere a cuocere a fiamma media e portare ad ebollizione. Far bollire per due minuti. A questo punto stemperare all’interno la koshian. Mescolare bene e far cuocere per circa un minuto. Il composto ricorderà molto come consistenza la cioccolata calda.

Preparazione dello stampo:

Per lo Yokan servirebbe uno stampo apposito in metallo ma non è obbligatorio. Possiamo fare altrimenti.
È sufficiente un contenitore quadrato o rettangolare di vetro che rivestirete di pellicola per alimenti. È importante che la pellicola aderisca bene alla superficie interna del contenitore. Inumidire l’interno con acqua.

Preparazione stampo

Quando il composto dello Yokan sarà pronto, lasciarlo raffreddare per un paio di minuti dopodiché versarlo nello stampo rivestito di pellicola inumidita. Coprire e riporre in frigorifero per almeno un’ora.

Trascorso questo tempo, lo Yokan si presenterà come un blocchetto sodo. Tagliarlo nella forma che si preferisce e servirlo accompagnato da matcha, sencha o dalla bevanda che preferite.

Il mio Yokan pronto da tagliare.

In conclusione

Il mio Yokan è un mizu-yōkan quindi adatto proprio a queste temperature infuocate di questo periodo. In esso c’è tutta la magia estetica di Tanizaki nonché la struggente malinconia dell’estate giapponese con i suoi matsuri, i canti delle sue cicale, la prepotenza di quell’afa che sembra penetrare fin negli abissi dello spirito. E lo Yokan sembra proprio che risucchi la luce, come scriveva Tanizaki, per custodirla al suo interno.

E allora pare prender forma l’illusione di oscurità, di penombra, di tregua dal caldo. Di ristoro fisico e mentale.

Il mio Yokan casalingo, assaporato nell’illusione della frescura di una penombra piuttosto immaginaria.

Hiyashi-chuka

Una rinfrescante hiyashi-chuka casalinga

In questa tenace morsa di caldo in cui ormai ci troviamo da non so più quanto, l’appetito fatica ad esserci. Mi è tornato in mente in questi giorni – e non è un caso – un piatto della cucina giapponese estiva: la 冷やし中華 hiyashi-chūka, considerata da molti la versione estiva dei rāmen.

Nell’attenta catalogazione stagionale delle cose che è insita nello spirito giapponese, anche la hiyashi-chūka ha un suo momento di gloria annuale e una sorta di rituale con cui entra in scena. Essa, infatti, un po’ come il mugicha (di cui vi avevo parlato qui) fa il suo ingresso al primo rialzo delle temperature. Non prima.

Generalmente, nei supermercati e nei konbini si iniziano a vedere gli spaghettini e le salse per la hiyashi-chūka a partire da fine aprile in poi. Ma il vero ritorno sui menù dei ristoranti di solito avviene a fine primavera o a inizi estate ed è sempre annunciato da un messaggio esposto all’esterno o comunque in un qualche punto subito visibile. Questo:

冷やし中華はじめました。

Le parole del messaggio sono: 冷やし中華はじめました。Hiyashi-chūka hajimemashita. Vale a dire: abbiamo iniziato la hiyashi-chūka. Cioè è ritornata ad essere disponibile.

La cosa curiosa, però, è che il ritorno trionfante del piatto sui menù estivi viene annunciato con la grancassa ma lo stesso non accade per la sua partenza.

Messaggio di arrivo della Hiyashi-chūka, fotografato in un ristorante di Tokyo. Fonte.

Ai primissimi sentori autunnali, infatti, la hiyashi-chūka sparirà dai supermercati, dai menù e dai banchi frigo dei konbini di quartiere per dileguarsi in un viaggio lungo un anno. Se ne va ogni anno così, senza avvisare. Nessun messaggio sventolante posto all’esterno delle trattorie, nessun avvertimento.

E così ricordo l’arrivo della hiyashi-chūka ogni anno: prima sommessamente nelle corsie dei supermercati e poi con grande stile e squilli di trombe sui menù. E infine, il suo svanire nel silenzio di quell’aria già timidamente autunnale.

Cos’è la Hiyashi-chūka?

Illustrazione di una classica hiyashi-chūka

È presto detto: si tratta di un piatto di spaghetti cinesi freddi guarniti con una varietà di ingredienti freschi. Il tutto viene infine condito con una caratteristica salsa molto rinfrescante a base essenzialmente di salsa di soia e aceto. Della salsa esiste anche un’altra famosa versione a base però di sesamo.

Potremmo dire che se in estate noi abbiamo l’insalata di pasta, in Giappone hanno la hiyashi-chūka.

È un piatto molto semplice da realizzare anche grazie alla sua naturale versatilità; le versioni possono essere moltissime e rispecchiare ognuna i propri gusti personali.

Nella ricetta vedremo quali sono le guarnizioni tradizionali ma anche alternative altrettanto deliziose. Ovviamente poi, come per ogni ricetta che si rispetti, anche in questo caso la differenza la farà chi la prepara aggiungendoci un proprio tocco speciale.

Che origini ha?

La hiyashi-chūka fa parte della cosiddetta 中華料理 chūka-ryōri, ossia della cucina cinese come intesa dai giapponesi. Si tratta di uno dei tre grandi blocchi in cui è divisa la cucina giapponese tutta: quella giapponese propriamente detta, quella occidentale o 洋食 yōshoku e infine la cucina cinese o chūka-ryōri.

In merito alla chūka-ryōri si potrebbero scrivere pagine e pagine tanto è affascinante la sua evoluzione e la sua influenza sul popolo giapponese. Particolarmente interessante è il modo in cui è cambiata nel tempo la percezione della cucina cinese nella mente giapponese: da cucina esotica, pesante, non salutare e comunque solo per gli immigrati cinesi …a una cucina che gradualmente ha trovato un proprio lustro, sebbene mai tanto quanto quella occidentale.

A tal proposito, se ci sarà interesse a riguardo, potrò esplorare l’argomento in profondità. Sarà certamente fondamentale prendere in esame gli scritti dello studioso Kaibara Ekiken, vissuto nel Periodo Edo, che dedicò alla cucina cinese una serie di considerazioni piuttosto curiose. Lo studioso, infatti, affrontò l’argomento mettendo a confronto quella cucina con quella giapponese e traendo una serie di conclusioni che, indubbiamente, farebbero storcere il naso a molti oggigiorno.

Illustrazione di una classica 中華料理屋 locanda di cucina cinese, in Giappone.

Solo ripercorrendo le vicissitudini della cucina cinese in Giappone si potrebbe, in questo modo, rivivere una parte importante della storia giapponese, a partire dal Periodo Edo fino al secondo dopoguerra.

Sebbene, però, questo piatto sia parte del repertorio cinese, le sue origini sono deliziosamente giapponesi: si dice sia nato nel 1937, a Sendai, nella Prefettura di Miyagi (nord di Tokyo), ad opera del proprietario di un ristorante cinese della città: il 龍亭 Ryū-tei (il cui nome molto evocativo significa “Ristorante del Drago”).
A causa del caldo insopportabile, il proprietario del ristorante del Drago di Sendai si rese conto che le vendite del rāmen stavano colando a picco. Urgeva un’idea. Quale migliore soluzione se non quella di servire il rāmen però freddo e accompagnato da un brodo che lo fosse altrettanto?

Ed ecco nata l’idea della hiyashi-chūka il cui nome significa piatto cinese freddo.

Ma come spesso accade con ricette famose, c’è sempre una sorta di lotta alla paternità del piatto. Teorie varie che si scontrano in una gara che forse non avrà mai vincitori né vinti.

Vi è infatti chi sostiene che il piatto sia stato inventato nel 1929 a Tokyo, da Yosuko Saikan, storico ristorante cinese del quartiere di Jimbocho. Pare che in quel caso l’idea sia nata da un momento di geniale ispirazione che aveva colto il proprietario durante una cena. Si narra, infatti, che questo signore avesse improvvisamente immaginato una montagna di spaghetti freddi conditi tale da assomigliare al Monte Fuji.

Sia come sia, le sue origini si possono collocare con sicurezza negli anni Trenta, in Giappone. Quindi un piatto nato negli ambienti delle cucine dei ristoranti cinesi in un Giappone che stava iniziando a scoprire le delizie di quest’antica tavola.

Hiyashi-chūka: la ricetta

Arriviamo al sodo, ossia la ricetta vera e propria. Come vedrete, sarà divisa in quattro fasi: la preparazione della たれ tare ossia della salsa, la preparazione delle guarnizioni, quella del 金糸卵 kinshi-tamago e infine la cottura degli spaghetti cinesi.

La ricetta è per due persone.

Elencherò subito gli ingredienti per ogni fase dopodiché le illustrerò singolarmente.

A mio parere, conviene seguire l’ordine delle fasi come ve lo presento per evitare la non riuscita del piatto.

Ingredienti per la Tare o salsa

Ecco l’occorrente per la Tare

2 pezzetti di zenzero fresco grattugiato
8 cucchiai di salsa di soia
6 cucchiai di aceto di riso
4 cucchiai di brodo di pollo (o vegetale oppure anche solo acqua)*
4 cucchiai d’acqua
4 cucchiai di zucchero
2 cucchiai di olio di sesamo tostato
1 cucchiaino di Rayu o olio piccante (facoltativo)

Per avvicinarmi di più al sapore orientale della tare, ho usato un granulare di pollo dalla Tailandia: ho stemperato un cucchiaino scarso di granulare in quattro cucchiai d’acqua calda. Potete usare del brodo fatto con dadi nostrani, del brodo fresco oppure dell’acqua.

Ingredienti per il Kinshi-tamago

Il kinshi-tamago è una frittatina semplice che viene arrotolata su se stessa e tagliata a striscioline fini. Il nome stesso significa uovo a fili d’oro. Il kinshi-tamago viene usato molto spesso come decorazione per il suo colore vivace e il suo aspetto piuttosto scenografico.

Per realizzare questi fili d’oro di uovo serviranno:

Con poco o nulla realizziamo dei bellissimi fili d’oro!

2 uova
un pizzico di sale
un pizzico di zucchero

Ingredienti per guarnire

Qui ci si potrà sbizzarrire. Le guarnizioni classiche sono: il kinshi-tamago, i pomodori, il prosciutto, i cetrioli. Però esistono così tante versioni di questo piatto con una grande varietà di ingredienti da poter davvero contemplare qualsiasi cosa vi piaccia.
Alcuni suggerimenti: gamberi cotti, surimi, avocado, tonno sgocciolato, mais, pollo lessato, funghi shiitake, affettato di tacchino, ecc.

Per la mia versione ho usato come guarnizione: kinshi-tamago, pomodori, cetrioli, peperone verde.

Verdure fresche e profumate hanno fatto da protagoniste in questo delizioso piatto estivo!

Per gli spaghetti cinesi

Bisognerebbe usare spaghettini freschi per ramen, se possibile. Se non li trovate però non disperate. Potete usare quelli secchi che trovate in commercio nei negozi di alimentari asiatici. E se guardate bene è molto probabile che troviate quelli che ho usato:

Noodles freschi per yakisoba e ramen.

Se proprio non doveste trovare alcunché di simile, provate con dei semplici tagliolini all’uovo.

Preparazione della Tare

Conviene preparare subito la Tare in modo da avere il tempo che questa si raffreddi adeguatamente. La ricetta di questa salsa è autentica. Quando l’ho preparata ho avuto un momento di proustiana emozione.

Per la Tare, riunire in un pentolino tutti gli ingredienti sopraelencati e portarli ad ebollizione a fiamma media. Non appena inizierà il bollore, spegnere. Lasciare raffreddare completamente trasferendola, se necessario, in frigorifero. La salsa dovrà essere fredda al momento di servire.

Kinshi-tamago

Per preparare i fili d’oro dovrete semplicemente sbattere due uova e aggiungerci un pizzico di sale e uno di zucchero.

Preriscaldare un padellino, ungerlo delicatamente con un po’ di olio di semi. Potete usare un pezzo di carta da cucina per assorbire l’olio in eccesso. Si dovranno ottenere due frittate quindi versare metà dell’uovo sbattuto e lasciar cuocere. Quando la superficie sarà cotta, girare la frittata dall’altra parte e lasciare che la cottura proceda ancora per un minuto o due. Ripetere l’operazione con l’uovo restante.

Una volta che le frittate saranno pronte, arrotolarle su se stesse e tagliarle a striscioline sottili. Ecco pronto il kinshi-tamago. Mettere da parte.

Taglio delle verdure

A questo punto potete dedicarvi al taglio delle verdure oppure alla preparazione dei gamberi, del tonno o di qualsiasi altra guarnizione abbiate piacere. Io ho usato solo verdure che ho tagliato in questo modo.

Per il pomodoro: è sufficiente tagliarli a spicchi.
Per il peperone: basta tagliarlo a striscioline sottili.

Per il cetriolo, invece, è consigliato questo taglio:

Sbucciare il cetriolo in maniera alternata, come nella prima foto. Dopodiché affettarlo diagonalmente a fette sottili. Una volta ottenute le fettine sottili, impilarne un po’ per volta e tagliarle a striscioline tipo julienne.

Cottura degli spaghetti cinesi

Mettere a bollire dell’acqua in una pentola, senza aggiungere sale. Quando l’acqua inizierà a bollire, calare gli spaghetti (circa 100g a testa). Seguire le indicazioni riportate sulla confezione ricordandosi però di mirare ad una cottura al dente.

Scolare e risciacquare subito sotto acqua fredda. Lasciare da parte.

Ci siamo quasi!

Adesso è arrivato il momento di assemblare il piatto.

Tutto pronto per l’assemblaggio!

Scegliete due bei piatti capienti. Dividete subito gli spaghetti in due porzioni e metteteli al centro di ogni piatto. Dopodiché iniziate a decorare con il resto degli ingredienti.

Ricordatevi di disporre in maniera ordinata le guarnizione in modo che si crei un bel gioco di forme e colori. Nella cucina giapponese l’occhio vuole sempre la sua parte!

Manca solo la Tare!

Quando siete pronti per mettervi a tavola, potete tirare fuori la Tare dal frigo. Verificate che si sia raffreddata per bene.

Ora non resta che condire la vostra hiyashi-chūka con la gustosissima salsa!

Che meravigliosa delizia!

Come potete vedere, si tratta di un piatto più lungo a spiegarsi che a farsi. E soprattutto, si tratta di un piatto che permette veramente molte modifiche sulla base dei propri gusti personali.
Se optate per una versione vegetariana, saltate il brodo di pollo e usate quello vegetale. E se optate per una versione vegana, fate lo stesso oltre a evitare il kinshi-tamago: potrete sbizzarrirvi con tanti altri ingredienti colorati.

Per concludere

Questo piatto vi stupirà per la sua bontà, freschezza e versatilità. Il suo sapore, dato prevalentemente dalla Tare, sarà l’elemento distintivo che saprà ricatapultarvi nelle estati giapponesi se le avete già vissute. Diversamente, saprà farvele immaginare molto bene.

Mi piace pensare che anche il grande Tanizaki si sia lasciato ammaliare da un buon piatto di hiyashi-chūka nelle torride estati di Tokyo e Yokohama. D’altronde lui era un grande amante della cultura e della letteratura cinese. Pensate che passò molto tempo in uno dei primi ristoranti cinesi di Tokyo, il Kairakuen di Nihonbashi, di cui era proprietaria la famiglia del suo caro amico Sasanuma Gennosuke.

Itadakimasu!

Ramune e cerulee ombre

Sprofondo nella morsa rovente di questi giorni d’estate anelando anche solo ad uno sbuffo di vento ristoratore. Sembra un copione che ciclicamente si ripete: arriva il caldo e quasi ci si dimentica cosa significa avere freddo. E viceversa.

Illustrazioni di due classiche bottigliette di Ramune. Immagine di いらすとや
Ramune

E in questi incandescenti pomeriggi d’estate in cui persino il peso specifico dell’aria sembra non essere più lo stesso, ripenso alle estati giapponesi. In particolare, ripenso ad alcuni elementi che la caratterizzano e che possiamo facilmente ritrovare anche qui.

Tra i vari, sicuramente c’è la ラムネ ramune: leggendaria bibita gassata che ha l’inconfondibile sapore del Giappone estivo.

Dalla mia cucina a Sagamihara: due bottiglie di Ramune ghiacciate e un indispensabile ventaglio uchiwa.

Che cos’è la Ramune?

La Ramune è indubbiamente uno dei simboli dell’estate giapponese. Se avete trascorso del tempo in Giappone d’estate sicuramente l’avrete assaggiata.

È una bevanda diventata famosa anche all’estero grazie al contributo principalmente di manga e anime di cui – lo sottolineo nuovamente anche a costo di sbalordire qualcuno – sono una totale inesperta.
Ebbene sì, si può essere giapponesisti senza bisogno di essere appassionati di uno o dell’altro.

Si tratta di una bevanda gassata dolce che potrebbe vagamente ricordare la nostra gazzosa. Sottolineo il vagamente perché, in effetti, la Ramune ha un suo profumo ed un suo sapore unici e inconfondibili.

Ramune freddissime, nella mia cucina a Sagamihara.

Il nome Ramune pare derivare dall’inglese lemonade. Tuttavia, nel giapponese moderno la limonata è una bevanda ben distinta dalla Ramune ed è conosciuta come レモネード remoneedo.

Una classica remoneedo. Immagine di いらすとや

Una bottiglia assai particolare

Senza dubbio una delle caratteristiche più curiose della Ramune è la sua bottiglia chiamata Codd, dal nome del suo inventore. Si tratta, infatti, di una bottiglia di vetro con collo stretto, sigillata da una biglia di vetro. Quando si vorrà gustare la bevanda, sarà necessario quindi spingere questa biglia verso il basso aiutandosi con un apposito spingitappo incluso in ogni bottiglia.
A questo punto, la bellissima biglia trasparente scivolerà nel collo della bottiglia dove, col movimento, produrrà il tipico tintinnio che è sinonimo di spensieratezza e di torride estate giapponesi che però si vorrebbe non finissero mai.

Nell’estate del 2020 avevo realizzato un semplice video dove potete vedere come si apre appunto una Ramune.

Come aprire una bottiglia di Ramune. Video realizzato da Biancorosso Giappone. Se lo volete riutilizzare per favore chiedetemi il permesso.

E in quest’altro brevissimo video potrete invece sentire il caratteristico tintinnio prodotto dalla biglia scivolata giù nel collo della bottiglia. Per descrivere questo suono i giapponesi attingono dal loro ricchissimo repertorio di espressioni onomatopeiche scegliendo la parola カランカラン karan-karan (ma anche カランコロン karan-koron).

Karan-karan!
Video di Biancorosso Giappone. Se lo volete utilizzare per favore chiedetemi il permesso.
Una Ramune freddissima: l’ideale in un afoso pomeriggio d’estate!

Ma qual è la sua storia?

Ormai credo abbiate imparato a conoscermi e sappiate quanto mi piace andare a scavare nel passato delle cose. Forse perché così facendo si ritrova una tridimensionalità che spesso il passato tende ad inghiottire.

Le teorie, anche qui, abbondano.

È diffusa la credenza secondo cui la limonata come bevanda abbia fatto il suo ingresso ufficialmente in Giappone con l’arrivo del famoso (o famigerato?) Commodoro Perry nell’estate del 1853. Fu in quel lontano luglio di metà Ottocento che l’ufficiale americano di marina, originario del Rhode Island, approdò in un Giappone ancora immerso nel Periodo Edo gettando le ancore nella Baia di Uraga, a Kurihama (nell’attuale Yokosuka, Kanagawa) con le temute 黒船 kurofune o navi nere.
La questione fu complessa ma è risaputo che fu l’arrivo del Commodoro a sigillare la fine dello shogunato Tokugawa, del Periodo Edo e – di fatto – del Vecchio Giappone.



Ho menzionato più volte il Commodoro Perry in relazione a questo delicato e doloroso capitolo della storia giapponese. Potete leggere qui e qui.

Ritratto del 1854 del Commodoro Perry, ad opera di un artista giapponese rimasto sconosciuto. Il titolo originale dell’opera è piuttosto laconico: “Ritratto di Perry, un nordamericano”.

Si dice che il Commodoro avesse grandi scorte di limonata a bordo delle sue navi nere, come rimedio per l’equipaggio contro lo scorbuto e che, una volta approdato in Giappone, ne avesse offerta a degli ufficiali dello shogunato. Questi, secondo pettegolezzi storici, rimasero sorpresi nell’udire il botto all’apertura dei tappi.

Secondo queste indiscrezioni storiche, pare che la limonata anti-scorbuto del Commodoro piacque a tal punto che la ricetta rimase in circolazione in Giappone per molto tempo. Non si sa né come né chi la conservò ma ad un certo punto emerge un altro nome anglosassone, quello di Alexander Cameron Sim. Il dottor Sim era uno scozzese stabilitosi nella città portuale di Kōbe, nella baia di Ōsaka, e proprietario di una farmacia in cui nel 1872 iniziò la vendita della famosa bevanda.
Una storia che ricorda molto quella del farmacista statunitense Caleb Bradham il quale, alcuni anni dopo, avrebbe dato inizio alla vendita della Brad’s Drink, nella Carolina del Nord, come rimedio contro l’indigestione. La Brad’s Drink sarebbe diventata la celebre Pepsi.
La limonata proposta del dottor Sim, tuttavia, era famosa come rimedio contro il colera.

La Ramune oggi

Una Ramune contemporanea. Chissà cosa ne penserebbe il Commodoro?

La produzione e la commercializzazione delle bevande gassate nelle bottiglie di Codd, tuttavia, non ebbe molto successo con altri tipi di bibite. Insomma, il privilegio di poter risiedere in una bottiglia col collo stretto e una biglia al suo interno resta della Ramune che viene ancora venduta così.

La Ramune originale si riconosce dalla tonalità blu chiara o azzurra della bottiglia e dell’etichetta. E la si riconosce, naturalmente, assaggiandola per questo suo sapore caratteristico decisamente difficile da spiegare a chi non lo conosce. È un incontro tra lo zucchero filato, la fragola, il bubblegum e una fugace scia di limone.

Negli anni, tuttavia, sono stati introdotti altre versioni della Ramune, sempre nell’inconfondibile bottiglia di Codd. Una rapida occhiata ai dati aggiornati e scopro che siamo oltre i cinquanta gusti diversi!
Tra questi, ne ricorderò solo alcuni partendo dai più classici: pesca, arancia, mela verde, mango, melone, fragola, tè verde, banana, kiwi, vaniglia, ciliegia. Tra i gusti decisamente più inconsueti ritroviamo le Ramune al curry, al wasabi, al polpo, alla salsa teriyaki e alla zuppa di mais.

Queste stranezze in fatto di gusti mi ricordano il bizzarro museo del gelato di Sunshine City ad Ikebukuro, Tokyo, dov’è possibile assaggiare ed acquistare gelati ai gusti più impensabili. Si va dai classici vaniglia, cioccolato e fragola e si arriva ai gusti seppia, risotto al formaggio, lingua di mucca e ali di pollo.

Dove trovare le Ramune in Italia?

Senza bisogno di spingersi in direzione di queste versioni per temerari, vi starete chiedendo dove poter acquistare la classica Ramune blu in Italia.

Andrete quasi certamente a colpo sicuro cercando in uno dei market di alimentari asiatici della vostra città, soprattutto se ben fornito e se tratta anche prodotti giapponesi. Se avete una Super Coop o Ipercoop nella vostra città chiedete anche ai punti vendita Warai che spesso sono ospitati al loro interno.
Warai è una realtà giapponese piuttosto interessante che si è affacciata sul mercato italiano solo pochi anni fa.

In alternativa, cercate nei reparti etnici dei grandi supermercati. Infine, se proprio non doveste trovarle, sicuramente potrete acquistarle online come ad esempio da Ethnic World.

Una classica Ramune freschissima!

A Torino

Se abitate a Torino allora non avrete difficoltà a soddisfare la vostra curiosità. Potrete rivolgervi ai punti Warai presso le Coop di Via Botticelli oppure di Via Livorno.
Altrimenti potete fare come me andando da UniMarket di Via Milano, 20. E se avete tempo, potrete andare a curiosare negli altri negozi di alimentari asiatici della zona di Porta Palazzo (area che io chiamo affettuosamente la malconcia Chinatown torinese).

Ramune al melone

Nel mio consueto giro in solitaria per la malconcia Chinatown torinese, mi sono fermata da UniMarket proprio per acquistare una Ramune. Le classiche però erano tutte finite! E così ne ho scelta una diversa dal solito ma sempre di un gusto che fa parte del pantheon papillare nipponico: il gusto melone.

Ecco la mia Ramune verde coi meloni sorridenti di Yubari!
Sull’etichetta la dicitura メロン味 meron-aji cioè gusto melone. E in foto vedete anche uno dei sottobicchieri della cara Megumi di cui vi parlerò molto presto.

E le ombre cerulee?

Sono le ombre del passato che rievochiamo col ricordo. Un ricordo che a volte zampilla perché richiamato da un profumo, da una canzone, da un’immagine.

Le chiamo cerulee perché quelle di oggi sono riaffiorate sulla scia del celeste limpido delle bottiglie di Codd delle Ramune.

La Ramune non è solo una bevanda estiva ma è quasi un’istituzione. È il sapore dei bei tempi andati. Non è un caso che spesso sulle etichette ci siano frasi che rimandino proprio al senso di nostalgia che il sapore di questa bevanda sa invariabilmente far riaffiorare.

Tipica lanterna dei matsuri. Il carattere bianco è proprio quello della parola matsuri.

Le Ramune sono anche le bevande irrinunciabili dei 祭り matsuri estivi. I matsuri sono feste tradizionali giapponesi di origini shintoiste. Ve ne sono tantissimi in tutto il Giappone e in tutte le stagioni. Ogni città, inoltre, generalmente vanta dei propri matsuri che riflettono usanze e tradizioni locali.
I matsuri si compongono di vari elementi d’intrattenimento: dalle bancarelle di buon cibo (le specialità gastronomiche dei matsuri meriterebbero un approfondimento a parte) alle processioni con l’Omikoshi. Nel mezzo, spettacoli pirotecnici e intermezzi musicali.

Se avete piacere, QUI potete leggere un mio resoconto di un matsuri a me molto caro: il 相模大凧祭り Sagami Ōdako Matsuri ossia il Festival dell’aquilone gigante. Di questo matsuri conservo ancora uno degli aquiloni!

Saku-chan

Nei miei anni in Giappone ho partecipato a tanti matsuri: da quelli locali come quello degli aquiloni ai più distanti, come quelli di Kyōto. Ho partecipato addirittura a matsuri per così dire inconsueti, come quelli che si svolgevano all’interno delle basi militari americane. Quelli erano matsuri dalla funzione riappacificante, a mio parere. Erano anche modi per avvicinare gli americani alla cultura locale senza varcare i perimetri della base. Non gli era di certo impedito oltrepassarli ma spesso i limiti esistevano nella loro testa. Non potete immaginare quanti americani ho conosciuto che hanno vissuto il Giappone da dietro due tipi di muri: quelli della base e quelli della mente.

E io ho conosciuto le basi perché ci ho vissuto. Anche questo potrebbe essere un argomento da affrontare un po’ per volta. Chissà. Certamente, nel mio caso, s’intreccia anche col Giappone perché è stata una realtà che mi ha accompagnata anche lì per quanto l’abbia tenuta a debita distanza. Ho voluto vivere il Giappone a trecentosessanta gradi, senza l’ingerenza di quel microcosmo complicato.

Però per me i matsuri saranno sempre legati alla mia cara Saku-chan, amica preziosa. Saku è una persona molto allegra di natura ma durante i matsuri diventa ancora più vivace e piena di brio. Si diverte a mettersi yukata coloratissimi e ad acconciarsi i suoi lunghi capelli nelle fogge più birbanti possibili, alternando ciocche di colori stravaganti e certamente inaspettati.

I più bei matsuri sono quelli a cui ho partecipato assieme a lei. Senza dubbio. Come quello degli aquiloni. Oppure l’Atsugi Ayu Matsuri, a due passi dalla stazione di Hon-Atsugi, naturalmente nel Kanagawa.

Lei e suo marito condividevano un grande entusiasmo per i matsuri. Lui, infatti, non si perdeva mai una processione dell’Omikoshi. L’Omikoshi è un grosso palanchino che, secondo le credenze shintoiste, ospiterebbe al proprio interno la divinità locale. Il palanchino, pesantissimo e di dimensioni ragguardevoli, va portato in spalla da un folto gruppo di persone che si fanno coraggio e si incitano a vicenda all’urlo di わっしょい Wasshoi!

Illustrazione di un omikoshi sorretto a spalla al grido di Wasshoi!

Ma per partecipare attivamente alle processioni non è necessario portare in spalla l’Omikoshi ma ci si può rendere utili in altro modo. Ad esempio, dando supporto intonando cori o prendendo parte ai wasshoi continui.

E Saku, esperta indiscussa dei matsuri e di tutta l’etichetta che li riguarda, mi regalò un giorno questo libro:

Due regali di Saku-chan: un libro speciale e la kinchaku estiva, adatta ai matsuri!

Sulla copertina del libro, lo avrete già intuito, è raffigurato un Omikoshi. Ebbene, si tratta di un manuale per imparare come essere il partecipante perfetto alle processioni! È un libro molto carino e riccamente illustrato ma che riesce sempre a farmi morire dal ridere per la curiosa specificità del tema trattato.
Insomma, solo Saku avrebbe potuto regalarmi un libro così!

Assieme al libro vedete anche una 巾着 kinchaku, ossia la tipica borsetta di cotone leggero con i decori tipici dell’estate. I disegni e i colori della stoffa richiamano quelli degli yukata che generalmente si indossano ai matsuri estivi.

Illustrazione di una ragazza giapponese abbigliata con yukata e kinchaku. Pronta per il matsuri!

Qui di seguito, un collage con una selezione di alcune pagine di questo spassosissimo libro del perfetto partecipante alle processioni dei matsuri:

Alcune pagine del libro 『はじめてのお祭り応援ブック』Hajimete no omatsuri ōen bukku. Primo manuale di supporto ai matsuri.

Una pletora di consigli molto dettagliati su come intrecciare la paglia dei sandali, come annodare correttamente le cinture, come sventolare le bandiere e come reggere dignitosamente le lanterne. Vi sono addirittura istruzioni per il lavaggio di ogni singolo capo!

Passavano così i nostri matsuri insieme. Saku ed io. Dopo lunghi tratti di processione in cui lei e il marito si scatenavano, ogni tanto ci fermavamo alle bancarelle a prenderci le mele caramellate e a stappare bottiglie freddissime di Ramune.

Illustrazione delle caratteristiche りんご飴 Ringo-ame, mele caramellate, tipiche delle bancarelle dei matsuri estivi.

Ritorno al presente. Le ombre cerulee sono sgattaiolate via. Resta però la dolcezza del ricordo e il profumo innocente e fruttato di Ramune che, dopotutto, è davvero la fragranza della nostalgia.

Ramune

Kohi-zeri

Le giornate roventi che già ci accompagnano da qualche settimana mi hanno lentamente inghiottita in un vortice di ispirazione e spossatezza. Questa insolita miscela ha generato un alternarsi di sonnolenza da 夏バテ natsubate (ve ne parlai qui) e sprazzi di idee.


Questi sono gli effetti su di me dell’estate. Una sorta di valzer tra emozioni e stati contrastanti.

Natsubate

Nell’incandescenza di queste abbaglianti giornate torinesi penso, onestamente, a tante cose. Nella mia mente si ripete quel ciclico valzer che ora mi culla nel torpore di una malìa canicolare e ora mi porta le idee più svariate.

Osservo intensamente un ritaglio di cielo tersissimo adornato da nuvole bianche che sembrano la soffice essenza della spensieratezza di un tempo.

Retro-fantasticherie

I miei pomeriggi d’estate in Giappone scorrevano con particolare lentezza. Spesso andavo in esplorazione di posti a caso, rinfrancandomi nella frescura dei treni o dei grandi magazzini. Altre volte, invece, mi rifugiavo nel refrigerio della mia casa blu coi suoi condizionatori in ogni stanza. E in quei torridi pomeriggi a casa mi lasciavo ogni tanto incantare dalle proposte cinematografiche di un canale di cui ricordo ancora il jingle.

Kayama Yūzō in una foto del 2021. Foto di proprietà di Ikehata Naoaki.
文部科学省ホームページ, CC BY 4.0,

Fu proprio in uno di quei pomeriggi di sole cocente, di quell’afa indimenticabile scandita dal canto incessante delle cicale e del refrigerio del mio salotto che rimasi incantata per la prima volta dai film di 加山雄三 Kayama Yūzō.
Kayama Yūzō, famoso cantante, cantautore e attore originario di Yokohama, negli anni Sessanta ottenne grandissimo successo con una serie di film conosciuti come 若大将シリーズ Wakadaishō-shirīzu.
In questi film Kayama interpreta il giovane Tanuma Yuichi, conosciuto da tutti però col soprannome di Wakadaishō che significa giovane leader ma può anche indicare un brillante giovane di talento. E in questo caso il giovane Yuichi dà prova delle sue invidiabili capacità soprattutto in ambito sportivo suscitando così l’ammirazione delle ragazze ma anche l’invidia dei suoi rivali. In particolare, Wakadaishō ha un antagonista, Ishiyama Shinjirō, soprannominato non a caso 青大将 Aodaishō che è un particolare tipo di serpente nativo del Giappone.

Ecco lo splendente e fiero Wakadaishō puntualmente attorniato da fanciulle innamorate. E l’immancabile ed invidioso Aodaishō. Questa è la copertina di un volume della raccolta dei film della serie, intitolato: 日本一の若大将 Nippon ichi no wakadaishō.

Tuttavia, Kayama non è solo un attore ma anche un bravissimo cantautore che ha saputo dare un prezioso contributo al panorama musicale giapponese di quegli anni. Nei film, infatti, non è un caso che il Wakadaishō non fosse solo un prodigio dello sport ma anche un cantante molto apprezzato. Insomma, un vero giovane leader a trecentosessanta gradi. Il povero Aodaishō non avrebbe mai potuto superarlo.

Qui una scena di uno dei film della serie in cui vedrete il nostro Wakadaishō mentre suona e canta un brano intitolato 夜空の星 Yozora no hoshi (Stella del cielo notturno). E vedrete anche Aodaishō alle prese con i suoi soliti tentativi di far sfigurare il suo acerrimo rivale.

Altre fantasticherie d’antan

In questo giocherellare con le nostalgiche suggestioni che zampillano nei bollenti pomeriggi di questo giugno ormai alla fine, ripenso al mondo spensierato del Wakadaishō e alle sue luccicanti melodie. E ripenso a quel mondo di cui arrivavano già assaggi e sprazzi anche attraverso la nostra stampa.

E senza nemmeno farlo apposta, fu proprio in un pomeriggio d’estate di quel tormentato 2011. Non era passato molto dal mio ritorno dal Giappone. Ero qui a Torino, nel mio quartiere di nascita, a passeggiare per le sonnacchiose vie che conosco come le mie tasche. Entrai in un negozio ormai scomparso. Era uno di quei rigattieri che cercava di ridare vita – o quantomeno lustro – a oggetti rimasti orfani.

Pochi euro in tasca, il volto accaldato, lacrime trattenute a forza e dentro di me la desolazione della solitudine.

Decisi di perdermi per qualche istante in quel mondo di oggetti appartenuti a chissà chi e con chissà quale storia da raccontare. In quel luogo semi-illuminato e impregnato dell’odore caratteristico delle cose usate: la fragranza dolciastra della carta mescolata a vaghi residui di candeggina impigliata nelle fibre di abiti smessi. Poi un richiamo persistente di polvere e tracce di muffa di qualche cantina.

In un enorme scatolone traboccante di carta ingiallita ecco una pila di vecchie riviste italiane. E da lì spuntò questa:

Rivista Epoca del 23 novembre 1958

Sfogliare questa vecchia rivista grandissima e dalla carta liscia e spessa è un vero viaggio proustiano. E da pagina 72 ecco un ritratto di un Giappone di fine anni Cinquanta, firmato da Alfredo Panicucci. Uno sguardo sulla Tokyo di quegli anni e alle abitudini dei giapponesi in fatto di intrattenimenti. E penso a quanto informazioni di questo tipo debbano aver sorpreso i lettori italiani di certo non abituati ad un flusso bombardante e continuo di notizie da ogni dove.

Straordinaria veduta notturna di una Tokyo perlopiù scomparsa.

Una delle foto dell’articolo ritrae dei pasticceri di un laboratorio dell’immensa capitale. La descrizione non specifica in maniera esatta ma a giudicare dal tipo di pastella e di stampo utilizzato sembra proprio che i due uomini siano impegnati nella preparazione dei deliziosi 今川焼き Imagawayaki, dei piccoli pancake spessi ripieni di marmellata di azuki o crema pasticciera, serviti caldissimi.
La didascalia, però, arricchisce l’esperienza immaginifica rivelando che “l’odore di Tokio è un misto di profumo dolciastro di biscotti, di pesce crudo, di pepe, di acqua stagnante nei canali scoperti”.

Collage con una selezione dell’articolo di Epoca dedicato a Tokyo.

Kohi-zeri: qualche curiosità storica

In questa atmosfera dal profumo di tempi andati, sulle note delle melodie di Kayama Yūzō e di Wakadaishō penso che non ci possa essere ricetta migliore per addolcire questi bollenti pomeriggi d’estate se non la コーヒーゼリー kōhī-zerī.
Potreste ascoltare, ad esempio, 夕陽は赤く Yūhi wa akaku (Il tramonto è rosso) proprio qui. Oppure 旅人よ Tabibito yo (Il viaggiatore) qua.

La mia kōhī-zerī

La ricetta di oggi, dunque, ha origini decisamente recenti. Questa volta nessun collegamento, dunque, col mio amato Periodo Edo. Infatti, siamo storicamente in pieno Periodo Shōwa (1926-1989). Quindi, per rintracciare le radici di questo dolce non dobbiamo andare troppo indietro nel tempo. E comunque non sarà difficile farlo perché ci siamo già immersi in quel bouquet di sensazioni e suggestioni del Giappone di fine anni Cinquanta, inizi anni Sessanta.

Perché è quella l’epoca.

La kōhī-zerī – o gelatina al caffè – (adattamento del termine inglese coffee jelly) è un dolce arrivato in Giappone non si sa esattamente in quale anno ma suppergiù siamo nell’epoca rievocata dal Wakadaishō e da Panicucci.

Questo per quel che riguarda il Giappone. Eh sì, perché questa gelatina al caffè pare sia emersa da un vecchio ricettario inglese dei primi dell’Ottocento per poi riaffiorare circa un secolo dopo in America, nello stato del New England.

E dal New England al Giappone. Come sia avvenuto questo salto resta un mistero. Vi sono teorie su teorie inframezzate da notizie sospese tra immaginazione e realtà. C’è chi sostiene che la ricetta fece ingresso in Giappone in seguito ad un contributo pubblicato nel 1914 sullo Yomiuri Shinbun in una rubrica di una studentessa giapponese che aveva studiato economia domestica in America. Tuttavia, sembrano non esserci tracce di questa rubrica. Continuerò a cercarle.

Un’altra teoria invece fa risalire l’origine ad un tempo ben più recente quando la Mikado, azienda di torrefazione con sede a Nakano (Tokyo), lanciò nel 1963 un prodotto astutamente chiamato 食べるコーヒ Taberu-kōhī (caffè da mangiare). Questo nome molto accattivante servì a far conoscere questa gelatina di caffè servita, come vedremo, con panna.

Al giorno d’oggi la gelatina al caffè in America è un dolce ormai dimenticato. Ne sopravvive il ricordo solo nel New England dove comunque è legato ai sapori d’antan.

Illustrazione della nostalgica gelatina giapponese al caffè. Fonte.

In Giappone continua ad essere un dolce apprezzato, soprattutto in estate, pur mantenendo un’aura retrò che però contribuisce a renderlo intramontabile. Lo si trova soprattutto nelle vecchie caffetterie 喫茶店 kissaten ma anche nei コンビニ konbini aperti 24 ore su 24.

La realizzazione di questo dolce è semplice e richiede pochi minuti.

Vediamo la ricetta.

Ricetta: Kōhī-zerī

Gli ingredienti necessari

INGREDIENTI PER 2 PERSONE
300ml d’acqua
6g di agar-agar (o kanten – gelatina vegetale)*
2 cucchiai di zucchero
1 cucchiaio di caffè solubile**
Panna liquida (o montata)***

Serve anche: una piccola pirofila di vetro o ceramica o altri contenitore squadrato.

*L’agar-agar è una gelatina vegetale ricavata da alcune varietà di alghe. La ricetta originale inglese della kohi-zeri prevedeva la gelatina bovina. In Giappone al giorno d’oggi si usa anche la gelatina animale ma la versione a base di agar-agar è ugualmente molto diffusa perché quest’ultimo è un ingrediente della tradizione nonché essenziale nella pasticceria giapponese classica.
In commercio vi sono vari tipi di agar-agar e ognuna ha caratteristiche, preparazioni e dosaggi propri quindi fate attenzione. Io ho usato un agar-agar comunemente in commercio nella grande distribuzione italiana e di cui vi metto la foto. Mi raccomando, attenetevi alle dosi indicate dal produttore. In linea di massima, tra gli agar-agar in polvere, quelli italiani sono più blandi e richiedono un dosaggio maggiore rispetto a quelli di produzione giapponese o tailandese. Ecco spiegati i 6g a fronte di soli 300ml di liquido.

Agar-agar in polvere, acquistato in un supermercato a Torino.

**Per quanto riguarda il caffè solubile, usate quello che avete. Preferibilmente però scegliete versioni non zuccherate. Io uso abitualmente questo:

Caffè solubile tedesco del marchio DM. Senza zucchero.

***Per la panna: tradizionalmente nella kohi-zeri si mette la panna liquida. Potete però optare per della panna montata. Se preferite, sperimentate pure con panne vegetali.

PREPARAZIONE

Preparazione della kohi-zeri

In un pentolino versare i 300ml d’acqua e unire i 6g di agar-agar. Mescolare bene e portare ad ebollizione a fiamma media. Far bollire per circa un minuto, continuando a mescolare di tanto in tanto.

Passaggi rimanenti nella preparazione della kohi-zeri.

Trascorso il minuto di ebollizione, spegnere la fiamma e versare il caffè solubile e lo zucchero. Mescolare il composto molto bene. Versare il tutto in una pirofila di vetro o di ceramica o qualsiasi altro contenitore possibilmente squadrato.
Lasciar raffreddare un po’ dopodiché riporre in frigorifero.
La gelatina inizierà a formarsi nell’arco di circa un’ora.

Tagliare a cubetti e trasferirli in coppette. Non preoccupatevi se alcuni si rompono o se sono irregolari.

I miei cubetti di kohi-zeri poco regolari ma molto wabi-sabi!

Io ho usato quegli scodellini di panna per caffè perché sono della dose adatta. Inoltre, il sapore è pressoché identico a quello che ricordo del Giappone quando assaporavo la gelatina al caffè.

Versare quindi la panna direttamente sui cubetti di gelatina e …servire subito!

Se preferite, potete versare il composto liquido in coppette separate e servirle con la panna una volta raffreddatesi, senza bisogno così di tagliare la gelatina a cubetti.

La mia squisita coppetta di kōhī-zerī abbellita con il sottobicchiere di Megumi! Ahhh, vi parlerò di Megumi prossimamente.

Provatela anche voi. Sono sicura che vi piacerà.

Concludo questo viaggio Shōwa-retro con due domande: da dove mi seguite? E perché mi leggete?
Sono curiosa. Le statistiche mi restituiscono una situazione di lettori sparpagliati un po’ ovunque ma ovviamente concentrati nella nostra splendida Penisola. E però vorrei sapere chi siete e conoscervi.
Se avete piacere, lasciatemi un commento.

Zaru-soba

Un mazzetto di soba. Questi mazzetti si chiamano  一束 hitotaba. Si usa questa parola per riferirsi ad un mazzetto. Taba è il classificatore per i mazzetti di qualcosa (tipo soba, fiori ecc.). いらすとや

Ho pensato molte volte a quale sia il mio piatto giapponese preferito in assoluto e – devo confessarlo – non è mai stato semplice individuarne solo uno. La cucina giapponese tutta mi ha conquistata giorno dopo giorno, lasciando dietro sé ogni volta il desiderio crescente di continuare a scoprirla.

Tuttavia, seppur con notevole difficoltà, posso annoverare due specialità tra i miei piatti prediletti: il 鉄火丼 tekkadon e la ざる蕎麦 zaru-soba. Il primo è uno dei donburi (scodelle di riso al vapore guarnite con ingredienti vari) più noti dove l’ingrediente principe è sashimi di tonno marinato. Della seconda, beh, vi racconto qualcosa oggi.

Illustrazione di un invitante 鉄火丼 tekkadon.

Per quanto la cucina giapponese sia ricchissima di specialità forse più vicine come sapori e consistenze alle nostre cucine occidentali, mi sento molto attratta dai sapori più lontani.

Sarà la mia insaziabile passione per il periodo Edo ma a me sembra proprio di rintracciare in questi due piatti degli indizi olfattivi e papillari di un’epoca che amo profondamente.

Soba: precisazioni linguistiche

Nei tanti scritti che ho pubblicato negli anni ho dedicato molti pensieri sparpagliati a questo alimento che amo così tanto.

Hitotaba di soba di Kumamoto. In particolare, questa è soba stile inaka ossia di campagna.

Innanzitutto, bisogna subito fare una precisazione linguistica: il termine giapponese soba (in hiragana: そば e in kanji: 蕎麦) si può riferire sia al grano saraceno come pianta sia agli spaghetti preparati con la farina da esso ricavata.

A voler essere precisi, c’è un terzo significato: il termine soba può riferirsi anche ad alcuni spaghetti che però non contengono grano saraceno. Si pensi, ad esempio, agli spaghettini di grano tenero in stile cinese usati per la yakisoba. Ecco, il nome stesso contiene il termine soba che però verrà sempre scritto in hiragana e non kanji proprio per sottolineare l’assenza di grano saraceno.

Tipica confezione di spaghettini cinesi usati per la yakisoba.

Un altro esempio di soba non soba è una delle specialità della magnifica Okinawa: la Okinawa-soba 沖縄そば chiamata anche sōki ソーキ. O suba (soba) nel dialetto locale. Un piatto di chiare origini cinesi a base di spaghetti di grano tenero in brodo con costolette di maiale in agrodolce.

Illustrazione di una scodella di Okinawa-soba o Sōki-soba.

Soba: assaggi storici

La storia del grano saraceno in Giappone vanta origini antiche che però, come spesso accade con le cose dei tempi andati, sono avvolte in una coltre di dubbi e divergenze teoriche.

Si dice che sia stato introdotto in Giappone dalla Cina verso la fine del remotissimo periodo Jōmon 縄文時代 (10.000 a.C. – 300 a.C.) e abbia mantenuto una discreta popolarità ancora fino al periodo Nara 奈良時代 (710 d.C. – 794 d.C.) grazie alla capacità di questa pianta di attecchire anche in terreni particolarmente aridi. La coltivazione del grano saraceno serviva soprattutto come alternativa di emergenza nei periodi di raccolti scarsi di riso. Per questa ragione, si diffuse particolarmente tra i contadini, soprattutto nelle zone più montagnose.

Questo legame con il mondo contadino avrebbe assegnato alla soba (sia la pianta prima sia gli spaghetti poi), secondo alcuni, una sorta di aura spirituale: la sua provenienza da una realtà frugale ed essenziale per definizione li ha resi il pasto ideale per molti monaci zen che in essa vedevano la quintessenza di una dignitosa umiltà. Il legame tra la soba e lo zen si rafforzò poi soprattutto nel periodo Edo quando nei templi iniziarono a svolgersi le operazioni di macinatura del grano saraceno e la preparazione stessa degli spaghettini di soba (sobakiri). Queste erano operazioni che richiedevano grande concentrazione, disciplina, rigore e silenzio.

Sembra, comunque, che nel periodo Nara il grano saraceno non venisse usato ancora per la produzione degli spaghetti che conosciamo. Pare, infatti, che della pianta si consumassero i chicchi bolliti mentre con la farina si preparassero delle specie di gnocchetti.
Il concetto di spaghetto fu introdotto, sempre dalla Cina, tra i periodi Nara e Kamakura 鎌倉時代 (1185 d.C. -1333 d.C.) ma la novità gastronomica ci mise del tempo a diffondersi forse anche a causa delle forti instabilità politiche tipiche di quell’epoca. La soba spaghetto, infatti, rimase piuttosto dietro le quinte almeno fino alla fine del periodo Muromachi 室町時代 (1336/38 d.C. – 1573 d.C.).

Soba nel Periodo Edo

Gli spaghetti di grano saraceno avrebbero ricevuto la notorietà che meritano solo nell’arco del mio amato periodo Edo 江戸時代 (1603-1868 circa). Questi spaghetti – noti al tempo anche col termine di 蕎麦切り sobakiri – diventarono uno dei piatti più diffusi. Edo (l’antica Tokyo), dopo l’unificazione del Giappone sotto lo shogunato Tokugawa nel 1603, divenne la capitale del Paese. Era una città effervescente e in pieno sviluppo. Essa accoglieva persone da ogni parte del Giappone che qui si stabilivano per ragioni principalmente di lavoro. Si dice che la maggior parte dei ristoranti dell’epoca chiudesse intorno alle 22 (ossia intorno all’ora del Cane, secondo l’antico orologio Edo) e che da quell’ora in avanti ci fossero perlopiù venditori ambulanti di soba che divennero sempre più numerosi.

Questi banchetti ambulanti si chiamavano yotaka-soba 夜鷹蕎麦: il termine yotaka in origine indicava una prostituta illegale cioè operante al di fuori del quartiere dei piaceri di Yoshiwara. Inizialmente, infatti, queste attività di soba notturna non erano autorizzate. Alcuni studiosi sottolineano però che il termine fa riferimento anche all’abitudine di queste prostitute non di Yoshiwara di fermarsi a mangiare la soba a notte fonda.

Ukiyo-e di Utagawa Kunisada raffigurante delle yotaka che acquistano della soba calda, in una fredda notte d’inverno. L’artista sembra aver voluto raffigurare queste donne con particolare attenzione e forse compassione vista la loro indigenza (alcune di loro sono scalze). Forse sono solo i miei occhi a vedere questo ma mi sembra proprio di percepire un riguardo dell’artista nei confronti di queste donne in fondo costrette a vendere la primavera per vivere (espressione giapponese che significa, appunto, prostituirsi). 春を鬻ぐ

I venditori ambulanti di soba si riconoscevano anche grazie a dei banchetti che questi trasportavano direttamente in spalla. Questi banchetti si chiamavano yatai 屋台.

Ultimi cenni storici

Venditore di soba con la tipica bancarella trasportabile in spalla. Fonte.

In breve tempo, la soba divenne davvero uno dei piatti più gettonati di tutta Edo perché era gustosa, economica e poi la preparazione del piatto era piuttosto veloce. Questa rapidità nella preparazione si adattava bene – si dice – agli Edokko 江戸っ子 ossia i nativi di Edo, noti per essere poco pazienti e piuttosto iracondi.

Non mi soffermerò sulle tipologie di soba del tempo o sulle differenze enormi tra l’interpretazione di questo piatto secondo la cucina di Edo e quella del Kansai. Sottolineo, però, che ora come allora la soba si consumava sia fredda sia in brodo.

In un futuro – spero non troppo lontano – potrei pensare ad una raccolta di aneddoti gastronomici della bella e spumeggiante Edo.

Ma…chi lo leggerebbe?

Zaru-soba: la ricetta

Dopo questo lungo prologo profumato di storia, arriviamo finalmente alla ricetta.

Condivido con voi la ricetta per la soba fredda, particolarmente amata in estate. Una preparazione analoga vede gli udon, sempre serviti freddi. Scrissi qui a tal proposito.

La ricetta di oggi è semplice, senza troppe pretese. È dunque realizzabile da chiunque.

Prima di iniziare, però, serve una precisazione: la tsuyu, ossia la salsa che accompagna la soba fredda, si prepara generalmente con una base di brodo di pesce. Questa à la versione più comune ed è così che la preparo io. Tuttavia, se non consumate ingredienti di origine animale, tenete presente la possibilità di realizzare la salsa con brodo di funghi (shiitakedashi) o di alghe (konbudashi).
Per la tsuyu ho utilizzato la ricetta dell’amica Risa, autrice dello splendido blog Piece of Oishi.

INGREDIENTI per 2 persone

Ingredienti essenziali per la zaru-soba

circa 200g di soba

Per la tsuyu:
150ml d’acqua
2 cucchiai di salsa di soia
1 cucchiaio di zucchero di canna
1/2 cucchiaino di dashi granulare*

Per gli yakumi o condimenti extra da mettere nella salsa:
1 cipollotto affettato finemente

*Tutte le varietà di dashi giapponese di pesce che incredibilmente trovo nella mia amata Chinatown malconcia torinese: marchi Marutomo, Marushima, Shimaya.

Preparare la tsuyu: unire tutti gli ingredienti necessari (acqua, salsa di soia, zucchero di canna e dashi) in un pentolino. Portare delicatamente ed ebollizione a fiamma dolce e cuocere per un minuto circa. Accertarsi che lo zucchero sia totalmente dissolto. Spegnere la fiamma e conservare in un luogo tiepido.

Prepare gli yakumi: affettare finemente il cipollotto. Ci vorrebbero anche dei buoni myōga o zenzero giapponese ma sono introvabili. Io ho grattugiato del semplice zenzero cinese o shōga.

Per la soba: riempire una pentola d’acqua e portarla ad ebollizione. Non aggiungere il sale poiché questo è già contenuto generalmente nell’impasto della soba.

Cottura della soba

Quando l’acqua bolle, versare la soba e girare con delicatezza. Lasciare cuocere per circa 5-6 minuti o per il tempo indicato sulla confezione. Trascorso il tempo di cottura, scolare e risciacquare immediatamente sotto un getto di acqua fredda. Mi raccomando, non saltate questo passaggio!

Se fa molto caldo, potete servire la soba con qualche cubetto di ghiaccio. Io non ne avevo e quindi ho aumentato i risciacqui (ne ho fatti circa quattro o cinque).

Scolare bene la soba e disporla sui piatti. Versare la tsuyu in bicchierini o coppette (i caratteristici bicchieri da soba si chiamano そば猪口 soba-choko) e disporre gli yakumi su un piattino. Servire subito.

La soba-choko che ho usato per la ricetta. Se non avete le soba-choko usate scodellini, tazze, insomma quello che avete.

Come precisato più su, se avete del ghiaccio servitene qualche cubetto insieme alla soba. Altrimenti accertatevi che sia ben fredda dopo averla risciacquata più volte. Se gradite, potete guarnire la vostra zaru-soba con qualche strisciolina di alga nori, proprio come ho fatto io.

Pura gioia gastronomica: zaru-soba in un giorno rovente qualunque.

Per gustare la vostra soba non dovrete fare altro che intingerne un po’ nella tsuyu dentro cui avrete già messo qualche yakumi a piacimento.

La mia zaru-soba.

Chiudo gli occhi e sono a Edo. Non chiedetemi come. Sono lì.

soba

Moyashi no namuru

Molto della cultura giapponese rispecchia la lodevole capacità di questo popolo di accogliere elementi esterni e integrarli nel proprio modo di vivere. E in cucina questa caratteristica è particolarmente evidente.

Qui su Biancorosso Giappone trovate vari esempi di ricette nate proprio da questi incontri. Penso al recente Mame-gohan, il cliccatissimo Karee-raisu, l’Hayashi-raisu di qualche tempo fa, gli stessi gyōza (parte 1 e parte 2). Ma la lista dovrebbe andare avanti per molto. Basti pensare solo al repertorio di cucina 洋食 Yōshoku, ossia una cucina d’ispirazione occidentale nata intorno al Periodo Meiji.

La ricetta di oggi è un amorevole riadattamento nipponico di una preparazione tipica coreana.

I miei primi assaggi di cucina coreana sono stati durante i miei anni californiani quando vivevo nella magnifica San Diego. Fino a quel momento, lo confesso, non avevo nemmeno idea di cosa mangiassero i coreani. Fondamentali sono stati sia i ristoranti sia i negozi di alimentari coreani sulla Convoy Street.
In Giappone, poi, avrei riscoperto quei sapori andando alla Little Korea, nel quartiere di 新大久保 Shin-Ōkubo a Tokyo, una stazione dopo Shinjuku.

Scattai questa foto proprio dalla stazione di Shin-Ōkubo:

Un pezzetto di Corea nella grande Tokyo!

Se avete piacere di leggere l’articolo che scrissi allora descrivendo un po’ la mia esperienza nella Little Korea vi rimando qui.

Ai miei anni californiani risale l’inizio della mia amicizia storica con Mia, una ragazza di Seoul con cui – pensate – non ho mai perso i contatti! Mi ricordo quanto cercò di invogliarmi a studiare il coreano: mi mandava libri, CD, di tutto! Un po’ invano perché non avrei mai imparato il coreano ma – e chi mi conosce lo può attestare – se voglio fare una cosa riesco a raggiungere livelli di perseveranza simil-ascetici!

Erano tempi ancora non tanto sospetti ed evidentemente percepivo che la mia passione fervida mi avrebbe attesa in un Paese vicino!

Grazie a Mia però mi affezionai al caffè Maxim che sarebbe diventato il mio chiodo fisso per molti anni. Fino a quando, per irreperibilità del prodotto, fui costretta a dimenticarmelo.

Ma la mia amata seppur malconcia Chinatown torinese riserva alla sottoscritta sempre le sorprese più incredibili…

Ebbene sì!

Un tempo me li facevo spedire da Mia ma dopo l’ultima legnata secca di ben settanta euro di imposte doganali per un pacchetto piccolissimo dalla Corea, avevo posto fine alla mia Maxim-mania.

In Giappone avrei incrociato il cammino di un’altra amica coreana con cui, però e con grande rammarico, a differenza di Mia non avrei più rivisto né sentito: Kelly.
Di lei parlerò, un giorno.

Straordinaria Kelly.

Dovrei raccontarvi delle tante persone che hanno incrociato il mio cammino in quei luccicanti anni di Giappone. A molti ho dedicato già ritratti di parole ma non a tutti.
Recentemente ho ripensato ai miei compagni di università: Tecchan, Brandon-san, Shōta-san, e l’incredibile Kelly.

E un implacabile nodo alla gola mi ha sfidata impunemente a trattenere le lacrime. E ho fallito miseramente.

Ricetta: Moyashi no namuru

Arriviamo finalmente a questa ricetta che profuma inconfondibilmente di sesamo e dunque di cucina coreana.

Si tratta di un Namul (giapponesizzato in namuru) cioè di una tipica preparazione coreana a base di una verdura sbollentata e condita in un determinato modo che ora vedremo.
I namul si possono preparare con spinaci, varie verdure in foglia oppure con germogli di soia. Ed è proprio con questi ultimi che ho preparato il mio gustosissimo namuru.
Moyashi, infatti, è il termine giapponese che indica i germogli di soia mentre la parola no è traducibile con la preposizione di. Insomma: namul di germogli di soia.

Illustrazione di una tipica confezione giapponese di moyashi.

Per abitudine mia userò però solo il termine giapponesizzato namuru d’ora in avanti.

Esistono naturalmente molte versioni di namuru ma quella che vi faccio vedere io è forse la più semplice in assoluto.

INGREDIENTI per 2/3 persone (anche di più se lo preparate per il bentō oppure se lo servite in piccole porzioni di contorno)

Ingredienti per un namuru indimenticabile!

250-300g di germogli di soia freschi
2 cucchiai di salsa di soia
2 cucchiai di olio di sesamo*
1 spicchio d’aglio grattugiato o tritato finissimo
un pizzico di sale
pepe nero q.b.

*Qui l’ingrediente principe per davvero è il profumatissimo olio di sesamo che – non posso sottolinearlo abbastanza- è l’elemento coreanizzante del piatto. Senza questo ingrediente, purtroppo, non sarà un namuru.
Attenzione però: serve l’olio di sesamo tostato! Non usate quindi l’olio di sesamo classico che trovate al supermercato perché è praticamente insapore. Quello tostato, invece, è tutta un’altra musica.

Cercate nei vostri negozi di alimentari asiatici di fiducia.

Io uso abitualmente questo, di una marca giapponese:

Un magnifico olio di sesamo tostato giapponese!

La preparazione è talmente semplice da risultare quasi imbarazzante la spiegazione. Ma procediamo.

Iniziamo subito con lo sbollentare i nostri germogli di soia precedentemente lavati e scolati. Tra l’altro, mi sono accorta che quelli che ho acquistato io vengono commercializzati col termine giapponese di Moyashi!

Cottura dei germogli di soia

Portare dell’acqua ad ebollizione in una pentola, aggiungere un pizzico di sale e versare delicatamente i germogli e girarli con garbo. Lasciarli cuocere per quaranta secondi, massimo un minuto! Non di più.
Scolarli e lasciarli raffreddare un po’.

Condimento del namuru

Unire la salsa di soia, l’olio di sesamo, l’aglio grattugiato e il pepe. Mischiare bene il tutto.

Un delizioso namuru pronto in un batter d’occhio!

Versare il condimento sopra i germogli che avrete precedentemente sbollentato e scolato. Va bene anche se sono ancora un po’ tiepidi. Mescolare con cura il vostro namuru e…servire!

Potete guarnire con del sesamo bianco oppure del peperoncino. Oppure ancora del cipollotto verde. Potete sostituire i germogli con una verdura in foglia di vostra preferenza e seguire il resto della ricetta così com’è.

La mia mentore Kyōko-san mi insegnava sempre che i piatti giapponesi non vanno mai riempiti completamente. Bisogna sempre lasciar scoperta una parte del piatto in modo da vederne il colore ed eventuali decori.
Nel caso dei namuru, per esempio, è consigliato sistemare le verdure a mo’ di montagnola.

Ecco il namuru pronto per essere divorato!

Scegliete sempre scodelle e piattini che in qualche modo vi parlino.

Per questo namuru, senza nemmeno farlo apposta – credetemi – ho scelto questa scodellina di ceramica Celadon coreana.

Provate anche voi questo namuru. Vedrete, è particolarmente gradevole soprattutto in estate.

Se vi piacciono i germogli di soia, vi consiglio di dare un’occhiata ad una delle primissime ricette apparse qui su Biancorosso Giappone: il のり酢あえ Norizuae.

Moyashi no namuru

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