bivio

Voglio scrivere di un pomeriggio, un pomeriggio che in realtà era come tutti quelli che lo hanno preceduto e quelli che lo hanno seguito.

Anche quella volta il giorno diede il cambio all’oscurità, il sole alla luna, le strade vive di vita alle strade solitarie della notte.

Il quotidiano faceva il suo dovere e ogni cosa, nel bene e nel male, era al suo posto.

Ma credo che dentro di me quel giorno ci fosse una desolazione simile a quella del deserto del Nevada che, per migliaia di miglia, accompagna il viaggiatore inizialmente ammaliato ma poi inesorabilmente tediato dal susseguirsi senza fine di sterpaglia.

Credo che quel giorno le mie gambe si muovessero per abitudine e non tanto perchè ci fosse bisogno di muoversi.

Non penso che quel pomeriggio rappresenti l’apice del mio dolore, ma certamente potrebbe pretendere il secondo posto sul podio.

Era il periodo in cui pensavo di aver perso tutto. Penso che se mi fossi vista dall’esterno avrei probabilmente gridato dallo sgomento nel realizzare che quel guscio con occhi, bocca, gambe, braccia aveva solo una mia parvenza ma non ero io di certo.

Ero sola in una casa che scelgo di non ricordare. Ero circondata a trecentosessanta gradi da un odore fastidioso di cose vecchie e maltrattate, di un fumo che non mi apparteneva, di stantio, di oggetti pregni di pianto, di ricordi pesanti, di parole malvagie.

Ero in una casa che, per alcuni bui e tetri istanti, ho quasi sperato diventasse la mia tomba.

Era stato teatro del mio baratro, del mio smarrimento fisico e mentale, di una mia tentata capitolazione che però non è avvenuta perché il desiderio di vita – la sopravvivenza a ogni costo – riesce ad avere la meglio anche quando l’abisso ha perso le sue tonalità verdi-blu per vestirsi di viola-nero.

Il dolore dentro di me viaggiava sulle ali di quello stesso vento che soffia sulla sterpaglia dell’interminabile Interstate 15 che unisce in un lungo abbraccio di cemento la California e il Nevada, fermandosi solo in presenza di qualche forma di vita.

Ma il dolore più era intenso e più ardui e patetici diventavano tutti i tentativi di vocalizzazione.

Avevo male e non sapevo dove trovare conforto. Mi sono sentita così sola e così sconfitta che qualunque direzione sarebbe andata bene. Era come trovarsi a un bivio su cui svetta un palo con appiccicati centomila cartelli con frecce che indicano un’infinità di destinazioni.

Ma io non sapevo dove andare e nemmeno m’importava, a dirla tutta.

Ancora non cercavo Dio, anche se come tutti gli esseri umani quando si trovano ad attraversare la strada del dolore, anch’io Lo avevo implorato affinchè ponesse fine a quel tormento.

Fu così che – non so nemmeno io nè perchè nè come – decisi di lavarmi la faccia, raccogliere i miei capelli disordinati in una coda frettolosa ma severa ed educatrice, mettermi le scarpe, infilarmi una giacca e uscire da quella casa che penso gioisse nel vedermi affondare.

Con quella porta scura e ammaccata chiusa alle spalle, mi sembrava di potercela di nuovo fare.

Iniziai a camminare, senza avere una meta. Credo di aver vagato per un lasso di tempo non facilmente quantificabile, ma poco importava.

Ero in un quartiere realmente anonimo, privo delle gradevolezze visive e delle coccole artistiche che adornano in genere i centri storici italiani. I miei occhi non sapevano a cosa appigliarsi, se non alle facciate scialbe di edifici incolori e malinconiche insegne al neon che sembrano comici intenti a intrattenere un pubblico inesistente.

Forse inconsciamente o forse no, arrivai ad una libreria di cui conoscevo l’esistenza ma che – fino a quel pomeriggio uguale a tanti altri – non avevo mai visitato.

Era la libreria Mondadori di Via Digione 23, a Torino.

Vi entrai trafelata e disorientata.

Iniziai a osservare famelica i titoli esposti, senza sapere cosa stessi cercando perchè non cercavo nulla in particolare.

Ero lì perchè soffrivo e in quel momento quella libreria mi sembrò un’oasi, un punto di ristoro spirituale, una sorgente dissetante e terapeutica.

Ho un ricordo sfocato del tempo trascorso dentro la libreria, ma ricordo chiaramente invece di esserne uscita con in mano un libricino intitolato “Lo zen del gatto” di Ludovica Scarpa. Lo vedete in un paio di foto qui, in questo mio articoletto dell’anno scorso.

Quel libricino, con le sue delicate parole e dolci illustrazioni, fu come un abbraccio in un pomeriggio in cui dentro di me sanguinavo a profusione mentre, tutto intorno, il mondo procedeva coi suoi soliti e inesorabili passi.

Sapete, Torino era un tempo la città italiana che vantava il maggior numero di case editrici e di librerie. Adesso le cose sono un pò cambiate (in peggio), ma gli angoli di carta sono ancora molti.

Tanti. Tantissimi.

Eppure, eppure…quando una coincidenza deve accadere lo fa senza tanti scrupoli e nemmeno tante moine.

Quando ho scoperto, infatti, che la presentazione del libro Tokyo Orizzontale di Laura Imai Messina  sarebbe stata tenuta proprio lì io, beh, ho sentito una stretta stritolante al cuore.

La presentazione era oggi.

E io, in quella libreria, non ci ero più tornata da quel lontano e normalissimo pomeriggio.

Ma non potevo mancare.

Del lavoro e una pioggia testarda mi hanno portata all’evento quando questo ormai era finito, ma sono riuscita ad andare a conoscere Laura, scambiare con lei due parole, acquistare il suo libro su cui mi ha lasciato una dedica non casuale e che poi forse vi riporterò.

Mi sentivo disorientata, ma con nel cuore una fiammella confortante.

Le parole di Laura sono state benefiche, dolci e non scelte a caso. Erano lì per me.

Quando poi ha consigliato ai presenti il mio blog dicendo che sono una persona molto giapponese, avevo il cuore che batteva forte ma al contempo mi sentivo serena.

Un paio di foto, un saluto di congedo che avrei voluto rimandare, e via di nuovo per le strade scure di quell’anonimo quartiere torinese, bagnato da una pioggia capricciosa e inconcludente.

Ma prima di andarmene, mi sono guardata intorno e ho immaginato di rivedere la Marianna di quel pomeriggio qualunque mentre, con la sterpaglia desolante nel cuore, cerca conforto in un mondo di carta e parole.

Oggi, in quella libreria, ho chiuso un mio cerchio.