Un uchiwa o ventaglio tradizionale giapponese

Il mio fedele uchiwa che profuma ancora di Kanagawa

Settembre ha un che di militaresco. Richiama tutti, o quasi, all’ordine forzando l’attenzione sugli aspetti del quotidiano ritenuti inevitabili.

E` il mese della sfumata transizione tra gli arroventati toni dell’estate e quelli gradatamente più compassati dell’autunno.

E` la prima tappa verso la mia stagione preferita. E` un po’ come Nihonbashi che era il punto di partenza per chi, da Edo (questo l’antico nome di Tokyo), voleva percorrere il lungo Tokaido e raggiungere Kyoto.

Sono ancora circondata dalle scatole. Alcune grandi, alcune piccole. Ci sono anche sacchetti sempre troppo pieni.

Avverto la fragranza del ricordo sui miei vestiti e le mie cose perché è il profumo del vecchio blog, ovvero la mia vecchia residenza.

Ma qui tutto sa di nuovo. Le luci sembrano anche più brillanti e allegre.

Da dietro una pila di abiti è spuntato il mio うちわ uchiwa. Oh. Pochi istanti senza respiro.

Il mio uchiwa o ventaglio tradizionale.

L`uchiwa che profuma ancora di Giappone.

Questo tradizionale ventaglio era rimasto fino ad oggi avvolto in un foglio trasparente di cellophane.

Perché lo avevo scelto con così tanta cura. Nella vita ho sempre cercato di scegliere le mie cose con amore non distratto, ma quel giorno credo di aver accarezzato questo uchiwa con un lembo del mio essere.

Ricordo perfettamente quando e dove lo acquistai.

Erano gli ultimi e laceranti giorni nel mio Kanagawa. Le cicale avevano appena iniziato il loro struggente canto di vita e di morte; l’aria stava acquisendo l’effluvio dei matsuri e tutti i colori intorno a me sembravano intensificarsi in brillantezza.

I miei occhi, in quei giorni, vestivano un velo sottile di lacrime che solo Saku percepiva. Lo stesso che avvolgeva il mio cuore.

Combattevo contro quel nodo in gola che a tratti mi strangolava con la sua violenza.

E quell’uchiwa aveva qualcosa. Forse io, inconsciamente (o consciamente, chissà) presagivo il ciclone che avrebbe sconvolto la mia esistenza fino al midollo e ho voluto preservare il ricordo di quegli anni giapponesi luccicanti attraverso un semplice involucro in cellophane.

Da dietro di esso, oggi, vi parlo. Perché sì, io vi scrivo, ma in realtà voi che leggete “udite” la mia voce.

Ho liberato l’uchiwa da quella gabbia trasparente che non serve più.

In questi ultimi giorni d’estate e in queste ultime scie di calore io mi faccio aria con la sua aggraziata ala tenendolo delicatamente per il suo pregiato manico di legno laccato.

E da dietro i suoi favoleggianti arabeschi inconfondibilmente nipponici io vi parlo.

Uchiwa o ventaglio tradizionale.

Il ventaglio del ricordo e della confidenza.

Oggi pomeriggio ero su un autobus diretta verso il mio quartiere di nascita e che si chiama Barriera di Milano.

Barriera è un quartiere operaio, uno dei più popolati e popolari di Torino.

Come mio solito, seduta sull’autobus, la mia mente componeva e scriveva parole invisibili che probabilmente mai troveranno la propria forma in inchiostro o in pixel.

E pensavo a come ogni persona sia, in fondo, depositaria di storie che aspettano di essere raccontate.

Ricordi di Giappone.

Ricordi di Yokohama e China Pete`s.

Come i tesori negli scrigni, anche le storie nelle persone possono essere difficili o impossibili da raggiungere.

A volte gli scrigni sono in luoghi remoti e altre volte sono intrappolati negli abissi, forse fusi in un quasi eterno abbraccio con soffocanti alghe o pesanti catenacci di una vecchia nave affondata chissà quanto tempo fa.

E talvolta le storie nelle persone, proprio come quegli scrigni inaccessibili, possono essere intrappolate dal soffocante abbraccio di un orgoglio o frantumati da una quotidianità che si ripete eliminando il desiderio di condivisione.

Il pensiero poi si è arrestato. Dovevo scendere e i miei occhi sono stati attratti dal rigoglioso fogliame dei tanti alberi che caratterizzano quella zona.

Alcune ore dopo ero nuovamente nei pressi della fermata dov’ero scesa. A pochi metri da lì, uno degli ospedali più importanti della mia amorevole città: l`ospedale Giovanni Bosco, inaugurato nel 1961 dall’allora Capo di Stato Giovanni Gronchi. Pensate.

Era già buio. Appese alle mie spalle, due pesanti sporte della spesa. Il peso mi disturbava relativamente perché, come solito, la mia mente era svagata e persa in invisibili componimenti.

Sono svagata sì, ma non totalmente. Con la coda dell’occhio avevo notato, nella penombra, una donna seduta sulla panchina di metallo della fermata dell’autobus.

Gli anni di Giappone mi hanno insegnato, talvolta con le cattive maniere, a non incrociare lo sguardo degli altri ma a guardare sempre un pochino altrove. Anche e soprattutto in conversazione.

E quell’abitudine mi è rimasta, mettendomi a volte in situazioni imbarazzanti perché evitare lo sguardo qui è sempre percepito come un atteggiamento sfuggente di chi nasconde qualcosa.

Quindi ho evitato di incrociare il suo sguardo. Ma la vedevo. Perifericamente, ma la vedevo.

Era silente, ma sembrava scossa da qualcosa.

Sempre nei miei pensieri, io vagavo lasciandomi avvolgere dal profumo della sera, di quei lussureggianti alberi di Barriera e dalla fragranza di carne alla brace che arrivava a me seguendo chissà quale irrintracciabile dedalo di vie.

La donna della penombra, dopo essere rimasta immobile per tutta la durata della mia riflessione in piedi e con le pesanti sporte alle spalle, si è alzata lentamente e mi si è avvicinata e, cercando il mio sguardo, mi ha chiesto notizie dell’autobus ritardatario.

Sorridendo – perché io sorrido davvero sempre – le ho dato gli orari che GTT mi aveva inviato via SMS.

Questa donna, vedendola meglio ora che si era allontanata dalla penombra, aveva un che di spontaneamente signorile. Piccoli gioielli indossati con garbo, morbidi capelli raccolti in un semplice chignon impreziosito da un piccolissimo fermaglio di perle.

E quegli occhi. Azzurri. Un azzurro limpido come il mare di Sardegna.

Ma erano occhi tristi e che avevano chiaramente pianto.

La signora mi parlò del disagio degli autobus ritardatari. Del fastidio provato nell’attendere alla fermata di sera. Delle giornate che si accorciano. Dell’afa che si trascina testardamente.

E poi – come settembre che come un ponte collega l’estate alla stagione fredda – la sua conversazione si appigliò a un gancio che compresi all’istante.

Mi disse che l’afa dell’ospedale era insopportabile, acuita forse dall’evidente sofferenza che per definizione popola quel luogo.

E lì compresi che mi trovavo davanti un essere umano nel bisogno.

Nel bisogno di raccontare una storia.

Di dire qualcosa. Di avere qualcuno disposto ad ascoltare non solo meccanicamente, ma pronto ad accogliere quelle parole, quel racconto.

Dei tesori che, attraverso un inspiegabile intreccio di coincidenze, erano riusciti a liberarsi dalla morsa di possessive alghe che li tenevano imprigionati nell’abisso dell’anima.

Questa donna, per me senza nome e senza storia, aveva scelto Marianna a cui raccontare la sua storia e davanti cui scartare delicatamente il suo dolore.

L’innata raffinatezza dei suoi modi di fare, del suo Italiano, del suo tono di voce mi hanno fatto immaginare la sua estrazione sociale, probabilmente elevata.

In un’anonima sera di settembre, nella periferia torinese, mio luogo di nascita, ero li` con due pesanti borse della spesa e con davanti a me una donna che sanguinava di dolore, con un disperato bisogno di parlare.

La lasciai parlare, ascoltandola con calore umano. La sua sofferenza era reale. Avevo compreso il suo bisogno.

Parole di solitudine, le sue. Di preoccupazione per una figlia giovane e ricoverata, quel giorno, in psichiatria, dopo aver iniziato a rifiutare categoricamente di cibarsi.

Parole amare di un marito inflessibile come un generale e assente, ma solo affezionato al lavoro. Di amiche che prendono e non danno. Dell’affetto che lei, nella sua solitudine, rivolge ad una tartaruga.

Non c’erano superficialità, snobismo, finta frustrazione di chi si lamenta per noia.

In quegli occhi, in quelle parole disperate ho colto i frammenti di un dolore umano.

Lei ogni tanto mi ringraziava perché l`ascoltavo. Mi diceva che il mio volto le aveva fatto capire che ero una persona buona e con cui avrebbe potuto parlare. Poco importava se eravamo due perfette sconosciute. In certi casi la solidarietà umana non ha bisogno di formalità, bon ton o etichette.

Intanto l’autobus era arrivato e vi siamo salite insieme. Più mi parlava e più vedevo dipingersi sul suo dignitoso viso un sorriso lieve.

Iniziò a ringraziarmi profusamente per averle permesso di parlare, di dire, di raccontare, di rinfrancarsi un po’ lo spirito e ritrovare di nuovo il sorriso.

 “Hai anche un bel nome, Marianna. Sei forse un angelo”.

Mi ha detto scendendo dall’autobus.

Ma io non sono un angelo. Sono solo una persona che ha compreso.

Ci siamo strette la mano, abbracciate e poi lei è sparita nel buio, salutandomi ancora una volta e dicendomi della sua speranza di incontrarmi di nuovo un giorno.

Angela, il suo nome.