Che estate bizzarra.

Le mie finestre sono costantemente spalancate e sembrano bocche assetate in attesa anche solo di una goccia di ristoro.

Le mie tendine bianche ondeggiano pigramente, sospinte da sparuti sbuffi di un’aria che pare fatta di un immaginario piombo invisibile.

Dai ghirigori del mio ornato parapetto di ferro battuto, rivestito da ostinate pennellate di un torinesissimo verde, s’intrufolano raggi di un sole rovente che rimbalzano sul davanzale di marmo.

Torino, nella sua agostana incandescenza, osserva in silenzio tutto quanto sta avvenendo. E lo fa con gli occhi impauriti di chi tutto questo l’ha già visto. Gli occhi delle nostre città sono gli unici rimasti, assieme a quelli di alcuni anziani che ancora ricordano.

Sulla mia scrivania, pagine di appunti inariditi accompagnati da William Somerset Maugham, Kawakami Hiromi, Tomasi di Lampedusa, Ho Chi Minh.

Alcuni miei libri nonché fedeli amici

Un’estate bizzarra, dicevo.

Gli ingredienti della solita estate ci sono tutti, che sia mare o città poco importa: il sole iroso, il gelato, l’anguria, docce gelide, un affaticato ventilatore in azione h 24, spossatezza da calore (la 夏バテ natsubate di cui parlano i nostri amici giapponesi), sonnolenza, vecchie commedie all’italiana, insalata di riso, soba, l’odore penetrante del Po che lentamente lambisce la sua sponda infuocata.

Quelle commedie che mi facevano ridere e adesso invece risvegliano una lancinante nostalgia per giorni andati catapultandomi in un personalissimo Posto delle fragole (lo Smultronstället di bergmaniana memoria).

Ma questa di estate è diversa. Pesa di più.

Non è solo il mio essere figlia dell’inverno a farmela mal sopportare ma è piuttosto tutto questo clima di palpabile tensione in cui ormai viviamo.

Scrivo liberamente qui perché è casa mia. Almeno fintantoché mi sarà possibile esprimermi in assoluta libertà, valore quest’ultimo che non ci è garantito.

Vivo con grande dolore questo momento storico e di questo non riesco e non voglio fare mistero. Potrete essere d’accordo con me o meno ma questo non cambia alcunché poiché il cammino a passo svelto verso una terrificante deriva è già abbondantemente in atto.

L’estate bizzarra, dicevo, è condita dai pianti singhiozzanti che mi colgono nella notte quando il sonno sfugge via sgattaiolando dalle mia tendine bianche e perdendosi nelle strade silenziose di questa Torino che osserva.

Nella mia vita ho vissuto momenti di paura stritolante. Pochi ma ci sono stati. E rieccoci.

Comunicazioni terrorizzanti giornaliere, odore pungente di costrizioni, divieti che si moltiplicano, discriminazione.

Siamo davanti ad una gigantesca rappresentazione de I vestiti nuovi dell’imperatore di Andersen. Una verità evidente, dolorosamente evidente, che però non si può dire. Si tace. E a forza di tacere sembra quasi come se questa verità non sia più lì.

Ma la verità è lì.

L’incantesimo si frantumerà e sempre più occhi vedranno i veri vestiti dell’imperatore.

Intanto però si continua a vivere perché, come dice la mia cara e coraggiosa amica Rita: “Ci vuole più coraggio a vivere che a morire“. E dichiariamo il nostro coraggio di vivere anche attraverso atti di semplice contemplazione della bellezza che ci circonda e che è accessibile a chiunque. Senza distinzioni.

Lungo Po, Torino

Pensieri d’Asia

Il Giappone è parte del mio percorso di vita da tanti anni ormai. Personalmente, accademicamente e professionalmente. Un legame nato da un’esperienza cadutami dal cielo anni fa e che avrebbe costituito una delle fondamentali trasformazioni della mia vita. Il Giappone e l’affetto che provo per quella terra sono la ragione per cui esiste Biancorosso Giappone.

Il Giappone è per me l’espressione del mio inspiegabile attaccamento all’Asia nato intorno a quando avevo nove anni e sbocciato tra i racconti di mio nonno in Cina alla fine degli anni Ottanta proprio nel cuore di quel periodo di riforme e aperture lanciate da Deng Xiaoping. Un affetto che avrei alimentato anche nei miei anni adolescenziali cercando, a mio modo, l’Asia dell’immaginazione tra le botteghe della già allora malconcia Chinatown torinese.

Nello scrigno dei miei ricordi sono impresse con vividezza memorie delle chiacchierate (che in realtà erano mini lectiones magistrales, solo che non me ne rendevo conto) del prezioso dott. Lee, tra le pareti della storica Cineseria Ming in Galleria Umberto I, a Torino. Il flusso inarrestabile delle mie domande veniva accolto con pazienza e sicurezza dal dott. Lee. E mentre a volte i miei occhi vagavano posandosi sugli antichi vasi e sulle intricate giade, ecco che quel caro Maestro tracciava caratteri tradizionali e me li mostrava.

Porto il Giappone dentro di me ed è un qualcosa che nessuno potrà portarmi via. Qualcuno ci ha provato ma non ci è riuscito.

Chi vi scrive è a Torino fisicamente ma da Sagamihara non si è mai mossa.

Pennellate vietnamite

Dedico queste righe alla preziosa professoressa Sandra Scagliotti, console onoraria del Consolato della Repubblica Socialista del Vietnam di Torino e di cui sono orgoglioso membro.

Quando vivevo nel Texas, ma soprattutto poi quando andai ad abitare nel sud della California ebbi la possibilità di conoscere la cultura vietnamita un po’ più da vicino grazie alla massiccia presenza della diaspora.
Nella rovente Dallas, mi piaceva fare la spesa all’Hong Kong Market sulla Pioneer Parkway di Grand Prairie o al Cho Saigon sulla Collins St. ad Arlington.

Di quei luoghi ricordo il profumo inebriante e zuccherino della frutta tropicale. Ricordo le varietà a perdita d’occhio di pesce e frutti di mare. Ricordo l’emozione palpitante che provavo nel percorrere le corsie delle spezie, dello scatolame e dei tè.

Nell’afa soffocante di quell’angolo di Texas rurale dove mi sono ritrovata a vivere, conobbi Tran e il suo sfortunato figlio Lance.
Tran era nata in Vietnam ma viveva lì, in quell’angolo desolato di Texas dove spadroneggiano i campi di mais e un sole infernale, e sulle spalle portava dolore. I suoi occhi lo rispecchiavano. Capelli neri dritti e lunghissimi, occhi malinconici, carattere taciturno. Chiedeva sempre di essere chiamata Lyn, forse per desiderio di appartenenza o forse perché era stufa di sentire il suo bel nome vietnamita venir mal pronunciato. Chissà.

Tra noi non ci fu simpatia. Sono cose che succedono tra esseri umani. Eppure, nonostante la sua ritrosia, m’incuriosiva.

Abbassò leggermente la guardia un giorno portandomi un durian. Ed ecco ritornare quelle note ammalianti di frutta tropicale, di posti lontani, umidi e roventi. Non disse molto se non che si trattava appunto di un frutto molto amato dalle sue parti ma che gli stranieri accoglievano spesso con disgusto. Non è un frutto semplice, in effetti. Un po’ come Tran.
Una buccia dura e ricoperta di spine appuntite rende difficile maneggiare il frutto ed aprirlo. Ma esso al suo interno contiene una polpa dall’odore pungente e poco invitante che però, assaggiata, sorprenderà con la sua inaspettata dolcezza.

A San Diego avrei ritrovato il Vietnam attraverso la sua diaspora californiana, attraverso scodelle fumanti di Phở, fragranti Bánh mì acquistati sulla Convoy St. e la Miramesa Boulevard. E poi quel caffè straordinario che i vietnamiti della diaspora preparano con il Café du Monde a base di cicoria tostata e caffè.

Sapori e suggestioni vietnamite che avrei ritrovato qui nella mia cara Torino, al mio amato Consolato vietnamita dove in estate è possibile avere un assaggio di quella straordinaria cultura attraverso libri, giornali e ottime bevande tradizionali.

Video girato da me, al caffè all’aperto, del Consolato. In preparazione, un tradizionale Cà phe den caldo. Il tutto condito dall’edificante lettura delle straordinarie pagine della rivista Mekong.

Sono fiera di dirvi che la professoressa Scagliotti mi ha affidato il compito della correzione bozze di una sua opera che verrà pubblicata a breve: una raccolta delle lettere di pace di Ho Chi Minh.

E mentre mi immergo nella lettura degli accorati appelli alla pace, all’armonia, alla collaborazione, alla solidarietà di uno dei più sinceri sostenitori della libertà, fuori il sole infuocato di agosto risucchia con ira ogni goccia d’acqua e ogni pennellata d’ombra.

Parte della mia personale collezione di riviste Mekong e altri libri sul Vietnam. Tutte magnifiche pubblicazioni che potete acquistare direttamente al Consolato.

Leggere quegli appelli angosciati misti però ad un’incrollabile visione di pace e cooperazione tra i popoli mi ha commossa più volte. Una commozione amplificata da quanto stiamo vivendo, periodo in cui le leali sollecitazioni e inviti alla pace del grande rivoluzionario e patriota vietnamita ritrovano ulteriore profondità e rilevanza.

Nel prossimo articolo vi riporto i sapori del mio amatissimo Giappone.