In queste ultimi giorni di vera estate e in queste ultime ore prima dell’inizio ufficiale delle scuole, mi trovo qui ancora a boccheggiare in un caldo invadente. Il ventilatore continua nella sua rapida missione ristoratrice e mi domando fra quanto tutto questo diverrà un ricordo.

La mia cara amica è partita una settimana fa e in questi giorni il dolore è stato più forte del previsto. Passerà tanto tempo prima di poterla rivedere. Quanto, esattamente, ancora non lo so. Forse alcuni mesi o forse un anno.

Nel frattempo, però, devo continuare ad onore la mia promessa. E chissà che non sia una sorta di inizio vero e proprio per la mia scrittura. In fondo, scrivo da molti anni attraverso Biancorosso Giappone ma non ho mai dato spazio ai miei racconti.

Questa è la seconda e penultima parte del racconto di Sho che si concluderà con la terza.

Trovate la prima parte proprio qui.

Buona lettura.

Le parole di Sho – seconda parte

Nell’oscurità una figura, muovendosi rapidamente sullo sfondo luminoso della TV muta, si avvicinò a Sho e inginocchiandosi verso di lui cercò di rianimarlo. Non riuscendo a sortire alcun effetto, la figura rapidamente compose il numero dell’ambulanza e attese, assieme a uno Sho che sembrava morto, l’arrivo dei soccorsi.

Insieme attesero in quella strana oscurità rotta solo dalla luce del televisore che continuava a trasmettere immagini mute di campagne italiane. Rimasero così, incastrati in quel momento tra la vita e forse l’assaggio di una morte, con il suo soccorritore lucido ma al contempo così frastornato da non pensare nemmeno di accendere la luce della stanza. 

I paramedici non tardarono a raggiungere l`appartamento di Minato Mirai dove viveva la famiglia Nakamura. 

Quando giunsero all’appartamento di Sho, al dodicesimo piano di un palazzo dalla facciata color caffè, ad accoglierli trovarono Hiroshi. 

Era stato lui, rientrando velocemente a casa dove aveva dimenticato il portafoglio, a trovare il suocero a terra.

Aveva tentato di rianimarlo ma Sho sembrava morto. Senza farsi prendere dal panico, e soprattutto senza avvisare né Akane né Yuko, telefonò subito ai soccorsi. Sapeva che entrambe si sarebbero spaventate moltissimo e preferì risparmiare loro questa angoscia. Almeno, per ora. 

Sho fu portato d’urgenza al Policlinico Yokohama Chuo. Hiroshi seguì il suocero in ospedale dove, seduto in una saletta dalle pareti verde pistacchio, rimase in attesa di un qualche responso da parte dei medici. 

C’era solo una finestra grande che si affacciava sul cortile interno del policlinico. Provò ad aprirla ma sembrava bloccata. Si accontentò di guardare fuori, per quanto possibile. Era buio ormai e si vedevano solo i lampioni del cortile che gettavano una luce fioca sul giardinetto circostante. 

Reminiscenze nell’oscurità

Improvvisamente gli sembrò di percepire in lontananza le inconfondibili note di apertura della Sonata al chiaro di luna di Beethoven. Ma com’era possibile? Da dove potevano arrivare, in un ospedale? e a quell’ora? Girò delicatamente la testa e con lo sguardo tentò di capire da dove arrivasse quella melodia a lui cara. 

Si affacciò sul corridoio e lo percorse per alcuni passi verso l’ala ovest: gli sembrava che il suono provenisse da lì.  

Dita misteriose continuavano a far lacrimare un pianoforte invisibile. 

Si fermò nel corridoio che sembrava farsi sempre più buio. E quella musica che invece cresceva in intensità. E laggiù gli parve quasi di vedere suo fratello, Shigeru, morto all’indomani del suo quindicesimo compleanno dopo essere stato investito mentre andava a lezione di pianoforte. 

Quanto amava questa Sonata! Diceva che era un inno ad un amore e che sperava, un giorno, di poter dedicare alla sua amata. 

Shigeru! – bisbigliò incredulo Hiroshi, mettendosi poi una mano davanti alla bocca per soffocare quella sua reazione assurda ad una situazione impossibile. 

Hiroshi rimase imbambolato lì, in mezzo al corridoio deserto dell’ospedale, mentre cercava di liberarsi dai tentacoli di un’allucinazione. 

La musica, nel frattempo, era cessata all’improvviso. 

Si strofinò gli occhi e inspirò profondamente. Forse era solo molto stanco. 

Tornò davanti alla finestra a osservare quel giardino. Non c’era niente lì. Solo quel lampione, anonime aiuole che forse portavano un po’ di allegria in quel luogo di malattia e sofferenza. 

Consapevolezze

A Hiroshi si riempirono improvvisamente gli occhi di lacrime ed è per questo che continuava imperterrito a tenere lo sguardo rivolto verso quel giardino solitario e inghiottito nell’oscurità; non voleva rivelare la sua inquietudine ad alcuno, certamente non in questo modo.  Non sapeva se stesse piangendo per Hiroshi oppure per quel bizzarro e fugace incontro col suo amato fratello.
Sapeva bene di non godere della stima di Sho. Era consapevole di essere ai suoi occhi un fannullone, per giunta mantenuto. Questo pensiero lo intristiva perché lui, invece, per il suocero provava molta ammirazione. Gli capitava spesso di ascoltarlo mentre si allenava nelle sue presentazioni. Lo guardava e ascoltava con rispetto e in cuor suo il desiderio di poter essere un pochino come lui. 

E Sho, quando si accorgeva del genero, smetteva di parlare e, con fare sempre seccato, gli faceva cenno con la mano di andarsene in un’altra stanza. 

Il professor Hasegawa

Si stava facendo davvero tardi. Non poteva più aspettare. Doveva avvisare Akane che sicuramente si sarebbe allarmata non vedendolo arrivare. 

Akane rispose al telefono ma non sentiva bene che cosa le stesse dicendo il marito. Da Tsubame c’era la consueta gara di karaoke a cui lei partecipava sempre con un trasporto che a volte sembrava eccessivo. 

Esci un attimo dal locale! Con questo baccano non si sente nulla! – disse Hiroshi in tono seccato, non potendo alzare la voce.

Sono allo Yokohama Chuo!! Tuo padre ha avuto un infarto! – le spiegò con voce ansiosa ma affrettandosi subito a precisare che i soccorsi erano arrivati in tempo.

Akane sembrava intontita dalla notizia e balbettava cose incomprensibili. Si capì soltanto che lo avrebbe raggiunto al più presto.

Venti minuti dopo, infatti, Akane e la madre erano al nono piano del policlinico  nella saletta dalle pareti color pistacchio in cui Hiroshi aspettava da solo, seduto su una panca rosa salmone. 

Un medico, il professor Hasegawa, si affacciò nella saletta e comunicò alla famiglia che Sho era fuori pericolo. Diagnosi: un’ischemia cardiaca preceduta da una paralisi afasica. 

Il professor Hasegawa era un uomo sulla sessantina, alto, con capelli neri ordinatamente pettinati all’indietro. Indossava degli occhiali dalla montatura tonda e spessa, color avorio. Erano occhiali curiosamente vistosi ed era quasi come se fossero loro a monopolizzare l’attenzione di chi ascoltava. Non erano le parole del professore ma quegli occhiali ad essere gli appariscenti protagonisti di quella strana e tesa riunione in una sala d’attesa di un ospedale. 

Chissà chi glieli aveva consigliati? O forse li aveva scelti lui stesso, tradendo così un qualche eccesso di vanità. 

Akane e Yuko erano ancora talmente sbigottite da non riuscire a fare altro che annuire meccanicamente alle parole del professore.

Il ritorno a casa

Hiroshi era riuscito a mantenere la calma ma faticava a seguire le parole del dottore. 

Che tipo strambo questo dottore – pensò Hiroshi, non riuscendo a distogliere lo sguardo da quella montatura color avorio. Gli sembrava, in certi momenti, come se questa montatura fosse sospesa a mezz’aria, senza il volto del professore. Degli occhiali vaganti, forse di un fantasma. 

Lo spavento e la stanchezza lo stavano confondendo con i loro effetti quasi psicotropi. Avrebbe presto avuto bisogno di tornarsene a casa a dormire. Ne aveva avuto abbastanza di fantasmi, musiche e allucinazioni. 

Dal groviglio di parole difficili del professore, si capì però chiaramente che Sho sarebbe dovuto rimanere in ospedale per qualche giorno per accertamenti.

Riuscirono a vederlo di sfuggita da dietro un vetro. Sho era lì, sommerso nelle acque di un sonno medicinale, in un pigiama celeste, sotto un piumino bianco. Immobile come una statua, Sho aveva il volto toccato lievemente dal raggio di luce verde di un monitor. 

Lo osservarono nel più assoluto silenzio. Akane era come ipnotizzata, con lo sguardo fisso. Yuko aveva abbozzato un lieve sorriso di compassione e forse di circostanza. Hiroshi, invece, cercava miseramente di domare quelle dannate lacrime che ormai avevano deciso di sgorgare ad ogni piè sospinto. 

Akane, Yuko e Hiroshi tornarono a casa senza dire una parola. Presero un taxi che scivolò per le strade della Yokohama notturna, sempre punteggiata di luci. E ognuna di esse stava a testimonianza della vita che ricomincia sempre. Ogni giorno. Di lì a poco sarebbe spuntata l’alba e con essa un nuovo inizio. 

Arrivati a Minato Mirai nell’aria si percepiva un profumo intenso di spiedini di pollo alla brace. Quell’appetitoso aroma proveniva sicuramente dalla locanda di Anchan, lì all’angolo tra la lavanderia e il condominio Tajima. 

Hiroshi, senza dire una parola, fece solo cenno che sarebbe andato a casa. Yuko e Akane si guardarono per alcuni istanti, come se si consultassero con le occhiate. Probabilmente avrebbero gradito la gustosa distrazione di uno spuntino insolito, a un’ora dall’aurora. Ma alla fine in silenzio si compresero: era meglio andare a casa.

Lacrime e tisane

L’appartamento, immerso ancora nella quiete notturna e avvolto negli ultimi strascichi di oscurità, accolse i tre con la fragranza di casa e il conforto della familiarità. 

C’era ancora un po’ di disordine dovuto all’intervento dei paramedici ma non era adesso il momento di occuparsene. 

Hiroshi scomparve immediatamente in camera, crollando sul suo futon. Nell’arco di pochi minuti già dormiva profondamente. 

Akane e Yuko si ritrovarono in cucina davanti a una tazza fumante di quella tisana che beve sempre Sho prima di dormire: la tisana Gussuri, alla valeriana e passiflora. L’aveva assaggiata per la prima volta chissà dove e da allora la voleva sempre. Diceva che lo faceva addormentare subito e bene. Gussuri, appunto. 

Yuko, però, appoggiò improvvisamente il capo sul tavolo, proprio vicino alla tazza  e si abbandonò ad un pianto sconsolato. Akane la guardò sorpresa poiché accadeva raramente che la madre si lasciasse andare ad esternazioni emotive così forti.

Dai, mamma, non fare così. Vedrai che papà si riprenderà sicuramente! – le disse Akane, toccandole con affetto la spalla. 

Yuko, singhiozzando, si tirò su e, asciugandosi gli occhi con le dita, prese in mano la tazza e la portò subito alla bocca. Era come se sperasse di trovare un conforto immediato in quella bevanda calda ed erbacea. 

Madre e figlia finirono di bere la tisana, nella calma che era rotta solo dai loro respiri, da Yuko che tirava su dal naso e dai rami di una quercia che sfioravano delicatamente la finestra della cucina. 

Senza dire una parola, andarono a dormire mentre fuori nasceva un nuovo giorno. 

L’incontro col signor Ueda

Quella mattina Sho venne trasferito in una stanza dove c’era già un paziente. Sarebbe rimasto lì per tutto il periodo degli accertamenti. 

Sho era già sveglio. Si guardava intorno frastornato cercando di tirare su la testa per poi, esausto, lasciarsi andare sul cuscino. 

Una volta in stanza osservò il cielo dalla finestra. 

La giornata era serena. 

Dopo alcuni minuti si accorse della presenza di un uomo sdraiato su un letto, sul lato opposto. Era anziano: avrà avuto un’ottantina d’anni. Si vedeva che non era molto alto. Capelli grigi radi, volto emaciato e punteggiato da una spinosa barba da fare.  Anche lui abbigliato in quello stesso pigiama celeste, come una specie di divisa d’ordinanza dell’infermità. 

Sho si accorse che gli occhi di quell’uomo lo stavano scrutando con un’attenzione insistente. 

Capisco la curiosità ma mi chiedo cos’abbia da fissare questo qua! – pensò irritato Sho. 

Cercando di ignorare lo sguardo importuno dell’uomo, Sho chiuse gli occhi sospirando con infastidita rassegnazione. Chissà quanto sarebbe dovuto rimanere qui, in questo posto, in questo letto scomodo e in compagnia di questo tizio. 

Ancora non poteva – e non voleva – parlare. 

L’ischemia e la volontà di non parlare più si erano incontrate nello stesso punto, sovrapponendosi l’un sull’altra: la volontà che si realizza nella malattia e la malattia che, a sua volta, si manifesta nel pensiero. 

I due uomini rimasero così a lungo, sospesi in quel silenzio singolare generato dal malessere, dal desiderio di non comunicare e forse anche dalla diffidenza. 

Sho con gli occhi chiusi e l’anziano con gli occhi aperti fissi sul suo nuovo compagno di stanza. 

Comunque io sono Ueda. Ueda Akito. Piacere di conoscerla … anche se una stanza d’ospedale non è il posto più allegro dove poter stringere nuove amicizie. – esordì l’uomo tutto ad un tratto, rompendo improvvisamente quella strana atmosfera. 

Sho lo guardò per qualche istante e poi fece un cenno col capo e richiuse nuovamente gli occhi. 

So bene che non parla. Ho sentito il professor Hasegawa informare l’infermiera del reparto. Mi pare di aver capito che lei si chiami Sho. È così? – domandò Ueda con evidente curiosità. 

Sho annuì. Sul volto un’espressione seria e al contempo stanca. 

Prima mi fissa per ore e poi inizia a farmi l’interrogatorio. Non mi interessa nulla di questo Ueda e spero che mi lasci in pace al più presto. – pensò Sho, già ampiamente irritato dalla presenza di quest’uomo invadente. 

Con quale carattere si scrive il suo nome? È forse quello di comandante? – domandò Ueda, iniziando – com’è consuetudine dei giapponesi –  a tracciare in aria col dito indice della mano sinistra i tratti del sinogramma da lui ipotizzato. 

Dieci tratti esatti! Dieci. Un bel numero chiaro e schietto! Forse come lei? Certo che essere chiari e schietti senza poter parlare diventa abbastanza complicato! – osservò tagliente Ueda in questa sua analisi estemporanea non richiesta. 

Sho decise di ignorarlo. Anche volendo sarebbe stato difficile comunicare e di certo non avrebbe sprecato energie per tentare di dialogare con un vecchio impiccione. Chissà, forse uno dei due sarebbe stato presto dimesso e questo incontro sarebbe finito rapidamente nel dimenticatoio della vita. 

Sapori cinesi e domande

Era ora di pranzo e anche in ospedale il momento del pasto è atteso con una certa trepidazione. 

Al policlinico Yokohama Chuo si mangia piuttosto bene per essere un ospedale – ricorda di aver sentito dire Sho da un suo dipendente che era stato ricoverato qui per un’appendicite. 

Il menù di oggi e che, combinazione, sarebbe stato lo stesso per entrambi i pazienti:

Happosai: verdure otto tesori. Piatto di chiara origine cinese composto da carote, cavolo verza, germogli di bambù, funghi, scalogno, calamari, gamberi e un po’ di carne. Il tutto condito con una salsa molto saporita. 

Sho amava la cucina d’ispirazione cinese e l’idea di riassaggiarla, anche se in ospedale, lo aveva messo di buon umore. 

Poi le alghe hijiki bollite in salsa di soia e zucchero. Una leggera insalata di bianchetti e aceto, una scodella di zuppa di miso, riso al vapore e frutta di stagione. 

Non male! – pensò Sho assaggiando le varie pietanze. Certo, non era la cucina di Yuko ma non ci si poteva lamentare.

A proposito! Yuko! Akane! Chissà dov’erano e che cosa sapevano di quanto era successo. 

Una visita…inaspettata?

Non aveva nemmeno il suo telefono con sé. Quell’inetto di Hiroshi sicuramente poltriva come suo solito e non sarebbe stato di aiuto in niente. 

Signor Nakamura, c’è una visita per lei. Mi raccomando non si affatichi troppo. Il professor Hasegawa passerà più tardi per darle alcuni aggiornamenti. – disse con una vocina squillante un’infermiera dai capelli lucidissimi neri e raccolti in una treccia rivolgendosi a Sho, mentre versava ad entrambi del tè verde caldo.

Comunque, so perché ha fatto questa specie di voto del silenzio. Anch’io ho avuto un’esperienza simile. Le racconterò magari più tardi. Adesso provo a riposare un pochino. – annunciò Ueda pulendosi la bocca col tovagliolo e appoggiando il vassoio del pranzo sul comodino vicino al letto. 

Dal silenzio alla logorrea! – osservò sarcasticamente Sho fra sé e sé. 

Sulla porta apparve Hiroshi. 

Sho lo guardò stupefatto. 

Lo so che non si aspettava di vedermi. Come sta? Okāsan** e Akane stanno ancora riposando. Sono rimaste qui in ospedale insieme a me fino verso le 4 di stamattina. Erano stremate. – spiegò Hiroshi, prendendo posto su una sedia vicino al letto. 

Sho fece un cenno di comprensione col capo ma senza distogliere lo sguardo sbalordito dal genero. 

In quel momento Hiroshi tirò fuori dal suo zaino il telefono del suocero e glielo porse. Era rimasto a casa, nella fretta e confusione della sera prima. 

Sho venne presto a scoprire com’erano andate le cose e che era stato proprio Hiroshi ad intervenire tempestivamente, salvandogli di fatto la vita. 

Messaggi

Utilizzò il programma di messaggistica istantanea per comunicare col genero che era seduto lì affianco a lui. 

Grazie. Non so che dire. Ricordo solo che stavo guardando la TV quando tutto ad un tratto ho avvertito un dolore lancinante al petto. – scrisse nel suo messaggio a Hiroshi. 

Se tu non fossi rientrato per il portafoglio forse a quest’ora stareste pianificando il mio funerale. – aggiunse con una punta di drammaticità. 

Otōsan*, l’importante è che lei ora sia qui, fuori pericolo. Fra qualche giorno la rimanderanno a casa e piano piano potrà cominciare il suo percorso di guarigione. Okāsan** e Akane si sono molto spaventate. Verranno più tardi a farle visita. – rispose Hiroshi mentre si apprestava a sorseggiare un po’ del tè verde bollente che gli aveva portato l’infermiera con la treccia e dalla vocina squillante.  

Dlin dlon

Arrivò un altro messaggio di Sho. 

Responsabilità

Io non sono molto gentile nei tuoi confronti eppure mi hai aiutato. Perché? – domandò Sho arrivando subito al punto che creava imbarazzo e tensione tra i due.

Otōsan, anche se lei non mi vede di buon occhio, io l’ammiro e la tengo in grande considerazione sebbene mi abbia sempre maltrattato. Da quando Akane ed io ci siamo sposati lei ha fatto di tutto per escludermi e farmi sentire un perdente. 

Non posso negare di aver sofferto molto per questo suo atteggiamento ma cosa potevo fare? E soprattutto, cosa avrei potuto fare in una situazione d’emergenza? Vendicarmi, forse, evitando di chiamare i soccorsi in tempo? – commentò con voce rapida e concitata Hiroshi. 

Sho si vergognava profondamente. E non solo delle parole di Hiroshi che lo mettevano davanti alle sue responsabilità ma anche delle meschinità che aveva commesso per mettere volutamente zizzania tra lui e Akane. 

Come quelle volte in cui consapevolmente sabotò i vari tentativi di Hiroshi di trovare lavoro, abusando della sua posizione e sparlando del genero coi potenziali datori. 

Ancora responsabilità

Hiroshi non sapeva che era stato proprio lui a mettergli i bastoni fra le ruote nella maligna speranza che questo portasse allo sfascio il matrimonio con Akane la quale, secondo Sho, meritava certamente qualcuno di meglio. 

L’ora delle visite era terminata. Prima di andare via, Hiroshi appoggiò sul comodino dei libri e alcune riviste che piacevano al suocero.

Ho pensato di portarle qualcosa da leggere. In un posto come questo serve un po’ di aiuto a far passare il tempo, no? Si riguardi, otōsan. Ci risentiamo più tardi. – e con un lieve inchino si congedò, scomparendo in un attimo dietro la porta scorrevole bianca in vetro e PVC. 

Dolorose verità e gratitudini

Sento aria di confessioni. Vero, signor Sho? – intervenne di punto in bianco Ueda che non aveva dormito ma, come ci si sarebbe potuto aspettare, era rimasto sveglio cercando di carpire il più possibile da quella conversazione a metà tra Sho e il genero.

Sho lo ignorò. Quel Ueda era solo un vecchio borbottone con la passione per il pettegolezzo. 

Dlin dlon. 

Era appena arrivato un messaggio a Sho. 

Era Hiroshi.

Otōsan, ieri sera non ero tornato a casa per il portafoglio ma per farla finita. – confessò Hiroshi nel messaggio.

Sho sbiancò. 

Ero da Tsubame con Akane, come sempre. Non trovavo il portafoglio e Akane ne approfittò per schernirmi dicendo che tanto non avrebbe fatto alcuna differenza dal momento che i soldi per pagare il conto sarebbero usciti dalle sue tasche. Era da tempo che me ne diceva di ogni, ricordandomi che ero solo un fallito per il quale aveva buttato via un futuro brillante. Aveva iniziato a ricordarmi sempre più spesso che avrebbe dovuto darle retta quando si oppose al nostro matrimonio. – proseguì Hiroshi come un fiume in piena.

E invece aveva scelto di rimanere con me e di abbassarsi al mio livello. Forse le facevo pena. Eppure ho tentato in tutti i modi di cercare lavoro, sempre senza successo. Così, ieri sera, dopo quest’ennesima lite umiliante in cui davanti a tutti mi ha accusato di essere la sua rovina, mi sono alzato e con la scusa di venire a prendere il portafoglio volevo invece togliermi la vita. Non ne potevo più. – aggiunse. Le sue parole grondavano di dolore e Sho questo lo percepiva. E ad ogni parola, si sentiva stringere sempre di più la gola dal rimorso.

Entrando in casa, però, ho trovato lei otōsan. A terra, in preda a qualcosa che non era benevolo. In quel momento, nonostante il suo disprezzo continuo, in lei ho visto solo una persona inerme e debole. Ho abbandonato immediatamente il mio malsano piano e le sono venuto in aiuto.

In un certo senso è lei che ha salvato la vita a me. – concluse Hiroshi.

A Sho scivolò il telefono dalle mani, cadendo rumorosamente sul pavimento a quadretti bianchi e celesti della stanza.

(Continua)

Note:

*Il termine otōsan è un onorifico che significa papà ma che spesso viene usato anche nei confronti del suocero.
** Il termine okāsan, allo stesso modo, significa mamma e nella cultura giapponese viene spesso usato come titolo affettuoso e al tempo stesso rispettoso nei confronti della propria suocera. Normalmente non è consuetudine rivolgersi ai suoceri chiamandoli direttamente per nome.