Scrivo di getto in questo momento, in questa domenica sera di fine agosto dove l’aria ha già i primi profumi di un autunno non poi così distante. Capitoli della vita che si concludono e cicli che si esauriscono. Ma a queste fini seguono sempre degli inizi.
In un giorno in cui ho pianto in momenti diversi e in cui ho dovuto anche salutare una persona cara che si appresta ad iniziare un lungo viaggio. Un viaggio fisico ma che sarà prevalentemente interiore.
Nella mia incapacità di nascondere i sentimenti e le emozioni, ho perso la lotta contro le lacrime che infatti sono sgorgate copiosamente. Hanno vinto loro. E in quel momento, la mia cara amica mi ha chiesto di prometterle di iniziare a pubblicare i miei racconti. Me lo ha chiesto oggi, sul ponte Regina mentre la pioggia iniziava ad aumentare in intensità e sia il cielo sia le acque del Po avevano assunto malinconiche note cineree.
Le ho detto che avrei iniziato stasera, pubblicando la prima parte di un mio racconto che risale a diversi anni fa ormai.
Cominciamo così. Poi si vedrà.
Non so nemmeno se qualcuno lo leggerà. Ma se lo leggerete scrivetemi o lasciatemi un commento.
Il racconto s’intitola Le parole di Sho.
Tutto il racconto, ed eventuali altri racconti, saranno raccolti nel tag i miei racconti.
Prima parte.
Buona lettura.

Le parole di Sho (parte prima)
Aveva smesso di parlare e lo aveva fatto senza pensarci neppure un attimo.
Non era un capriccio o una risposta piccata a qualche diverbio. No. Questa volta aveva deciso che avrebbe scelto il silenzio.
Per quarantacinque anni aveva insegnato alla gente i trucchi della comunicazione efficace svolgendo la mansione d’istruttore di public speaking, come veniva chiamata l’arte del saper parlare davanti a un pubblico.
Il suo era un lavoro nato un po’ per caso quando, da ragazzo, accompagnava suo padre alle riunioni di un’azienda produttrice di salsa di pesce vietnamita, di cui era co-fondatore.
In quelle occasioni il padre diventava un’altra persona: da uomo introverso e anche un po’ burbero si trasformava in un istrione, in un abile atleta della parola che sapeva gestire con maestria e agilità discorsi complessi esponendoli con una chiarezza sbalorditiva.
Bastava che salisse sul palco, dietro quel microfono, perché tutte le paure, le ansie, le timidezze e le fragilità, sparissero dissolvendosi in un flusso coinvolgente di parole scandite con entusiasmo e grinta.
Lo osservava ogni volta con lo stesso stupore della prima occasione quando lo vide parlare in pubblico, alla fiera Dei Mille Sapori, a Hong Kong.
Il padre era stato chiamato a raccontare la lunga e rocambolesca storia della sua azienda e di come lui e il socio fossero partiti letteralmente da zero per arrivare a costruire un piccolo impero. Si sarebbe potuto pensare ad un inedito racconto alla Horatio Alger. Ma era tutto vero.
Il pubblico, in profondo silenzio, era affascinato e a tratti anche commosso. Nessuno osava neppure muoversi. Sembravano tutti sotto l’influenza di un fiabesco incanto.
Dopotutto si trattava solo del racconto del tortuoso percorso di un’attività imprenditoriale che, nonostante i tanti ostacoli, era riuscita a farcela. Una storia comune a tanti imprenditori coraggiosi.
Suo padre però aveva portato sul palco tutte le speranze, le ambizioni, le paure, gli entusiasmi, le delusioni e le aspettative disattese che, come ingredienti di un’irripetibile ricetta, avevano dato vita a una realtà commerciale di gustoso successo.
Quel discorso terminò con una pausa di pochi secondi di un silenzio assoluto e irreale che sfociò in un applauso scrosciante.
Sho era rimasto là, in un angolo della sala, seduto con gli occhi immobili, la bocca socchiusa, le mani pesantemente appoggiate sulle ginocchia e la schiena drittissima.
Suo padre era un vero maestro della comunicazione e un giorno avrebbe carpito da lui questi segreti, li avrebbe messi in pratica e poi insegnati ad altri.
Gli inizi di Sho e il brillare della sua arte
Dopo le superiori Sho non perse tempo. S’iscrisse all’università e iniziò il suo percorso accademico completamente dedicato al suo grande amore sbocciato nei tenerissimi anni dell’adolescenza: la comunicazione.
A venticinque anni, con l’instancabile aiuto di suo padre, avviò una piccola scuola – la prima e unica nel suo genere a Yokohama: la Komyu-UP, scuola di public speaking e comunicazione efficace.
La scuola avrebbe riscosso un successo travolgente diventando una pioniera del settore. Dopo la Komyu-UP solo tanti imitatori e spesso nemmeno tanto bravi.
I migliori istruttori lavoravano tutti per Sho e chi voleva anche solo sperare di avere una chance in questo campo doveva necessariamente passare dalla Komyu-UP.
Quarantacinque anni trascorsi a parlare e a far parlare, a insegnare l’autocontrollo, la giusta postura, le impostazioni del sorriso e della voce.
Quarantacinque lunghissimi anni all’insegna della parola.
Decisioni
E adesso aveva deciso che quelle stesse parole, che fino a quel momento erano state la sua miniera, sarebbero finite ingabbiate in un gigantesco contenitore dai muri di silenzio.
Non avrebbe più parlato. Né con Yuko sua moglie, né con Akane sua figlia né tantomeno con quello sfaccendato di Hiroshi, suo genero.
Nessuno più alla Komyu-UP avrebbe sentito la sua voce.
Tanto sapeva che a casa, in quel manicomio che era casa sua, nessuno si sarebbe neppure accorto della sua silenziosa presa di posizione. Yuko avrebbe continuato a cinguettare di scemenze – il decoupage e l’ikebana – mentre sua figlia e suo genero sarebbero sicuramente andati avanti a dissolvere le proprie esistenze nei mari di pixel in cui annegavano.
Vuoi che ti prepari la colazione? – gli chiese Yuko la mattina seguente, poche ore dopo quella scura parentesi di contemplazione in cui era maturata la decisione del silenzio.
Ovviamente non vi fu risposta ma Yuko, che tanto non prestava mai attenzione alle parole del marito, agì come se una risposta ci fosse stata veramente.
E andò in cucina. Nel giro di venti minuti apparecchiò il tavolo con una scodella fumante di riso al vapore, una scodella rossa di zuppa di miso, un pesciolino alla griglia e del cetriolo sotto sale.
Sho, la colazione! Sbrigati! – gli aveva intimato con voce un po’ seccata. Erano già le sette e se non si fosse dato una mossa sarebbe arrivato tardi in azienda.
Contemplazioni
Ma Sho era ancora nel letto, disteso sulla schiena e con le braccia incrociate dietro la testa, a fissare un punto indefinito nello spazio.
Di scatto si alzò e – appoggiandosi con una mano al muro – s’infilò quelle morbide pantofole a quadretti verdi e blu che tanto amava.
Arrivato al tavolo della cucina, Yuko lo accolse con una raffica di discorsi ingarbugliati che però lei gli presentava con l’affannata solennità che la contraddistingueva.
Mentre lavava le pentole, blaterava di insulsaggini: del tofu troppo molle che aveva comprato il giorno prima da Isetan, di quell’oca di Sachiko che era sempre lì a farsi la permanente, della colla apposita per decoupage che aveva ordinato dal Canada, del gatto lagnoso dei vicini e tanti altri argomenti tranquillamente dimenticabili.
La colla dal Canada! Con tutta la colla che abbiamo qui in Giappone lei ordina la colla dal Canada. – pensò infastidito Sho riferendosi in realtà all’atteggiamento spendaccione di sua moglie.
Sho aveva finito la colazione e – sorseggiando lentamente una tazza di tè verde – se ne stava con lo sguardo quasi inebetito ad osservare la grande quercia che fiera sorgeva proprio davanti alla finestra della cucina. Pigramente si voltò e gettò un’occhiata in soggiorno dove vide Hiroshi sdraiato sul divano a rimbambirsi – già di prima mattina – sul tablet.
Akane non c’era. Testarda che non era altro. Sicuramente era andata a fare qualche ora a casa della vecchia signora Inoue che viveva sola in fondo alla strada, proprio vicino alla locanda Tsubame. Di accettare soldi dal padre non ne voleva sapere e preferiva guadagnarsi da sola i soldi per provvedere a se stessa e a quel fannullone di suo marito. Questo, pensava Sho, la rendeva meritevole di onore ma al contempo anche tanto stupida.
Intanto, in sottofondo, continuava a scorrere il fiume impetuoso di frivoli discorsi di Yuko che non si era ancora neppure accorta che il marito non aveva detto una parola da quando si erano svegliati.
È ora di avvisare i dipendenti
Quel giorno Sho avrebbe dovuto però trovare il modo di spiegare alla Komyu-UP il suo comportamento. Loro lo stimavano e quindi meritavano spiegazioni.
Cari colleghi e collaboratori,
vi sorprenderà questo avviso, lo so, ma ho preso una decisione: da oggi osserverò il più rigido silenzio. Ho bisogno di riflettere. Per qualunque cosa, mandatemi un e-mail perché, fino a quando ne sentirò la necessita, non risponderò più a voce. So di poter contare sulla vostra comprensione profonda.
Sho
L’avviso, inviato a tutto lo staff dello Komyu-UP oltre che stampato e affisso in bacheca la sera precedente dopo la chiusura, fu accolto con stupore e confusione.
Sia gli istruttori sia gli impiegati dell’amministrazione pensarono subito si trattasse di uno scherzo tanto che uno di loro – il capo contabile Takahashi – ridacchiando staccò il foglio dalla bacheca, lo strappò e lo buttò nel bidone della carta.
Però come spiegare la mail che arrivava proprio dalla casella di posta di Sho?
Non servirono spiegazioni perché , mentre lo staff era ancora nell’atrio a discutere concitatamente del fatto, arrivò Sho a passo svelto. Era in ritardo ma nessuno guardava l’orologio perché l’argomento centrale era un altro.
Tutti smisero di parlare e si voltarono a guardarlo con occhi pieni di stupore ma anche di smarrimento.
Sorridendo, Sho fece un leggero inchino di saluto e, togliendosi una vistosa giacca giallognola, si diresse verso il corridoio.
Lo staff seguì i suoi movimenti con lo sguardo finché Sho non scomparve dietro la porta del suo ufficio.
Interrogativi e comprensioni
In effetti non aveva detto niente e questo era veramente bizzarro. Proprio lui che era solito salutare lo staff a gran voce incoraggiando tutti con una frase che amava ripetere all’infinito: “Buon lavoro a me e buon lavoro a voi!”
Sho, il grande oratore degno allievo di suo padre e fondatore della Komyu-UP ora era muto. Volontariamente muto.
Le attività alla Komyu-UP ripresero in maniera abbastanza regolare anche se, per forza di cose, fu necessario trovare qualcuno che sostituisse Sho nelle lezioni.
Il clima era sereno solo in apparenza perché nascondeva una tensione data dall’interrogativo. In realtà quasi nessuno, tranne una persona, aveva capito il senso del silenzio autoimposto di Sho.
Furono infatti azzardate mille ipotesi. In mensa, durante la pausa pranzo, ad ogni tavolo non si parlava d’altro. Si passava dalle ipotesi più plausibili alle congetture più bislacche come quella secondo cui il vero Sho sarebbe morto e il falso Sho, quello muto, si troverebbe a capo della scuola ma non in grado di rivelare la propria identità.
L’unico ad aver compreso perfettamente il suo gesto era il professor Mikuni, il responsabile dell’ufficio didattico. Il professore aveva alle spalle una carriera lunga e onorata ma certamente non priva di momenti di profonda crisi e sconforto. Nel corso della sua esperienza aveva compreso tante verità ma anche tanti paradossi legati alla loro professione. Uno di questi paradossi lo aveva portato, diversi anni prima, a ritirarsi in un monastero Zen a Odawara nella speranza di rimettere ordine in quel grande caos che aveva in testa.
Il professor Mikuni aveva capito, infatti, che più si parlava e meno si diceva.
Riorganizzazioni e ostinate quotidianità
Sho e il professor Mikuni si scambiarono diversi messaggi quella sera e quest’ultimo lo rassicurò dicendogli che non solo aveva compreso alla perfezione il suo gesto apparentemente così radicale e stravagante, ma che si sarebbe occupato personalmente di quella parte di lavoro che ora Sho non poteva più svolgere.
Sho decise di prendere un mese di vacanza. Era tanto, lo sapeva, ma lui era il proprietario dopotutto e poteva decidere. Inoltre aveva incaricato Mikuni e Kinoshita di sostituirlo durante la sua assenza.
A casa, incredibilmente, ancora nessuno si era accorto del suo silenzio.
Yuko stava via mezze giornate per partecipare a quei corsi inutili sulle composizioni floreali mentre Akane ormai andava sempre dalla signora Inoue. E Hiroshi? Quello scansafatiche, gira e rigira, era sempre a casa a poltrire sul tablet oppure a bighellonare ai giardini con altri sfaccendati del quartiere.
Era come se Sho fosse invisibile. In casa sapevano che lui solitamente usciva intorno alle 7:10 e rientrava verso le 18. All’ora del rientro Yuko, meccanicamente, lo aspettava nel genkan per salutarlo e porgergli quelle comode pantofole che erano uno dei pochi piaceri reali in quella casa. Ma lei subito spariva dietro la parete che separava l’ingresso dal soggiorno per tornare in cucina dove certamente preparava diligentemente i pasti – questo non glielo si può negare – ma dove passava anche un numero esagerato di ore dietro infiniti lavoretti di decoupage che puntualmente ricoprivano il tavolo.
Yuko
Sho era abituato a farsi il bagno prima di cena e per questa ragione, non appena tornava dal lavoro, poteva andare direttamente in bagno e trovare la vasca pronta con già dentro i sali marca Bab al profumo di bosco che tingevano l’acqua di un verde giada molto leggero e riempivano l’aria con gli effluvi balsamici del pino e del cipresso.
Sho e Yuko cenavano raramente insieme perché lei da anni si autoprescriveva una dieta che prevedeva solo la colazione e il pranzo. La cena, per Yuko, era una tazza di tè.
Akane a Hiroshi non avevano orari e spesso andavano da Tsubame per un ramen oppure per un gyūdon.
Morale della favola: ognuno se ne stava per i fatti propri e le rare volte che ci si ritrovava nella stessa stanza o uno o l’altro era perso nel solito mare di pixel.
Ti ho preparato il nikujaga . C’è anche un po’ della frittata di ieri sera. Per dolce, la macedonia con le fragole che mi ha portato stamattina Sachiko. – disse Yuko a Sho che aveva appena fatto il bagno ed era in accappatoio.
Ah sì, Sachiko! Non era quella che passa tutto il tempo a farsi la permanente? Beh, tanto cattiva non deve essere se ci porta le fragole! – pensò sarcastico Sho.
Ti spiace se anche stasera non ceniamo insieme? Beh lo sai che io di solito a cena non mangio. Andrò a fare un salto da Sachiko. – cinguettò Yuko con la sua vocina squillante.
Sho si limitò ad annuire col capo e Yuko nemmeno se ne accorse: lei era già salita su in camera a prepararsi.
Che moglie strana, Yuko. Era bravissima in cucina. Persino sua madre aveva ammesso, con non poca fatica, che la nuora era più in gamba di lei ai fornelli.
E la casa era uno specchio. I cassetti della biancheria tutti meticolosamente in ordine e non c’era una virgola fuori posto.
Era stata una mamma modello e infatti Akane le era molto affezionata. Quelle due, quando ci si mettevano, erano di una complicità eccezionale.
Però verso Sho era sfuggente. Eppure lo amava e gli dimostrava il suo affetto in tanti modi. Glielo mostrava ad esempio preparandogli tutte le mattine un o-bentō molto curato; glielo dimostrava con tante piccole premure che, ne era certo, erano la sua costante e rinnovata dichiarazione d’amore.
Ma lei rimaneva elusiva.
Akane
Anche questa sciocchezza della cena abolita. I primi tempi lui si arrabbiava pesantemente per questo ma poi, come per tante altre cose, aveva imparato a farsi conquistare dall’indifferenza facendo propria l’arte del navigare nelle ammalianti acque della passività.
Eppure, nonostante non cenasse più col marito, lei aveva sempre cura di preparargli i suoi piatti preferiti andando anche a cercare a volte ingredienti costosi pur di farlo felice.
Come quella volta che lei andò fino a Tsukiji solo per prendere una vaschetta di anguille d’acqua salata per farne un kabayaki. Sapeva bene che Sho ammattiva letteralmente per questo piatto.
E lei non lo aveva deluso.
Erano le due di notte passate e Yuko non era ancora tornata. Akane e Hiroshi erano rientrati solo per un’oretta, il tempo di lavarsi e cambiarsi, per poi subito uscire. Sicuramente andavano da Tsubame.
Quei due – ne era certo Sho – erano destinati a vivere così, arrabattandosi e accontentandosi della mediocrità. E questo era per lui fonte continua di rabbia.
Akane, prima di buttarsi via per Hiroshi, quello sfaticato che passava le giornate per i vicoli di Shimokitazawa a far finta di essere un poeta urbano, aveva aspirazioni di non poco conto: era sempre stata un’ottima studentessa e i suoi voti eccellenti le avevano permesso di accedere all’agognato esame di ammissione all’università di Keio superandolo al primo colpo.
Per Akane quello era uno sogno divenuto realtà.
A Keio aveva scelto la facoltà di Lingue, specializzandosi in lingua e letteratura vietnamita con immensa gioia del padre e del nonno.
Aveva superato brillantemente il primo anno e si stava preparando ad affrontare il secondo quando tutto iniziò ad andare a rotoli…
Contemplazioni e parole senza suoni
Ma che ora era?
Sho si era seduto in poltrona davanti alla televisione accesa ma con il volume azzerato. Sulla NHK era in onda uno speciale reportage dedicato alla cucina italiana. Carrellate di immagini brillanti di tipici paesaggi collinari toscani erano inframezzate da brevi interviste a gente anziana, forse contadini. Muovevano le labbra ma da quelle bocche occidentali non usciva alcun suono.
Sho vedeva solo volti aggrediti dal tempo, raggrinziti dallo scivolar via di un’esistenza consumata a capo chino a dissodare la terra sotto un sole poco clemente.
Li guardava come ipnotizzato. I suoi occhi seguivano la sinuosità delle colline senesi e i colori armoniosi di quelle abitazioni così lontane dal suo mondo. Rimase in quello stato forse per un’ora quando avvertì un forte dolore al petto.
Sentì una scossa violenta come se le dita di un mostro invisibile si fossero scagliate contro il suo petto strappandogli la carne e penetrando fin verso il suo cuore che quasi avrebbero lacerato se – di istinto – Sho non si fosse premuto con le mani la zona dolorante.
Trovò un sollievo breve ma vitale.
Il dolore ritornò, con scariche più forti di prima. Gli sembrava quasi di sentire il rombo di quello spasimo che lo teneva imprigionato in una corda di impulsi elettrici.
Nel tentativo di alzarsi e prendere il telefono dal tavolo, perse l’equilibrio e si accasciò a terra dove perse i sensi.
Nell’oscurità una figura, muovendosi rapidamente sullo sfondo luminoso della TV muta, si avvicinò a Sho…
(Continua)
Grazie. Grazie per questo regalo. Sono sicuro che la tua amica ne sarà felicissima perché anche io, e non solo, sono veramente felice. Quanto abbiamo dovuto aspettare? pregare e penare?
Non vedo l’ora di leggere la seconda parte.