Akemashite omedetō gozaimasu. Questa è l’espressione che i giapponesi usano per augurarsi buon anno nuovo. Realizzato da me su cielo torinese come sfondo.

Sano e salvo non è solo una locuzione aggettivale ben nota ma è anche il titolo di una delle più belle canzoni scritte da Neffa.
Straordinario cantautore italiano nonché vero poeta urbano dei nostri tempi, Neffa mette in musica un sentire profondo che a volte sfugge persino dalla mia volubile penna.

Dotato di un raro virtuosismo artistico, riesce con la sua voce ad infondere nelle sue parole una ricchezza di sfumature inaspettata. Per me la voce di Neffa resta indissolubilmente legata ai miei anni giapponesi perché lì lo ascoltavo tantissimo. E non solo io. Ricordo che anche la mia cara amica Sakura ne rimase affascinata, pur non potendo comprendere le parole di quelle canzoni. Diceva però che le piacevano le melodie e l’espressività di quella voce.

Sano e salvo è un inno alla gratitudine. Ma è anche un inno al coraggio di rialzarsi, nonostante tutto. E ogni anno, come ogni giorno, è un bilancio della vita. A prescindere dalle ammaccature subite, si raccolgono nuove consapevolezze.

E proprio per questo penso sia una preziosa e significativa cornice in questi momenti di fine e di inizio così sentiti. Anche se, a dirla proprio tutta, è lo stesso ciclo che si ripete ogni giorno.

Se ci svegliamo la mattina siamo sani e salvi. Grazie a Dio.

Dal Giappone

In queste ore di passaggio calendaristico dal 2022 al 2023, come di consueto ho potuto fare i miei abituali scambi di messaggi col Giappone. Quattro risate con Sakura che mi ha confermato che anche quest’anno non avrebbe mangiato i piatti osechi. Li detesta e questa sua avversione mi ha sempre fatto sorridere. Infatti, non a caso, ogni anno le chiedo di proposito se degusterà qualche piatto osechi e aspetto divertita la sua invariabile risposta. Non gliene piace nemmeno uno e conoscendola normalmente opta per sapori il più occidentali possibili.

Ho parlato dei piatti osechi, cioè la tipica cucina giapponese di Capodanno, tante volte negli anni. Qualche rimando al passato qui e qui.

Dalla zia di Megumi, a Yokohama, invece ho ricevuto due scatti preziosissimi:

初日の出 Hatsu hinode ovvero la prima alba.

Il primo giorno dell’anno, in giapponese chiamato 元旦 gantan, è caratterizzato da tante cose che si fanno per la prima volta. Per la prima volta nell’anno nuovo. E queste cose hanno un nome. Vi è il primo sogno, la prima visita al santuario. E vi è anche lo 初日の出 hatsu hinode ovvero la prima alba che vedete appunto in foto.

Questo hatsu hinode mi ha fatto piangere. Conosco benissimo quelle gradazioni di arancione che dolcemente si diluiscono in un abbraccio di un blu fiordaliso fumoso per poi stemperarsi nel blu carta da zucchero di quel cielo. Quel cielo che ancora una volta s’illumina per ricominciare un nuovo ciclo.

Questo è il momento dell’anno in cui avverto più tagliente che mai la malinconia per il Giappone.

La seconda fotografia preziosa che mi arriva da Yokohama è questa:

赤富士 Akafuji

赤富士 Akafuji ossia il Fuji rosso. È il monte Fuji nella sua veste vermiglia che appare nelle primissime ore del mattino o dell’ora del tramonto quando i raggi arancioni del sole si riflettono sul manto innevato della montagna.
Il grande pittore ed incisore del periodo Edo – Katsushika Hokusai – onorò Akafuji in molte sue opere. Ed è facile comprenderne il perché.

Usagi

Il Giappone ha ereditato dalla sua maestra storica – la Cina – il sistema zodiacale che chiamano 十二支 jūnishi diviso in dodici parti, ognuna corrispondente ad un animale. Secondo questo sistema, il 2023 è l’anno del coniglio o 兎 usagi.

Il delicatissimo calendario dell’associazione Yamato di Casale Monferrato con i sumi-e del maestro Koike e le calligrafie della maestra Marchini.

L’Associazione Yamato di Casale Monferrato ha realizzato un delicatissimo calendario dedicato proprio al coniglietto del 2023. Un’unione d’intenti artistici che, tra il sumi-e di Shozo Koike e lo shodō di Vera Marchini, ha prodotto questo grazioso momento di bellezza cartacea. Un momento che ho voluto acquistare affinché ci facesse compagnia in questo anno che chissà cosa custodisce.

Camminate torinesi

Ho camminato tanto nel 2022. Tantissimo. Camminate infinite. Conosco Torino come le mie tasche non solo perché è la mia città di nascita ma anche perché ho di lei una conoscenza – potremmo dire – centimetro per centimetro. O poco ci manca, insomma.

Camminate quasi sempre in solitaria che mi portano, passo dopo passo, ora verso il Po e ora lontano da esso. Ma il Po resta un po’ l’ovile a cui far sempre ritorno. Le sue sponde antiche lambite da quelle acque che non sono mai le stesse eppure sembrano accogliermi con familiarità ogni volta.

Ho percorso in lungo e in largo la malconcia Chinatown della città rivedendo, ogni volta, i miei passi già compiuti.

Tra le tante cose che vorrei fare c’è quella di raccontare quel luogo perché va raccontato. O almeno, credo che debba essere raccontato anche da me. Perché io della malconcia Chinatown torinese offro una lettura asiatica che ha iniziato a formarsi in me da quando avevo circa quattordici o quindici anni. Svariate lune fa, insomma.

E l’altro giorno ho scelto di andare al di là dell’Eridano. Sì, perché il fiume Po è linea di demarcazione tra la Torino di sempre e quella signorile e già rarefatta. Quella delle ville collinari protette dai loro giardini e cancelli.
Ho percorso la lunga Corso Casale su cui si affacciano quelle squisite e silenziose viuzze che garbatamente salgono su per la collina: Via Bricca, Via Aporti, Via Segurana, Via Ornati, Via Romani.

Ad ogni angolo di quelle vie mi fermavo per qualche istante a guardarle. Le osservavo immaginando le vite dei loro abitanti. Poi riprendevo la mia camminata lasciando che il mio sguardo si posasse ovunque volesse: a volte su una vetrina di un negozio chiuso e altre volte lo volgevo verso il fiume che, sulla mia destra, mi accompagnava come un premuroso chaperon di altri tempi.

Un tram della linea 15 sferraglia nel quartiere Vanchiglietta, nella mia amata Torino, all’imbrunire.

Pierre Loti e le sue Giapponeserie d’autunno

E proprio in Via Romani, al bizzarro civico zero, ho scoperto L’ibrida Bottega.
Magnifica libreria rifugio, collocata sotto il livello stradale, accessibile attraverso una scala. Mi è sembrato per un brevissimo istante di essere in Giappone, in quei dedali di negozi, botteghe e ristoranti nascosti nei sotterranei o nei piani alti di anonimi palazzi.
Proprio all’ingresso, uno scaffale dedicato all’Asia. La mia amatissima Asia. Ed è lì che mi sono soffermata per una quantità imprecisata di tempo prima di proseguire nel resto del negozio.

Tra gli autori proposti, tante opere del mio Tanizaki. Stretta al cuore condita da una punta di leggero orgoglio.

E poi, nascosto tra volumi spessi e dai nomi altisonanti, c’erano le Giapponeserie d’Autunno di Pierre Loti.

Giapponeserie d’Autunno di Pierre Loti. O barra O edizioni.

Pierre Loti (pseudonimo di Louis Marie Julien Viaud) è stato uno scrittore francese che ha avuto la possibilità di visitare il Giappone in pieno periodo Meiji. Visitò il Paese per ben cinque volte, tra il 1885 e il 1901 e raccolse considerazioni del suo viaggio fatto nell’autunno del 1886.

1886, anno di nascita di Tanizaki. Fra l’altro.

Loti racconta le sue esperienze e impressioni d un Paese che fino a pochi anni prima era blindato e inaccessibile agli stranieri. Racconta quindi da una posizione di stupore, di privilegio ma anche di profonda curiosità.
Ci racconta delle sue visite agli innumerevoli templi di Kyōto, del pellegrinaggio alla Montagna Santa di Nikkō.
Ci racconta la Edo del tempo! La festa dei crisantemi, varie festività religiose e la quotidianità della gente di quel periodo.

Le Giapponeserie d’Autunno di Pierre Loti

La descrizione in quarta di copertina conclude così:
“Giapponeserie d’autunno trasmette da una parte lo stupore di un occidentale di fine XIX secolo davanti a una realtà a tratti impenetrabile, dall’altra la malinconia che nasce dalla consapevolezza che presto quel mondo dalle tradizioni millenarie svanirà sotto le spinte omologanti della modernizzazione.”

A parte qualche pennellata eurocentrica e condiscendente tipica di esploratori – scrittori occidentali del tempo, si tratta di un’opera di valore perché testimonianza diretta di un mondo che era stato completamente stravolto con la fine dello shogunato per poi scomparire, senza quasi lasciar traccia. Se non nei ricordi e nella grande coppa sublimante dell’arte.