Piccole cose belle

Piccole cose belle

Ricordo, con singolare nitidezza, la sensazione che mi accolse e mi accompagnò, in un soleggiato pomeriggio d’autunno, durante una mia passeggiata pigra e rilassante nei giardini del 明治神宮 Meiji-jinguu, a Tokyo. Inutile soffermarsi sui mille dettagli che attirarono la mia attenzione per la loro squisitezza: odori, sensazioni, forme e suoni.

Tutto intorno a me attraversava i filtri delle mie percezioni lasciando sempre un senso di malinconica felicità.

Un punto del vasto giardino che circonda l’antico edificio mi colpì.

Non vi era nulla in quel punto, se non un’aggraziata recinzione di legno e dell’erbetta curata.

Rimasi però affascinata da quell’angolo dove giocavano i raggi di un sole del tardo pomeriggio con i primi segni delle tenebre del tramonto. Era il contrasto fra luce e ombra, in quell’angolo solitario che mi dava l’impressione di essere triste e al contempo serena.

Da qualche parte, nella vasta scia punteggiata dalla miriade di cose perse, lasciate volutamente, sottrattemi oppure semplicemente dimenticate distrattamente chissà dove, vi sono alcune foto che scattai nel goffo e maldestro tentativo di catturare la sensazione provata.

Ma penso sia meglio non ritrovarle perché, le ricordo bene, non mostravano nulla se non un solitario appezzamento di terra in un pomeriggio qualunque.

La macchina fotografica, specie se usata da mani inesperte come le mie, non agirà mai da specchio alle sensazioni ricevute dal cuore. Anzi. Farà da secchio colmo d’acqua gelida che, versato su quelle emozioni non facilmente articolabili, ne spazzerà via ogni traccia.

E in una tranquilla e semplice sera d’autunno torinese, in una biblioteca di periferia circondata dall’oscurità di un muro fatto di alberi e case forse anonime, ho trovato sugli scaffali ben ordinati la versione italiana di 陰影礼賛 In-ei raisan, letteralmente sarebbe “L’elogio dell’ombra” di Tanizaki Jun’ichiroo.

Non amo particolarmente Tanizaki per vari motivi. La sua è una scrittura che porta il lettore ad esplorare confini della mente e dell’etica che io non voglio esplorare e che preferisco evitare. La sua scrittura mi trasmette angoscia e malessere.

Ma In-ei raisan è in una categoria a sè. Nelle sue pagine c’è poco o nulla del malessere che Tanizaki mi trasmette con le parole.

Leggendo In-ei raisan, a dire il vero, dimentico chi sia l’autore. L’autore diventa una voce senza volto e senza nome i cui pensieri, però, per la maggior parte si trovano allineati con tutto ciò che sento io e che tuttavia era relegato nell’angolo delle sensazioni non articolabili.

Non mi dilungherò sul libro e sul suo contenuto. A questo ci pensano già i vari siti di recensioni, di critica letteraria e via discorrendo.

Va precisato però che In-ei raisan è un tributo all’estetica giapponese e ai suoi canoni apparentemente piu’ volatili agli occhi occidentali.

È l’esaltazione della penombra rispetto alla luce abbagliante che sfalsa, acceca, involgarisce e sottrae, a chi osserva, ogni forma di contemplazione.

Tanizaki ci spiega come le lacche giapponesi, ad esempio, siano state create per luoghi dalla luce fioca perchè solo lì riescono a sfoderare il loro ventaglio di contrasti ebano, vermigli e dorati.

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Agli occhi occidentali una stanza tradizionale giapponese, una 和室 washitsu, appare spoglia e triste, ma in realtà e` tutto fuorchè spoglia.

Sono gli spazi vuoti dove la penombra gioca con sprazzi di luce delicata e scivolata attraverso i pannelli di carta delle porte 障子 shooji a possedere l`aggraziata bellezza che non possiamo – e non potremo – replicare addobbando ad nauseam una stanza con decorazioni e suppellettili cariche di colori e luci.

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Pur risultando a tratti schizzinosamente nazionalista, Tanizaki ci spiega ad esempio l’ineguagliata bellezza della carta giapponese che assorbe lentamente i raggi di luce anzichè respingerli come farebbe quella occidentale.

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L’autore dipinge un’immagine della donna giapponese dei tempi che furono e di come essa condusse sempre una vita riservata dove veniva protetta dagli sguardi estranei. La sua esistenza si srotolava essenzialmente fra le mura di casa, una casa ricca di stanze scure e di giochi tra luce e penombra.
E in quella penombra risaltava il candore della sua pelle, messa ancor più in evidenza dall’antica pratica dell’ o-haguro お歯黒 ossia dell’annerimento voluto dei denti attraverso una soluzione a base di ferro e aceto.
Certo, se cercate immagini di donne con o-haguro vi appariranno strane, strambe, addirittura inquietanti.

Nella cultura occidentale, in generale, il nero non viene associato a qualcosa di positivo. Nero spesso significa sporco, poco chiaro, non comprensibile.

Ma bisogna immergersi, anche se solo per un attimo, nella visione nipponica dell’epoca che vedeva la bellezza nelle lacche scure e in tutto ciò che aveva una laccatura nera.

E i denti, anch’essi laccati di nero, assumevano un grado di fascino e bellezza particolari.

E Tanizaki, a tal proposito, fa una riflessione che colpisce:

“forse erano quelle stesse donne (…) a secernere, dalle dentature annerite e dalle punte dei capelli corvini, le tenebre in cui vivevano.”

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