Le scuole sono iniziate e l’autunno, col suo fogliame decadente e il suo odore di legna che arde nell’aria, è ormai a un passo da noi.
Come promesso, ecco l’ultima parte del mio racconto: Le parole di Sho. Per chi non avesse letto le prime due, ecco qui la prima parte e la seconda.
Aspetto le vostre impressioni, i vostri pensieri. Lasciatemi un commento.
Buona lettura.
Yuko
Era seduta lì, su quella panchina di granito, nella quiete del santuario Iseyama Kotai di Yokohama da circa mezz’ora. Sulle ginocchia aveva un sacchetto di carta viola dai manici di corda. Lei se ne stava lì, con la schiena dritta e le mani delicatamente appoggiate sul sacchetto.
Con lo sguardo accarezzava dolcemente gli alberi lì intorno e ogni tanto chiudeva gli occhi, inspirava profondamente e poi espirava con lentezza.
Era lì, Yuko. Coi suoi capelli neri a caschetto e una piccola molletta azzurra con cui teneva all’indietro un ciuffetto ribelle. Indossava un abito di lino grigio chiaro lungo a quadri e al collo una sciarpa di seta di un pallido verde celadon.
Ai piedi, le sue amate scarpette basse nere.
Vicino a sé, sulla panchina, una bottiglia trasparente di tè verde da cui ogni tanto beveva qualche sorso per poi subito asciugarsi le labbra con una salvietta di cotone, prima di riavvitare il tappo.
Le visite in ospedale sarebbero riprese intorno alle 14. Mancava ancora un’oretta. Aveva tutto il tempo per stare ancora un po’ lì, nei suoi pensieri, in quel luogo calmo e amato. Era lo stesso santuario dove veniva con sua madre, da bambina.
La madre non era molto religiosa ma le piaceva questo posto perché lo definiva il suo balsamico rifugio dai tormenti della quotidianità. Nei momenti di maggior tensione in casa, la madre invariabilmente trovava il modo per ritagliarsi almeno un’ora da trascorrere in solitaria al santuario di Iseyama Kotai.
Ogni tanto si portava anche la piccola Yuko: le spazzolava i capelli, le metteva le sue scarpette preferite, un cappottino quando faceva freddo, la prendeva per mano e insieme percorrevano la strada fino al santuario.
Una volta arrivate ai piedi della lunga scalinata di pietra che conduce al torii di legno non verniciato, la madre si voltava verso Yuko e – sorridendole – le chiedeva sempre di ricordarsi di lei ogni volta che avrebbe fatto ritorno qui da grande.
E Yuko avrebbe fatto la stessa cosa con Akane la quale, infatti, come la madre e la nonna, era abituata a venire qui quando il male di vivere si faceva intollerabile.
La madre di Yuko non c’era più da tempo, ormai, ma il ricordo di lei era sempre vivido. Soprattutto a Iseyama Kotai.
A Yuko ogni volta sembrava di rivedere sua madre mentre si sedeva sulla panchina, proprio come faceva lei ora. Anche la madre se ne stava in silenzio a respirare quell’aria che pareva più pulita e a gioire del canto degli uccellini.
Dopo un po’ guardò l’orologio e vide che mancava mezz’ora alle due. Si alzò e con una mano teneva il sacchetto di carta viola e con l’altra si aggiustò un po’ il vestito. Prese la sua bottiglia di tè e la infilò in un angolo della sua borsetta.
L’ora delle visite
Nel frattempo, Sho si era addormentato. Il telefono era ancora per terra dov’era finito dopo il messaggio di Hiroshi. Rimase scosso da quelle parole e si sentiva responsabile di tante piccole sofferenze che aveva causato alle persone intorno a lui.
Signor Sho! Signor Sho! Si svegli, su! – lo incalzò Ueda scuotendogli leggermente la spalla e ricordandogli che di lì a poco sarebbero ricominciate le visite.
Prima le è caduto questo. – disse porgendo a Sho il telefono che miracolosamente non si era rotto, nonostante avesse preso un colpo piuttosto secco cadendo sul pavimento.
Sho si svegliò di soprassalto, afferrò il telefono e con un gesto brusco fece segno a Ueda di allontanarsi.
Allora è vero che il significato di comandante le calza a pennello! Pur senza parlare riesce ad essere scorbutico e antipatico. Ma è sicuro che il carattere del suo nome non sia quello di malattia o supplizio? – commentò sardonicamente Ueda, dirigendosi verso la finestra.
Lei forse crede che io sia solo un vecchio ficcanaso che non vede l’ora di farsi gli affari suoi. Ma si sbaglia, sa? Capisco perfettamente come si sente. Siamo più simili di quanto creda! Vuole sapere cosa ne pensi? – domandò Ueda voltandosi verso Sho.
In quel momento Sho avrebbe tanto voluto mandarlo all’inferno ma si accontentò di prendere in mano una delle riviste che gli aveva portato Hiroshi e di nascondersi dietro le pagine.
Beh, anche se fa così glielo dico lo stesso: penso che lei debba rivedere un po’ di cose. La vita a volte accelera i tempi affinché impariamo certe lezioni. – spiegò Ueda con il tono di voce di chi sta rivelando importanti verità.
Sho decise di chiedere al professor Hasegawa di essere trasferito in un’altra stanza. Non avrebbe retto un giorno di più in compagnia di questo moralizzatore da strapazzo.
Signor Nakamura, c’è una visita per lei! – annunciò la solita infermiera dalla voce squillante e i capelli raccolti in una treccia, affacciandosi brevemente in stanza.
Sho si sentì ansioso e sollevato al tempo stesso.
Dopo pochi istanti, comparve Yuko.
Sho sorrise emozionato e cercò di tirarsi su un po’ per potersi sedere.
Come stai? Come ti senti? Aspetta, ora ti aiuto. – disse Yuko con dolcezza mentre sistemava al marito i cuscini dietro la schiena in modo che potesse sedersi.
Ci hai fatto prendere un bello spavento, lo sai? Adesso dovrai prenderti più cura della tua salute. – aggiunse la moglie mentre avvicinava la sedia al letto.
Guarda cosa ti ho portato! – annunciò aprendo il sacchetto di carta viola con i manici a corda.
E da lì iniziò a tirare fuori della biancheria pulita, tutta meticolosamente piegata. Immediatamente Sho sentì le delicate note dell’ammorbidente Sarasa che usava sempre Yuko. Quello era l’odore della loro biancheria di casa. Era una fragranza leggera che ricordava il profumo di fiori e di limoni.
Ci sono un paio di pigiami, delle canottiere e dei boxer. Ti ho portato anche delle calze di cotone e un maglione nel caso avessi freddo. – spiegò premurosamente Yuko.
Sho prese il telefono e iniziò a scrivere alla moglie.
Lo sai che quel pigiama blu scuro non mi piace e mi sta stretto! – scrisse rapidamente Sho facendo segno alla moglie di guardare il testo del messaggio.
Scusami. Ero in ansia oggi quando ho preparato la borsa e ho afferrato le prime cose che ho trovato nel tuo cassetto. Ci sono però gli altri due pigiami. – si giustificò Yuko.
Va bene, non importa. Perdonami ma sono molto teso in queste ore. Vorrei tornare a casa e non so ancora quando questo sarà possibile. Nel frattempo sono costretto a stare rinchiuso qui dentro, in compagnia di quello lì. – rispose Sho nel messaggio.
Non capisco. In compagnia di chi? Di chi parli? Comunque, chiederò al professor Hasegawa di dimetterti presto, non appena avranno finito tutti gli accertamenti. – disse Yuko.
Di quel vecchio che sta lì nel letto. Si chiama Ueda ed è un emerito impiccione rompiscatole. Da quando mi hanno portato qui non fa altro che ficcare il naso nella mia vita. Non lo sopporto. – spiegò Sho il quale avrebbe anche resistito qualche giorno in più in ospedale, purché lontano da quel pettegolo.
Yuko non vedeva nessuno nell’altro letto. Non diede importanza, tuttavia, a questo Ueda. Forse era andato a fare una passeggiata in giardino sapendo che Sho avrebbe ricevuto visite.
Ancora piccole premure
Ti ho portato anche un contenitore con il porridge di riso. Alla fine, per noi giapponesi questo è sempre il rimedio migliore, non è vero? – sorrise Yuko estraendo il contenitore ermetico dal sacchetto e appoggiandolo sul comodino, vicino alla pila di libri e giornali che aveva portato Hiroshi.
E infine ti ho preparato una sorpresa con le mie mani. In realtà, avevo iniziato a fartela diversi giorni fa perché volevo regalartela per l’ufficio e invece mi tocca portartela in ospedale! – ridacchiò Yuko con fare un po’ infantile, coprendosi la bocca con la mano.
Diede a Sho una scatola tutta colorata, con spruzzi ora di giallo, ora di rosso, ora di blu e ora di verde. Lui, incuriosito, aprì questa scatola così allegra e all’interno vi trovò una piccola vaschetta porta-documenti decorata con la tecnica del decoupage di cui Yuko era praticamente un’esperta.
Lo so che non ami molto questo mio hobby e forse lo trovi stupido. So quanto tu sia critico anche del denaro che spendo per acquistare il materiale però, credimi, mi dà molta gioia e gratificazione il poter realizzare questi oggetti. – spiegò timidamente la moglie.
Sho osservava l’oggetto nei minimi dettagli e, annuendo col capo, abbozzò un raro sorriso di approvazione. Non era infatti mai successo che Sho apprezzasse una delle creazioni della moglie.
Certo, qui non ti servirà a molto ma prendilo come un incoraggiamento a guarire e a tornare presto in ufficio dove potrai trovargli un posto sulla tua scrivania! – propose Yuko con ottimismo.
Mi sto rendendo conto di quanto abbia trascurato e addirittura disprezzato le persone intorno a me. A cominciare da te. Sono molto dispiaciuto. – digitò prontamente Sho.
Affioramento di vecchi malesseri
Yuko abbassò lo sguardo e gli occhi le si riempirono velocemente di lacrime che lavarono via un po’ di quella maschera di gentile circostanza che aveva indossato fino a quel momento.
Una vita al tuo fianco, sempre a sostenerti in tutto, pur di farti felice. Ho sopportato veramente qualsiasi cosa. Come quel periodo in cui, invaghitoti di quella donna di Sendai mi dicesti di volertene andare da lei, lasciando me e Akane che era ancora piccola. Se non fosse stato per quel grand’uomo di tuo padre che ti riservò una sonora strigliata, davvero, non so che fine avremmo fatto. – Yuko ormai aveva deciso di dare sfogo a tutto quell’amaro che aveva dovuto ingoiare.
Era la sua occasione. I ruoli si erano ribaltati: Sho era costretto al silenzio e ad ascoltare attentamente gli altri.
Ma non riusciva neppure a guardare la moglie tanta era la vergogna.
Oppure quando ti lasciasti incantare dalle chiacchiere di quel cialtrone e buono a nulla di Okada che ti coinvolse nei suoi giri loschi di partite d’azzardo nelle bische clandestine di Mah Jong. Te lo ricordi quel postaccio? Quel lurido magazzino dietro la stazione, a Takababa? Ti indebitasti per otto milioni di yen e fui costretta a chiedere aiuto a miei per far fronte alle spese primarie, con Akane che aveva appena iniziato l’asilo e con quei malavitosi che ci perseguitavano per avere i loro soldi. – rincarò la dose Yuko che ormai si era stancata dei pesi.
Negli anni le mie parole – anzi, la mia voce – era diventata per te inesistente. Ti parlavo e ti raccontavo cose e tu nemmeno mi ascoltavi. Così, nel tempo e progressivamente, avevo quasi deciso di scegliere il silenzio perché tanto non te ne saresti neppure accorto. Poi, invece, lasciai stare. Fu Hiroshi, innumerevoli volte, a incoraggiarmi ad essere paziente con te e a continuare a volerti bene. – disse Yuko andando avanti a liberarsi di questi malesseri rimasti intrappolati per troppo tempo dentro di lei.
Hiroshi? – domandò per messaggio Sho.
Sì, proprio lui. Quel povero ragazzo che hai sempre detestato e ostacolato in ogni modo. Come faccia a non odiarti non lo so. Non solo non ti vuole male ma è molto in pensiero per te da quando sei finito qui. D’altra parte, se non fosse stato per lui e per quel portafoglio forse non saremmo qui ora. Vedi che le dimenticanze a volte possono essere un bene? – commentò con un’ironica stoccata Yuko, riferendosi alle tante volte in cui il marito l’aveva rimproverata per la sua presunta sbadataggine cronica.
Sho avrebbe dovuto dirle la verità, del portafoglio e del perché in realtà Hiroshi fosse rientrato a casa la sera prima.
Era tempo di verità. Era tempo di onestà.
Il sapore crudo della verità
E così le mostrò il messaggio che Hiroshi gli aveva mandato quel mattino, poco dopo aver lasciato l’ospedale.
Yuko lo lesse, spalancò gli occhi e rimase in silenzio. Poi si girò verso Sho e gli rivolse uno sguardo carico di sdegno.
Dopodiché si concentrò verso un punto indefinito della stanza e non disse una parola per un lasso di tempo che a Sho sembrò infinito.
Improvvisamente, Yuko si alzò e andò verso la finestra. Lì rimase a guardare il giardinetto dell’ospedale e quel cielo che era un assaggio di libertà per tutti: malati e carcerati compresi.
Poi si voltò di scatto, fissò il marito dritto negli occhi.
Lo sai cos’ho letto un giorno su una rivista di psicologia? – sbottò Yuko con una risata nervosa.
Ho letto che tutti coloro dotati di carisma sono in fondo dei narcisisti. Carisma e narcisismo viaggiano mano nella mano, come due amanti inseparabili. Non si può essere carismatici senza una buona dose di narcisismo e, al tempo stesso, il narcisista spesso possiede un fascino travolgente a cui pochi sanno resistere. Insomma, sei praticamente tu. – disse Yuko.
Sho, esausto, cominciò a scrivere velocemente qualcosa sul telefono.
Vorrei la possibilità di rimediare ai miei errori. Questa condizione mi ha costretto in un letto e senza la possibilità di parlare. E pensare che volevo essere io a impegnarmi in questo voto del silenzio perché mi sembrava di non venire ascoltato abbastanza. E invece la malattia ha preso le redini di questo complicato discorso e mi ha privato della mia espressività verbale per obbligarmi all’ascolto, alla riflessione, all’ammenda. È proprio vero che la vita, a volte, accelera le cose per metterti nelle condizioni di migliorarti. Me l’ha detto Ueda prima che arrivassi. – spiegò Sho.
Il porre rimedio a tutto questo dipenderà unicamente da te. Io sono sfinita, Sho. Sono stanca di vivere nella tua ombra, di dovermi sentire sempre inadeguata secondo i tuoi severi standard. E la vuoi sapere un’altra cosa? Non ti sei nemmeno accorto che non ho mai smesso di cenare: ho semplicemente preso l’abitudine di cenare dopo di te oppure a casa di Sachiko. Mi hai sempre riservato tanti complimenti per la mia cucina però, al contempo, non ti sei mai risparmiato le continue critiche quando mi vedevi mangiare. Non ti piaceva il mio modo di tenere le bacchette, mi riprendevi se aggiungevo un po’ di maionese in più sui gamberi oppure se facevo il bis di spaghetti. – Yuko non era più disposta a calpestarsi.
Senti, io ora devo andare. Akane arriverà tra non molto. Sicuramente ora è a Iseyama Kotai. A proposito, non conosco questo signor Ueda ma mi sembra una persona decisamente saggia. – aggiunse Yuko mentre si preparava ad andare via.
Akane allo Iseyama Kotai? E cosa ci fa lì? – domandò Sho per messaggio.
Se ci conoscessi bene e ti importasse veramente di altri oltre che di te stesso, lo sapresti. – concluse bruscamente Yuko mentre ripiegava il sacchetto di carta viola coi manici di corda e lo riponeva nella sua borsetta.
E in un batter d’occhio, scomparve dalla vista di Sho che, rimasto solo con il sole del pomeriggio sugli occhi, provò un senso di amarezza lacerante.
Akane
Restò lì con se stesso e i suoi fantasmi per un po’. Forse mezzo’ora o forse di più.
Papà!!! Eccoti! Finalmente ti ho trovato. Certo che questo posto è un labirinto! – esordì Akane tutto d’un tratto.
Era sempre lei, con quei capelli neri raccolti in quella consueta coda di cavallo che teneva ferma con uno spesso elastico bianco. Indossava quasi sempre abiti casual e sportivi tanto che Sho, in più occasioni, l’aveva rimproverata per questa sua sciatteria. E anche questa volta, infatti, portava una tuta nera e un semplice zainetto grigio di Muji.
Erano le tre e mezza.
Sho sorrise e tese la mano per toccare quella della figlia che afferrò quella del padre senza esitazioni.
Da una busta rossa, Akane tirò fuori una fetta di pan di Spagna alla frutta, con panna alla vaniglia. L’aveva presa alla pasticceria francese Suzette di Sakuragicho. Era il dolce preferito di Sho. Nel porgergli il dolce, però, Akane si portò l’indice della mano destra alla bocca per ricordargli che si trattava sicuramente di uno strappo alla regola di cui non fare parola con nessuno. Certamente non col professor Hasegawa o l’infermiera!
Quel professore con quegli occhiali stranissimi! Magari l’avrebbe sequestrata per poi divorarsela nel suo ufficio! – pensò divertita Akane.
Papà, non sai che sollievo saperti fuori pericolo. Lo spavento è stato davvero grande. Persino Hiroshi si è preoccupato! Non ti pare incredibile? – finì la frase scoppiando in una risata canzonatoria.
Hiroshi è un bravo ragazzo. Se non fosse stato per lui non sarei qui con te. – scrisse Sho.
È stato molto in gamba nel soccorrerti senza farsi prendere dal panico, questo è vero. Gli sono e gli saremo riconoscenti per quello che ha fatto. Però papà, devo ringraziarti per avermi aperto gli occhi e avermi aiutato a capire che non è la persona giusta per me. – si affrettò a spiegare Akane.
Ancora verità
Sho, consapevole di quanto avesse già distrutto e dei semi maligni da egli stesso gettati con troppa facilità, fece cenno alla figlia di fare silenzio, di sedersi e di guardare il telefono.
Nei messaggi, Sho rivelò tutto alla figlia. Tutto. Il suo ruolo attivo nella mancata realizzazione professionale di Hiroshi e dunque della crisi che egli stesso aveva innescato fra di loro. Le raccontò del portafoglio e del triste progetto che aveva escogitato suo genero per liberarsi da tutto.
E di quella possibilità di riscatto data, incredibilmente, dall’infarto.
Le disse di sua madre e del discorso schietto che gli aveva fatto poco prima, mettendolo inequivocabilmente davanti alle sue responsabilità.
Akane si alzò di scatto e scaraventò a terra la fetta di torta, il sacchetto della pasticceria e rimase lì in piedi, immobile, a guardare suo padre con rabbia e frastornamento.
Ma cosa ti ho fatto? Perché tutto questo?? Avevo cercato di accontentarti dando il meglio di me negli studi. Ci tenevi tanto e anche il nonno. Avrei voluto fare altro ma ero comunque grata dell’opportunità che avevo di studiare a Keio senza preoccuparmi di nulla.
Poi però ti raccontavo tante cose cercando di coinvolgerti nei miei progressi e successi ma tu avevi sempre da fare. Sempre impegnato in quelle dannate riunioni e quegli odiosi workshop alla Komyu-UP. Eri sempre lì, con quel Mikuni a parlare, parlare, parlare. Ma mai ad ascoltare. – Akane aveva anche lei iniziato il suo sfogo di malesseri mai condivisi.
Sofferenze nelle indifferenze
Dopo qualche tempo, Akane, infatti gradualmente cominciò a trascurare gli studi e a passare sempre più tempo con alcune band emergenti locali. Era attratta dal mondo della musica e le sarebbe piaciuto imparare a suonare la chitarra e cantare. Qualcuno di queste band le aveva promesso di insegnarle le basi per iniziare a prendere parte attiva nella creazione di nuovi brani.
In quel periodo, poi, quei ragazzi erano tutti in gran fermento perché nel settembre di quell’anno sarebbe stato inaugurato il primo festival della musica emergente al parco di Yoyogi, ad Harajuku, a Tokyo.
Così divenne una presenza fissa ai ritrovi degli Hiri-Hiri, una di queste band che si ritrovava abitualmente in un garage di una casa nel cuore della Chinatown di Yokohama.
Ben presto, tuttavia, le informali lezioni di musica e di canto che Akane aveva cominciato a prendere dai musicisti degli Hiri-Hiri si trasformarono in strani ritrovi dove, tra uno spartito e l’altro e tra i vassoi di sushi a domicilio e bottiglie vuote, iniziavano a girare delle piccole pastiglie.
Inizialmente le dissero che erano solo antidolorifici per sopportare i martellanti mal di testa che perseguitano i musicisti. Poi invece cominciarono a spiegarle che erano solo dei semplici aiuti per tenere testa durante i periodi di grande stress e tensione.
Akane provò una volta, poi due, tre e infine divennero un’abitudine: prima di trovarsi con questi musicisti ne ingoiava un paio e la vita le sembrava improvvisamente più leggera. La sensazione era straordinaria, di indescrivibile forza e vitalità. Le pareva quasi di poter fare qualsiasi cosa. Anche volare, se lo avesse desiderato!
Certo, poi spariva l’effetto e puntualmente scivolava in una specie di anticamera degli inferi.
Era l’effetto, breve e con conseguenze devastanti, delle metanfetamine.
Trascorreva ormai più tempo con gli Hiri-Hiri a Chinatown che a casa. Sho si era a malapena accorto della sua assenza ma aveva dato per scontato che fosse dovuta ai suoi impegni accademici.
Yuko aveva intuito che la figlia stava attraversando un periodo di crisi ma aveva scelto di confidare poco o nulla alla madre.
Akane raccontò al padre del suo incontro con Hiroshi quando ormai la dipendenza da metanfetamine la stava portando ad un irreversibile declino fisico e mentale.
Hiroshi lavorava come cuoco in uno dei ristoranti cinesi del quartiere dove si ritrovava la band.
Sho si distrasse un istante. Non capiva come fosse possibile che queste visite durassero così tanto senza che passassero mai né il dottore né le infermiere. E poi effettivamente dov’era Ueda? Forse, come aveva detto Yuko, era uscito per lasciarlo in pace coi suoi parenti? Gli sembrava piuttosto strano considerando l’elemento.
Graduali risvegli
Ristorante cinese? Hiroshi era un cuoco in un ristorante cinese? – pensò Sho stupendosi. Ora aveva capito perché gli piacesse così tanto quella cucina. Ricordava infatti che qualche volta era Yuko che si cimentava nella preparazione di quei piatti non semplici ma il più delle volte era Hiroshi. Sho non gli aveva mai badato e aveva sempre dato per scontato che stesse solo seguendo qualche banale ricetta trovata su Internet. Un modo come un altro per riempire quelle use inutili giornate a fare niente.
Hiroshi e Akane diventarono amici, in un primo momento. Lui le portava ogni sera degli assaggi di quello che aveva preparato quel giorno, aiutandola a ritrovare piano piano l’appetito che quelle dannate droghe le portavano via come ladri senza scrupoli.
Giorno dopo giorno, iniziò a prendersi cura di questa ragazza attraverso tanti piccoli gesti affettuosi che riuscirono un po’ per volta a riportare Akane verso ritmi e abitudini più normali, lontana dal disfacimento progressivo in cui erano immersi tutti i membri degli Hiri-Hiri.
Non mancò, poi, un intervento diretto quando Hiroshi telefonò a Yuko per metterla al corrente della situazione.
Akane, afferrata per un pelo prima delle tenebre, fece ritorno a casa dove riprese a sbocciare grazie alle cure amorevoli di sua madre, di una naturopata amica di Yuko e alla presenza di Hiroshi.
Nacque la robusta pianta di un forte legame d’amore tra Akane e Hiroshi, da un humus fatto di generosità, abnegazione, vero amore per il prossimo e dedizione. Erano amici prima e amanti follemente innamorati poi. Ma non era un sentimento passeggero, effimero e precariamente in bilico sul bordo della passione. Il loro era un rapporto solido, nato nell’avversità e maturato proprio in un contesto in cui una sofferenza può dare vita a una gioia.
E Sho non sapeva nulla. Non si era accorto di nulla di tutto ciò e con disgustosa superficialità aveva quasi distrutto irrevocabilmente questi preziosi equilibri, puri e sinceri.
Si faceva schifo da solo.
Tenebre e luce
Il sole aveva già iniziato a tramontare e il buio dolcemente a divorare gli ultimi strascichi di luce.
Akane era sparita. Com’era possibile che lui non si fosse nemmeno accorto di quando era andata via? Forse si era addormentato per colpa di quei medicinali che gli avevano dato dopo pranzo.
Si tirò un po’ su per prendere un bicchiere d’acqua e improvvisamente vide Ueda sulla porta, nella semi-oscurità della stanza.
Giornata piuttosto intensa, vero? – disse Ueda abbozzando un sorriso un po’ beffardo.
Quanti fantasmi ha dovuto affrontare oggi! Non le viene in mente quella frase di quel vecchio film…oh come si intitolava già? Peonia? Camelia? Ah no, Magnolia! Ecco, sì. Magnolia! Si ricorda quando Jimmy Gator, obbligato a fare i conti con i suoi fantasmi, dice che noi magari pensiamo di aver chiuso con il passato ma il passato non ha ancora chiuso con noi. – spiegò Ueda col suo solito fare un po’ da educatore.
Sho, intontito, cercò almeno di sedersi per scrivere un messaggio di risposta a Ueda. Non gli aveva mai risposto se non con grugniti e gesti.
Ma Ueda improvvisamente scomparve.
Il ritorno
Due giorni dopo, Sho era di nuovo a casa. Gli accertamenti avevano dato esito positivo e il professor Hasegawa gli aveva prescritto una dieta molto precisa accompagnata da importanti raccomandazioni per correggere le pessime abitudini che lo avevano ridotto in quello stato.
La famiglia lo accolse con gioia, con affetto e con la voglia di ricominciare tutto daccapo.
Nel frattempo, alla Komyu-UP le attività erano andate avanti secondo le disposizioni che aveva dato Sho prima di stare male. Mikuni e Kinoshita avevano preso il posto rispettivamente di vicedirettore e di segretario.
Sho sarebbe stato assente ancora per un po’.
Tuttavia, questo non gli impediva di gestire parte dei suoi compiti, anche se da casa e con comprensibili limiti.
Piano piano aveva ripreso a parlare e ne approfittò per cercare di mettersi in contatto con Ueda. Domandò al professor Hasegawa informazioni a riguardo ma questi gli disse che non aveva idea di cosa stesse dicendo. Non c’era mai stato nessun paziente di nome Ueda in quei giorni e certamente non nella sua stanza che, infatti, era stata riservata solo per lui.
Convinto che si trattasse di un fraintendimento, Sho pensò di occuparsene in seguito.
Frattanto, con grande stupore di tutti, nominò Hiroshi direttore della Komyu-UP, una decisione che avrebbe avuto effetto immediato.
Mikuni, Kinoshita e tutti in azienda rimasero sbigottiti. Ma Sho spiegò che solo uno come Hiroshi avrebbe potuto degnamente occupare quel posto. Aveva dato prova di essere un formidabile comunicatore, un vero diplomatico delle relazioni umane, un uomo umile e fedele al sentimento e ai legami della famiglia. Si può dire che da solo era stato in grado di mantenere integra la famiglia Nakamura, evitandone lo sgretolamento.
Ed era, dopotutto, una minima riparazione per tutto il dolore che gli aveva portato nella sua vita.
Avrebbe potuto, così, formarlo e al tempo stesso dedicarsi per davvero ora a sua moglie e ad Akane. E a suo genero che adesso avrebbe tenuto alto il nome della famiglia Nakamura e della Komyu-UP.
Mai avrebbe dimenticato. Mai.
In quella stanza di ospedale, una scuola di vita. In quella stanza del policlinico ricevette lezioni essenziali incontrando suo genero Hiroshi, sua moglie Yuko, sua figlia Akane.
E Ueda. Che altri non era che la sua coscienza.
Marianna Citino
Ovviamente adesso inizia la live con la scrittrice per palrare del racconto. A cosa ti sei ispirata? Sho e famiglia esistono realmente? quanto c’è di te in Yuko e Akane?
Bellissimo. Unica pecca, troppo corto. Avrei sviluppato di più alcuni passaggi.
A fine lettura resta tanto. Grazie Marianna e grazie alla tua amica per averti sbloccato.