Lydia Origlia

Duemilaeundici

L’autunno aveva appena iniziato i suoi ricami color senape. Ero ancora impegnata disperatamente nel riordino della mia vita in frantumi. I miei pochi averi rimasti stipati in sgraziati borsoni di plastica intrecciata; il complicato ritorno in famiglia i cui spazi ormai non erano più i miei; lacrime bollenti e salate che mi bruciavano il volto ogni notte mentre mi giravo e rigiravo in quel materassino viola, diventato il mio letto di fortuna e rifugio dal tormento.

Avevo perso quasi tutto: mi erano rimasti la mia vita, la caparbietà del mio carattere, le inestimabili esperienze vissute tra America e Asia e il fuoco dello spirito giapponese che io mi porto dentro.

Un paio di libri, qualche indumento e qualche oggetto del mio Giappone. Come quel kanzashi del periodo Taishō che appare in foto e che acquistai al mercatino delle pulci nel giardino del santuario di Machida in un giorno in cui la limpidezza di un cielo senza nubi sembrava potesse durare per sempre.

17 settembre 2011

Era un sabato. Goffamente avevo stretto qualche amicizia nell’angosciato tentativo che queste potessero rivelarsi benefici unguenti per la desolazione che mi spingeva giù nei suoi spietati abissi.
Era mattina. Confusa, smarrita ma speranzosa raggiunsi queste persone in stazione dove ci aspettava un treno che ci avrebbe portate ad Albenga, in provincia di Savona.
Mi accolsero freddamente e lì pensai che forse, dopotutto, avrei fatto meglio a rimanere nel mio sonno anestetizzante.
Ingoiai il malessere e sorrisi come faccio ogni volta che provo disagio.

Albenga

Una di queste nuove amiche aveva organizzato una festa nei locali del dopolavoro ferroviario cittadino. Un momento di incontro, di svago, una medicina che desideravo con tutte le forze.
Anelavo a riassaporare la gioia della chiacchiera condita da caffè e una fetta di torta, della risata, del calore umano. Per me che nell’ultimo e devastante anno avevo solo conosciuto la paura, la solitudine, la tenebra, la confusione, lo smarrimento, la sapidità estenuante del pianto, lo stritolante senso di disfatta.

E Albenga con le sue torri e la fragranza del suo mare ci accolse con la genuinità del piccolo comune.

Era la prima volta in ben undici anni che rivedevo il mare italiano.
Alla sua vista, quando la strada improvvisamente lo disvela, piansi segretamente senza mostrare l’emozione alle mie distaccate compagne di viaggio.

La festa

Superato l’imbarazzo iniziale, quella piccola festa si rivelò come avevo sperato: un incontro di persone, una tavola riccamente imbandita, sorrisi, abbracci di benvenuto e addirittura dei regali per noi che eravamo arrivate dall’austera Torino.

Una signora con cui iniziai a scambiare due parole, una volta venuta a conoscenza della mia esperienza asiatica, mi disse un qualcosa di curioso: mi parlò di una sua amica, residente anche lei nella piccola Albenga, che di professione faceva la traduttrice dal giapponese.

Il suo nome non mi diceva granché. Avevo conosciuto la letteratura giapponese tradotta in inglese e non in italiano.
Conoscevo Keene, Seidensticker, Riggs e molti altri. Ma il suo nome mi restituiva solo qualche vaga sensazione di già sentito.

L’amica era Lydia Origlia.

La signora mi sorrise con lo sguardo di chi ha in serbo una sorpresa e in un batter d’occhio afferrò il telefono.

Lydia

Dopo una breve attesa ecco bussare alla porta qualcuno.

Era Lydia.

La ricordo perfettamente. Una donna di media altezza, snella, dal portamento molto raffinato ma non arrogante. Capelli biondi dal riccio ribelle, abiti color pastello. Qualche delicato monile d’oro. Un viso dalla carnagione diafana che una cipria perlescente rendeva quasi etereo. Una voce dal tono gentile incorniciata da occhi che armoniosamente accompagnavano il suo sorriso incoraggiante.

Un istante cristallizzato

Rimanemmo sedute una di fronte all’altra in balìa di quel leggero imbarazzo che permea nuovi incontri. Lydia mi chiese di parlarle della mia esperienza e io del suo lavoro.

Conversammo anche in giapponese e per qualche istante mi sembrò quasi che tutto fosse scomparso: la festa, le mie compagne di viaggio distaccate, la tavola imbandita, le palme ondeggianti che si intravedevano dalle finestre.

C’eravamo solo Lydia ed io.

Ma la mia ignoranza e la sua umiltà non mi permisero di rendermi veramente conto di chi avessi davanti.

Il biglietto del treno e il saluto

E’ sempre così: quando serve un pezzo di carta per appuntare qualcosa ecco che sarà impossibile trovarlo e allora bisognerà ricorrere a soluzioni di fortuna se non addirittura strambe.
Dalla borsa tirai fuori il biglietto del treno e sul retro Lydia mi scrisse il suo nome e il suo indirizzo di posta elettronica.
Il tutto con la promessa di sentirci e tenerci in contatto.

Un abbraccio, un ringraziamento per la sua compagnia e in pochi attimi Lydia svanì dalla mia vista.

Fast forward e il sapore dell’indugio

Lydia era andata via. La festa sarebbe finita di lì a poco. Ci saremmo salutate tutte e noi, cariche di regali e con il cuore addolcito, saremmo ritornate a Torino.

Passarono circa cinque anni e nel frattempo pensai moltissime volte a Lydia.
E man mano mi rendevo sempre più conto dell’importanza e del prestigio legati a Lydia Origlia e del suo contributo inestimabile alla divulgazione della letteratura giapponese nella nostra lingua, traducendo capolavori della letteratura antica e moderna di autori del calibro di Sei Shonagon, Ihara Saikaku, Natsume Soseki, Ryunosuke Akutagawa, Yukio Mishima, Fumiko Enchi, Junichiro Tanizaki, Natsuo Kirino e tanti altri.

Indugi e ancora indugi

Nel pensarla ho più volte desiderato scriverle ma il timore di disturbarla mi frenava.
Fino a quando, un giorno, stanca di autosabotarmi, tirai fuori quel vecchio biglietto del treno su cui Lydia aveva appuntato il suo contatto prima di salutarmi lì, nella sala del dopolavoro ferroviario investita dai raggi di un sole ingauno.

Un messaggio pensato, curato e scritto con sincerità. Il cuore mi batteva forte ma, con coraggio, lo inviai.

Ma quel mio messaggio, partito infuso delle mie speranze, ritornò bruscamente indietro.

Un altro tentativo. Ancora un altro. Un altro ancora. Ma i miei messaggi ritornavano sempre a me.

Lo stupore e il sapore del rimpianto

Decisi di andare sul sicuro e di chiedere aiuto ad una delle figure più autorevoli nel campo della traduzione letteraria dal giapponese all’italiano: il professor Gianluca Coci, docente di letteratura giapponese all’Università di Torino.

Andai a parlargli un pomeriggio tardi, al termine di una delle sue appassionate e appassionanti lezioni di letteratura antica.
Gli raccontai del mio incontro con Lydia e delle mail che tornavano indietro. E gli chiesi aiuto perché, pensai, sicuramente avrebbe saputo come fare a recapitarle il mio messaggio.

Ma la reazione del professore mi lasciò senza parole.

Rimase incredibilmente stupito quando raccontai del mio incontro con Lydia dicendomi che è una persona così misteriosa da aver indotto moltissimi del campo, lui stesso compreso, a credere che non esistesse!

Una donna in effetti molto molto riservata e indubbiamente gelosa della propria privacy. E’ sufficiente cercare il suo nome su Google per avere dimostrazione di questa sua incredibile riservatezza: non troverete infatti nemmeno una sua foto né video né interviste. Troverete solo tutte le opere che lei sapientemente ha tradotto più qualche informazione relativa ad un ricettario che lei stessa scrisse, dedicato all’utilizzo dei fiori in cucina.

Il professore, ancora stupito, mi disse dunque di non potermi essere in alcun modo d’aiuto.

Cercando Lydia…

Uscendo dall’aula magna dell’università, dopo questo scambio col professor Coci, provai un misto di emozioni contrastanti. Avvertivo un senso di evidente privilegio per aver potuto fare questo incontro sempre più straordinario; al contempo, però, avvisavo le note di un presentimento.
Camminavo per le vie già scure della Torino d’autunno e in bocca sentivo già il gusto acidulo del rimpianto.

Non so perché non ci pensai subito ma ricorsi alla soluzione più evidente e cioè contattai quest’amica che mi aveva invitata alla festa.

Le scrissi. Mi disse che mi avrebbe fatto sapere. Mi rispose di nuovo dicendomi che purtroppo Lydia era mancata.

Non rimandare

Se puoi fare una cosa adesso, falla. Non temere di disturbare o di essere inopportuno. Tieni i contatto con le persone fintantoché ci sono perché arriva un giorno in cui questo non sarà più possibile.

Tornai dal professore e gli diedi la triste notizia. Nel giro di pochi giorni venne a sapere che questa abilissima traduttrice era esistita davvero e che ora non c’era più.

Resta nel cuore la gratitudine per quella giornata, per quel viaggio fuori Torino, per aver potuto allontanarmi temporaneamente dalle mie tenebre, per aver rivisto il mare, per Albenga e la sua accoglienza limpida, per la festa, per le delizie gustate quel giorno, per i doni e per la possibilità del tutto inaspettata e assolutamente straordinaria che ho avuto di incontrare Lydia Origlia.

Questo scritto è a lei dedicato.