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Doni di gennaio

Mogu-Mogu

Mogu-Mogu – bevanda thailandese

Gennaio è quel mese a cui piace trattenersi a lungo.

Se ne arriva avvolto in abiti pesanti, con in testa un berrettone bianco e ai piedi degli stivali imbottiti e abbelliti da bambineschi pom-pom dello stesso colore del suo berretto.

Si accomoda davanti al caminetto, possibilmente spaparanzandosi su una poltrona accogliente, e inizia a intessere racconti di storiche nevicate, di rocambolesche avventure in gelide bufere, di desolanti paesaggi cristallizzati in glaciali cornici.

Il tutto agitando le mani, come faccio sempre io senza quasi mai accorgermene. O meglio, me ne accorgo nel momento in cui noto come lo sguardo dei miei interlocutori inizi a seguire le rotazioni e i volteggi delle mie mani.

Nell’interminabilità che è tipica di gennaio, ho vissuto con serenità le settimane dal mio ultimo post.

A parte qualche singhiozzo qua e là, un forte raffreddore da cui solo ora mi sto riprendendo, per il resto tutto è stato dolcemente tranquillo e piacevole.

Ho ricevuto, ad esempio, l’ennesima conferma di come sia sempre il Giappone a seguirmi ovunque io vada, spesso senza che vi sia da parte mia la volontà di essere seguita.

In che modo?

Attraverso questa scatola di cioccolatini ricevuta in regalo dalla mia cara amica Dea.

scatola cioccolatini

scatola di cioccolatini

Sono i cioccolatini della Morozoff, uno storico marchio giapponese fondato da un cioccolataio russo nei primi del secolo scorso.

Dea, la mia cara e buona amica, ad una cena in Francia ha incontrato delle persone che erano da poco ritornate dal Giappone. Il periodo di festa li aveva spinti a portare pensieri gentili da portare ai loro amici e conoscenti.

E tra i pensieri c’erano appunto le scatole di metallo rosa della Morozoff, con all’interno questa cioccolatosa meraviglia:

Dettaglio cioccolatini

dettaglio cioccolatini

Vedendo l’etichetta sul retro, scritta naturalmente in giapponese, Dea ha pensato che avrebbe dovuto portare una di queste bellissime scatoline rosa di Morozoff anche a me!

Assieme ai cioccolatini giapponesi, Dea – che come già ho raccontato in precedenza – è pittrice e scultrice (qui il suo sito), mi ha anche fatto un dono speciale e assolutamente prezioso.

Se avete mai ricevuto in dono qualcosa da un artista, allora saprete cosa intendo.

Un artista esprime se stesso attraverso le proprie opere ed ognuna di esse contiene qualche fibra del suo essere.

Ricevere, dunque, in regalo un’opera significa effettivamente entrare in possesso di una parte di quella persona.

Le foto che ho non possono minimamente mostrare la bellezza strabiliante del dipinto ad olio raffigurante una giovane geisha-san che Dea ha deciso di donarmi.

Proverò a scattare foto migliori, cercando di sfruttare angolazioni più clementi che riescano a mostrare la bellezza di questo suo dipinto.

Una delle gioie che questo blog mi ha portato negli anni è stata la possibilità di poter conoscere persone a me affini.

In particolar modo, da quando sono ritornata in Italia e ho ripreso a scrivere, mi è capitato diverse volte di ricevere inviti per un caffè e due chiacchiere da parte di affezionati lettori e lettrici di Biancorosso Giappone.

Inviti che arrivano da chi abita a Torino oppure da chi a Torino ci arriva per curiosità o per affari.

È un qualcosa che, onestamente, mi stupisce sempre.

Mi sorprende il fatto che ci siano persone davvero interessate a conoscermi ed emozionate all’idea di parlarmi!

Mi sorprende, tutto questo, perché in fondo sono solo io.

E proprio giovedì scorso ho avuto il grande onore di conoscere una dolcissima persona che mi legge penso da molto tempo.

Venendo a Torino per turismo, ha subito pensato a me e mi ha chiesto – attraverso un messaggio che lasciava trasparire una certa emozione – se mi avesse fatto piacere incontrarla.

Ho accettato con gratitudine!

E così ho potuto conoscere questa cara ragazza di nome Cristiana che un treno, da Venezia, ha portato fin qui nella mia dolce e malinconica Torino dove un freddo e timido sole l’ha accolta facendo brillare il pallido color vaniglia degli edifici di Piazza Vittorio Veneto.

Abbiamo trascorso insieme alcune ore mentre io, col mio solito passo a metà tra lo svelto e l’esitante, l’ho portata a curiosare tra i quartieri a me più cari della città, passando per storici negozi colmi di delizie piemontesi fino ad arrivare alle botteghe di prodotti orientali.

Ed è proprio nel frigorifero di una di queste botteghe (la mia prediletta, per chiunque passasse da lì: Tan Than di Via delle Orfane 29) che la mia attenzione è stata catturata dalle bottiglie di Mogu Mogu, una bevanda tailandese al gusto cola e contenente cubetti dinata de coco.

Insomma, una bevanda che si beve e si mangia. Da questo, penso, derivi il nome giapponese もぐもぐ mogu-mogu, una parola onomatopeica che indica proprio il rumore che si fa quando si mastica del cibo. Tipo il nostro ciomp-ciomp, ecco.

Mogu-Mogu

Mogu-Mogu – bevanda thailandese

Mogu-Mogu

Mogu-Mogu – bevanda thailandese

E come tutte le persone che questo blog mi ha permesso di conoscere, anche Cristiana è stata così generosa da portarmi dei doni davvero molto speciali, così tanto da chiedermi se veramente io meriti queste gocce di cuore.

Come questi biscotti che mi ha spiegato si chiamano essi, per via della loro forma.

Emanano la fragranza scalda-cuore delle cose buone, fatte in casa, da una persona limpida.

biscotti

biscotti “essi” – dono di Cristiana

Sanno proprio di buono, di semplicità, di una cucina dove riflette un sole pulito che tiene per mano un cuore cristallino e generoso.

Tra i doni di Cristiana, ecco un oggetto che ho amato follemente al primo sguardo:

coppa

coppa in vetro di Murano

Un’incantevole coppa in vetro di Murano, prodotta nella sua azienda di famiglia il cui sito vi invito a visitare: Ars Cenedese.

Striscioline rosa che, come le dolci venature di un lecca-lecca, s’intrecciano fra di loro fondendosi in un cremoso abbraccio col vetro trasparente.

coppa dettaglio

dettaglio della coppa e della trama

Porto nel cuore ora il ricordo di questa ragazza di nome Cristiana, dagli occhi bellissimi, dalla voce allegra e impreziosita dal suo melodioso accento veneto.

E gennaio, nella sua interminabilità, mi ha portato anche due nuove amicizie!

Per caso, spinta dalla mia solita e mariannesca curiosità, ho scoperto un giorno che nel mio quartiere era stato aperto un negozio di biocosmesi.

Ero alla ricerca molto intestardita di prodotti realmente naturali, senza ingredienti di origine animale e che fossero realmente adatti alla mia pelle.

Il mio percorso interiore e spirituale mi ha portata ad eliminare consapevolmente molto superfluo estetico: i troppi gingilli da mettersi addosso, i troppi belletti con cui impastricciarsi, il troppo di tutto che appesantisce e nasconde chi sono per davvero.

Sono ritornata.
E sono ritornata alle cose di base, alle radici, alla semplicità e ne sono immensamente felice.

Ed esplorando questo negozio di biocosmetica, ho scoperto che era stato aperto da pochissimo.

Le due ragazze proprietarie sono due persone con cui si è instaurata una simpatia istantanea. Le ammiro per la loro tenacia, il loro coraggio, la loro voglia di mettersi in gioco e di non farsi intimidire da chi cerca di sminuire il tuo sogno.

Le ammiro per la loro grinta, il loro sapere, i loro sorrisi, la loro gentilezza genuina, la loro umiltà.

Il loro incantevole negozio si chiama La Dama Verde ed è realmente il posto giusto per chi cerca prodotti scelti con buonsenso, con cuore, con criterio, con lungimiranza e saggezza.

E tra i piccoli tesori che sono riuscita a concedermi tra i prodotti in vendita alla Dama Verde, ecco queste due delizie per il palato:

prodotti naturali

prodotti de La Dama Verde

Un tè e una tisana della Pukka, un‘azienda inglese specializzata appunto in tè e tisane provenienti da agricoltura biologica ed equo-solidale.

La scatola grigia contiene un Earl Grey dalle spiccate, ma delicate, note di lavanda e l’altra confezione una tisana fiabesca che profuma di mela, cannella e zenzero.

Due esplosioni di mirabili effluvi che riflettono, per come interpreto io sempre le cose, questa nuova amicizia nata con due ragazze che ammiro e che mi fanno sempre sentire ben accolta e stimata.

Se siete a Torino o da qui passate, andate alla Dama Verde. Sarà uno dei posti dove percepirete la purezza della passione per un progetto, per un’idea, per un sogno. Lì percepirete l’armonia del credere in qualcosa e portarlo avanti con fierezza.

Le luccicanti gemme del quotidiano

曲げワッパ弁当箱 Magewappa-bentoobako

曲げワッパ弁当箱 Magewappa-bentoobako

È passata l’estate.

È arrivata, si è accomodata col suo solito fare allegro e ridanciano, ci ha intrattenuti con un alternarsi di piogge e soli cocenti … e poi si è rialzata pigramente dalla poltrona su cui si era spaparanzata con molta naturalezza.

Ha afferrato il suo foulard bianco, si è rimessa i suoi occhialoni da sole un pò retrò ed è sparita.

Al suo posto, come tutti già sapevamo, è arrivato l’autunno, una stagione sempre poco ben accolta per svariati motivi.

Poco prima che finisse l’estate, in quei giorni in cui però già si’percepivano nell’aria i primi profumi dell’autunno, un mercoledì pomeriggio ho invitato la mia cara amica Dea a condividere con me una sorta di pranzo/merenda, ai Giardini Reali qui a Torino.

Avevo bisogno di sapori, forme, colori e sensazioni giapponesi. Ne sentivo la necessità.

Per l’occasione, ho utilizzato una scatola da bento dalla storia e dai ricordi dolce-amari.

Un 曲げワッパ弁当箱 magewappa-bentoobako dai colori scuri, dall’aria retrò e dal sapore 昭和 Shoowa.

L’avevo acquistato in Giappone qualche tempo prima di andar via. In preparazione al mio viaggio per l’Italia – e che si sarebbe poi rivelato definitivo, solo che ancora non lo sapevo – decisi di portarmi in valigia questo magewappa e un altro bento tradizionale acquistato dallo stesso artigiano.
L’intenzione era quella – e sorrido ripensando alla mia ingenuità di allora – di preparare un bento da condividere magari con mia mamma o qualcuno di caro in un bel parco torinese come può esserlo quello del Valentino.

Tutto il resto è storia, ma nel dolore del tutto i due bento se ne rimasero chiusi prima in valigie e poi in cassetti senza mai e poi mai avere il piacere di svolgere la loro funzione. Anzi. Erano una rappresentazione tangibile del mio dolore, della mia sofferenza e per questo motivo non riuscivo a trovare il coraggio di godermeli come avevo tanto sperato in quel mio lontano pomeriggio in Giappone quando, vedendo questi due bento, rimasi ammaliata dalla loro bellezza retrò che racchiudeva molto semplicemente tutta la sobria eleganza tradizionale del Sol Levante che sento così mia.

Insomma, l’idea di invitare Dea a fare una bento-merenda con me ai Giardini Reali era l’occasione giusta per rafforzare la nostra già bella amicizia e per liberarsi dalle ragnatele che si formano sulle cose che releghiamo in angoli dimenticati di vecchi dolori.

Quel bento era stato scelto dal mio cuore per essere usato, apprezzato, vissuto ed era quindi giusto che così fosse.

Nel cuore, nello spirito e nel corpo sono guarita. Ho una vita nuova, piena di gioia e di soddisfazioni. Un cuore ricolmo d’amore più che mai e più di prima, una cerchia strettissima ma selezionata di amicizie preziose e altri tesori.

Quindi sì, era proprio ora di tirare fuori quel bento dalla sua scatola di cartone bianca e rossa pinzata con grossi punti di rame e scartarlo dal suo involucro di carta quasi velina che fino a quel momento lo aveva custodito amorevolmente.

Il bento pronto, poco prima di uscire di casa:RIMG1392

Nel ripiano di sinistra: veg-burger, tamagoyaki, un coniglietto di peperone giallo, olive e pomodorini.
Nel ripiano di destra: due onigiri (uno spolverizzato con 塩こしょう shio-koshoo o sale e pepe giapponese e ripieno di pasta di umeboshi; l’altro abbellito da una fogliolina di basilico e ripieno di おかか okakao katsuobushi mischiato a salsa di soia), pomodorini e qualche uvetta.

Assieme ai bento relegati nel dimenticatoio del dolore, vi erano anche questi picks a forma di 簪 kanzashi:

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Ed eccoli all’opera:

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Seduta su una panchina verde mentre un cielo si velava dietro spesse coltri di nubi grigiastre, ero felice di poter assaporare questo piccolo pasto con Dea e di poter finalmente gioire della semplice ma preziosa gioia di un bento amorevolmente preparato e condiviso.

E di poter chiudere un ennesimo cerchio.

Mentre quel cielo si nascondeva dietro le pesanti nuvole pregne di un acquazzone mai arrivato, i sapori erano puliti, chiari, limpidi e parlavano della genuinità delle cose.

Per strada si perdono amori, amicizie, luoghi e oggetti, ma si acquisisce di nuovo tutto. Non si perde nulla, si cambia solo. O meglio: si perde ciò che ci appesantisce e ci insozza e si acquisisce ciò che fa emergere il meglio che è in ognuno di noi.

Da Dea, amica cara e a me realmente preziosa, ho ricevuto doni dal suo viaggio a Saint Tropez, tra cui questo 煎茶 sencha:

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Questo panno morbido ed una saponetta ai fiori d’arancio.

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Lo stesso giorno in cui ho ricevuto questi doni da Dea, tornando a casa e respirando a pieni polmoni i forti raggi di un sole pomeridiano di fine estate, ho deciso di fermarmi in un negozio di alimentari naturali. Sono quei posti dove amo perdermi nell’ammirare le mille varietà di spezie, di cereali, di sciroppi e burri. Sono quei posti che sembrano infondere mille e uno buoni propositi per un’alimentazione migliore, più bilanciata e più incentrata sulla qualità e sulla preziosità del momento anziché sulla quantità, la moda o altri criteri poco saggi.

Tra le corsie disordinate ma rassicuranti nel loro caos, ho trovato questo libretto di poche pagine ma così carino e dolce da non poterlo ignorare:

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Al suo interno vi sono ricette semplici e sane che dovrebbero poter essere preparate anche da bambini (sotto naturalmente la supervisione di un adulto) e che dovrebbero, al contempo, soddisfare la voglia che i bimbi hanno di dolci o cose un pò pasticciate.

Insomma, la filosofia del libretto è: ogni tanto dolci e cose pasticciate si possono concedere ai piccoli, ma limitando il più possibile il consumo di ingredienti raffinati, non biologici, ecc.

Pur non avendo figli, questo piccolo ricettario mi è piaciuto per le sue illustrazioni innocenti e rassicuranti, per i suoi testi amorevolmente autoritari e che sono un po’ come sentir parlare un genitore. Anche le sue ricette – che non so se o quando realizzerò – ma che per ora soddisfano il mio cuore.

Le gemme luccicanti del quotidiano sono tante e sono nella vita di tutti. Basta solo cercarle.

Vedo ogni giorno tanti volti cupi e musoni che spesso riescono, nella peggior delle ipotesi, a trasmettere e magari contagiare il proprio stato d’animo anche a chi solo li osserva.

In questi anni di esperienze, alcune meravigliose e altre laceranti, ho imparato a ritrovare la gioia anche nelle cose scontate.
Il pensiero, ad esempio, di fare due passi, di ammirare delle foglie che cadono da un albero, di sentire il profumo di caffè fuoriuscire da un bar, di scambiare due parole con un’amica, di fare un regalo a qualcuno riesce a rinfrancarmi.

Quando devo dare lezioni mi capita, abbastanza frequentemente, di andare in un quartiere della città dove è concentrato un alto numero di famiglie poco abbienti o in grosse difficoltà economiche.

Provenendo io stessa da una famiglia povera e avendo vissuto per buona parte della mia vita con lo spettro dello stento – tranne che per un periodo relativamente breve dove ho potuto assaggiare il sapore di una vita benestante e sgombra dalle preoccupazioni del come arrivare a fine mese – riesco immediatamente a percepire certe sensazioni e a solidarizzare con esse.

Ero in questo quartiere proprio l’altro giorno. Entrando in uno di questi palazzi, ho rallentato un pò il passo volutamente.

Il palazzo, vecchio e un pò malconcio, non attrae sguardi e non tenta i cuori di nessuno. Eppure, varcandone la sua soglia consunta, ci si trova in un microcosmo traboccante di emozioni.

Davanti a me un modesto cortiletto che – come spesso accade in stabili come questi – ospita da un lato la parte gioco per i bimbi del condominio e dall’altra garage e piccole officine o laboratori.

Una bella bambina, sugli otto o dieci anni, con lunghi capelli ricci scuri e raccolti in una ordinata coda, faceva le bolle di sapone.

Bolle brillanti che, con un pò di iniziale incertezza, si libravano in volo sfoggiando una superficie cangiante e sempre diversa. Vicino a lei, un bimbo più piccolo. Chissà, forse suo fratello.

Ho osservato per pochi istanti mentre a passo non svelto mi dirigevo verso le scale.

Quelle scale di pietra lisa e percorsa da milioni di passi. Nell’aria il profumo rassicurante e fiero del sapone di Marsiglia. Qualche raggio del sole pomeridiano arrivava un pò di qua e un pò di là, mentre io avanzavo.

Su ogni pianerottolo due appartamenti e ogni appartamento una porta.

Molte di queste famiglie, perlopiù straniere, sembrano essere numerose a giudicare dal vociare a volte allegro altre volte lamentoso di bambini di varie età.

Alcune di queste porte rimanevano spalancate ma davanti cui, per rispetto, mi voltavo per non infrangere coi miei occhi le loro case.

Da ognuna di queste case arrivavano gli odori della quotidianità: cibi che qualcuno stava preparando; l’odore della biancheria appena lavata; la fragranza di un caffè; l’odore della vita che si vive giorno per giorno.

Gli odori erano accompagnati dai suoni della vita semplice di famiglia: il tintinnio di posate e stoviglie; l’apertura e chiusura di cassetti; il clac-clac di zoccoli e tacchetti; il gracchiare di radio oppure di qualche programma televisivo; il vociare a volte vivace di discussioni condotte spesso in lingue a me incomprensibili.

Da una di queste case è spuntata una bambina che, dal pianerottolo, ha alzato gli occhi per guardarmi e con la spontaneità e sincerità dei bimbi mi ha salutata con un brillante “Ciao!” accompagnato dal gesto della sua manina.

Naturalmente ho risposto con grande piacere al suo saluto, ricambiandolo prontamente e sorridendole mentre, gradino dopo gradino e con un pò di fiatone, ero quasi arrivata a destinazione.

È bastato entrare nel portone di un palazzo qualunque, di una zona qualunque della periferia torinese spesso intrisa di grigiore e scoraggianti prospettive, per uscirne col cuore gonfio di contentezza.

E ieri, da Monica, mia cara amica, ho ricevuto questa delizia: una marmellata giapponese di fichi prodotta nella città di 尾道市 Onomichi-shi nella prefettura di 広島 Hiroshima.

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