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Cucina giapponese casalinga: 湯豆腐 Yudofu o tofu bollito

Tofu sbollentato

Un saporitissimo yudofu, un confortevole piatto con cui riscaldarsi durante i mesi freddi.

Tofu. Basta nominarlo per assistere a reazioni assai divergenti: per alcuni è una gradevole presenza nel panorama gastronomico occidentale moderno mentre per altri è solo sinonimo di insipidezza e di triste sostituto di qualcosa.

Facciamo chiarezza.

Il tofu 豆腐, o cagliata di soia proprio perché ricavato dal latte di soia coagulato, non è certo un alimento nuovo, frutto di qualche moda passeggera riproposta con ossessione fino allo sfinimento. Può sembrare uno di quei cibi alternativi capaci, chissà poi perché, di conferire una sorta di aura semi-snob gastronomica a chi lo consuma. Questo  fenomeno credo sia dovuto al contesto di cui questo alimento si è sempre ritrovato a far parte, ovvero la scena salutistica e quella esotico / etnica.

La prima è forse quella capeggiata inizialmente dai primi passi pionieristici in Italia della macrobiotica. Il tofu, nella scena salutistica, è visto come alimento sano e come fonte di proteine, ferro, sali minerali e tanto altro. Negli ultimi anni, inoltre, la presenza sempre più intensa e capillare di chi osserva un regime alimentare vegetariano oppure vegano ha riportato l’attenzione del pubblico e delle aziende produttrici su questi alimenti alternativi, avvolti ancora da quel nonsoché che fa di questi cibi, agli occhi di molti, scialbe pappe da fricchettoni.

Il grande guaio, in questo primo contesto, è che frequentemente il tofu diventa sostituto di qualcosa e perennemente pacioccato e mascherato in mille modi. Lo si fa diventare finte uova strapazzate, una sorta di budino, delle polpette. Vi è addirittura chi lo usa per preparare i frappè o per sostituire il formaggio nel pesto alla genovese!  Insomma, sembra quasi che in pochi siano disposti a farvi amicizia e ad apprezzarne il suo naturale sapore perché un tofu di qualità ha un sapore, per quanto delicato e non invadente!

La scena esotico / etnica, invece, ha introdotto ingredienti quali appunto il tofu agli italiani inizialmente attraverso il comparire dei primissimi ristoranti cinesi nel nostro Paese, probabilmente a partire dagli anni Ottanta in avanti.

Se da una parte vi è chi coglie benefici dalle culture dell’Oriente e dalle sue declinazioni culinarie, a volte esagerandone leggermente le caratteristiche con fare fantasioso e irrealistico, dall’altra vi è chi è pronto a denigrare tutto ciò che non sia cucina italiana (e di cui non sarebbe contento in ogni caso perché, pur restringendo il campo alla sola cucina della Penisola, si adopererebbe subito a far emergere le stupide e mai risolte rivalità tra nord e sud, tra regione e regione, tra città e città, tra paesello di dieci abitanti e un altro paesello di altri dieci abitanti).

Eppure, come sempre, è sufficiente scostare un po la tendina glitterata della tendenza del momento per scoprire inaspettate profondità.

Documenti storici ci confermano che il tofu ha origini antichissime, con radici rintracciabili nella vecchia Cina durante il regno della Dinastia Sui, tra il VI e il VII secolo d.C.

Ma, come spesso accade con storie che si perdono nella notte dei tempi fondendosi in un abbraccio tra realtà e leggenda, anche per il tofu abbiamo vari racconti che ci narrano di un antico Imperatore, sovrano della Provincia di Anhui, che inventò il tofu; altri ci parlano di scoperte accidentali e di come qualcuno, da qualche parte nel Nord della Cina, un giorno – volendo insaporire la propria crema di fagioli di soia – decise di aggiungervi qualche pizzico di sale marino grezzo che, essendo appunto ancora grezzo, conteneva al suo interno tracce di cloruro di magnesio (ovvero il nigari にがり, l’agente cagliante tradizionalmente impiegato nella produzione del tofu); esistono anche racconti di monaci buddisti indiani i quali, ispirandosi alle tecniche casearie delle popolazioni mongole con cui vennero a contatto, decisero di applicarle al latte di soia da cui poter ricavare, così, una sorta di formaggio vegetale e compatibile quindi con la rigorosa dieta vegetariana prevista per chi segue la dottrina buddista.

Il tofu giunse in Giappone dalla Cina allo stesso modo con cui giunsero la lingua scritta e quindi i migliaia di logogrammi, ispirazioni artistiche, urbane, politiche ed amministrative, i precetti del buddismo e tanto altro. E` il cosiddetto Periodo Nara (710-794 d.C.) il momento di intenso apprendimento e ammirazione da parte del Giappone verso tutto ciò che era cinese. Le varie delegazioni inviate nel Regno di Mezzo ritornavano in Patria non solo  arricchiti di tanta nuova conoscenza e carichi di manoscritti religiosi, rotoli di preziosa carta, incensi, statue e quant’altro, ma anche di qualche delizia gastronomica come il tofu, ritenuto non solo una prelibatezza ma anche un’indispensabile fonte proteica per i monaci, rigorosi vegetariani.

Monaci a tavola.

Monaci a tavola. Immagine proprietà del sito 旭松 Asahimatsu.

È da lì in poi il tofu, in Giappone, conobbe solo apprezzamenti.

Ne esistono tante varietà, più di quanto si pensi. Un po’ come per i formaggi di latte animale, anche per il tofu esistono rinomate zone di produzione, come la Prefettura di Kyoto ad esempio.

E quasi d’obbligo che io vi rimandi a un paio tra i tanti articoli che scrissi, in Giappone, sul tofu: leggete qui e qui. E anche qua.

Il vero tofu di qualità è talmente delizioso da non aver bisogno di maschere o camuffamenti. Lo si può tranquillamente gustare al naturale, senza interferenze di alcun tipo.

Ricordo, ancora con lacerante nostalgia, vaschette di tofu freschissimo che acquistavo al supermercato di zona. Quel tofu era cosi puro e cremoso da poter essere gustato con un semplice cucchiaino, quasi come se fosse un dolce.

Ma arriviamo finalmente, e dopo questo necessario prologo storico / mitologico, alla nostra ricetta di oggi.

Dobbiamo precisare, pur semplificando di molto, che nella cucina giapponese le varieta di tofu più comunemente usate sono due: momen-dofu 木綿豆腐 e kinugoshi-dofu 絹ごし豆腐.

Il primo è tofu avvolto in una mussola di cotone e pressato. La parola momen 木綿 infatti significa cotone. Questo tofu è sodo ed è il più facile da maneggiare con le bacchette, sia in cottura che durante il pasto. Incidentalmente, la maggior parte dei tofu attualmente in commercio in Italia attraverso la grande distribuzione è momen.

Il kinugoshi, invece, è il tofu vellutato o cremoso. Si presenta sempre come un blocchetto, ma ha una consistenza molto morbida, come quella di un budino. Questo è il tofu utilizzato normalmente a cubetti nella zuppa di miso e a tal proposito vi rimanderei qui. Il kinugoshi è reperibile in Italia, ma va cercato un po’ più attentamente rispetto al parente momen.

La ricetta di oggi è una variante semplice e molto saporita dello Yudofu 湯豆腐 o tofu bollito, piatto ideale per la stagione fredda.

Vediamo come procedere.

Yudofu 湯豆腐

Ingredienti per 4 persone circa

Ingredienti Yudofu.

Ingredienti per lo Yudofu.

1 pacchetto di kinugoshi-dofu o tofu vellutato

3 cucchiai di salsa di soia

1 cucchiaino di ichimi-togarashi o peperoncino in polvere

1 cucchiaino di olio di sesamo

1 cucchiaino di semi di sesamo tostati

1 cucchiaio di cipollotto verde tritato

Ho trovato del buon tofu vellutato presso il mio negozio di alimentari orientali di fiducia qui a Torino: Tan Thanh, Via delle Orfane 29. Un blocchetto di tofu fresco da circa 250g a soli 80 centesimi.

Prepariamo subito il condimento mischiando tutti gli ingredienti ossia la salsa di soia, il peperoncino in polvere, l’olio di sesamo, i semi di sesamo tostati, il cipollotto verde tritato. Mescolare bene. Otterrete un condimento profumatissimo!

Condimento per lo yudofu.

Il profumatissimo condimento con cui insaporire lo yudofu.

Riempite un pentolino d’acqua e portatela ad ebollizione, dopodiché abbassate la fiamma. Lavate bene il pacchetto di tofu e senza aprirlo immergetelo nell’acqua calda, tenendo la fiamma molto bassa.

Lasciate sobbollire per una decina di minuti.

Bollitura del tofu.

Bollitura del tofu.

Spegnere la fiamma e facendo molta attenzione a non bruciarsi, rimuovere il pacchetto di tofu dalla pentola. Con particolare cautela, aprire delicatamente la vaschetta e scolare il liquido di governo che vi è all’interno, ricordandosi che è caldissimo.

Trasferire il blocchetto di tofu sopra un piatto e tagliarlo in quattro o sei cubetti, a seconda delle vostre preferenze.

Mettere ogni cubetto in una scodellina o un piattino e guarnire generosamente con un po’ del condimento preparato.

Servire.

Yudofu o tofu bollito.

Delizioso yudofu!

Tra gli ingredienti avete visto che compare un botticino dal tappo rosso. Questo:

Peperoncino giapponese.

Peperoncino macinato giapponese.

E` lo ichimi-togarashi ossia del peperoncino giapponese macinato. Per questa ricetta, e tante altre, potete sostituirlo con del peperoncino tritato di vostra scelta.

Sempre della stessa linea, girovagando per la piccola e malconcia Chinatown di Torino (zona Porta Palazzo / Corso Regina Margherita) sono riuscita a trovare, con mia grande gioia anche due altre deliziose spezie tipiche della cucina giapponese.

Lo 柚子こしょう yuzukoshoo, una miscela di pepe e profumatissime scorze di yuzu, un aromatico agrume indigeno del Giappone.

Yuzukoshoo

Pepe e scorza di yuzu.

E il Sansho 山椒  , il pepe verde giapponese che pur chiamandosi “pepe”, da un punto di vista strettamente botanico non lo è. Ingrediente assolutamente essenziale per insaporire le anguille alla griglia, ma ottimo secondo me sul pesce in generale. Ha un sapore agrumato che ricorda il limone, ma con una punta decisamente aromatica.

Pepe verde giapponese

Pepe verde giapponese:.

Se capitate dunque in zona Porta Palazzo, a Torino, fate un giro nella nostra ancora ridottissima Chinatown, ma soprattutto da Tan Thanh che rimane, a mio avviso, il negozio migliore in quanto a serietà, professionalità, qualità dei prodotti e competenza.

Spezie giapponesi

Spezie giapponesi

Alla prossima ricetta di katei-ryoori!

E come si dice in giapponese prima di mangiare e bere:

Itadakimasu!

いただきます!

Cucina giapponese casalinga: 抹茶ぐるぐるクッキー Biscotti al matcha

Biscotti al matcha.

Biscottini guruguru al matcha.

Da dietro le quinte di questo palcoscenico dei sapori entra in scena, con un passo vellutato e regale, il 抹茶 matcha.

Si dice che il tè, ingrediente antico e imbevuto del profumo della tradizione, abbia fatto il suo ingresso ufficiale in Giappone verso la fine del dodicesimo secolo giungendo nel Sol Levante grazie ad un monaco zen di nome Eisai, il quale fu il primo importatore dei semi di questa pianta.
A quei tempi la Cina, agli occhi del Giappone, era ammirevole e lodevole modello di civiltà. Il Giappone, già da alcuni secoli precedenti ai viaggi di Eisai, inviava regolarmente delegazioni di studiosi affinché attingessero dal ricco serbatoio di conoscenze della grande e antica Cina. Questi studiosi, dunque, venivano esortati ad imparare il più possibile, dalla politica all’architettura, dalla scienza alla letteratura, dalla filosofia alla religione.

Il monaco Eisai fu una di queste persone. Proveniente da una famiglia di sacerdoti shintoisti, il giovane studiò i precetti del buddismo e presto avvertì la necessità, per vari motivi, di recarsi in Cina per poter fruire meglio degli insegnamenti buddisti traendoli direttamente “dalla fonte”. Riportò in patria molte testimonianze tangibili del suo soggiorno cinese tra cui numerosi manoscritti e i semi della pianta del tè.

Una lattina di matcha

Lattina di buon matcha

Il monaco piantò questi semi nel giardino di un tempio a Kyoto e, avvezzo ormai all’usanza cinese del tempo, cominciò a polverizzare le delicate e brillanti foglioline di questa pianta fino ad ottenerne una polvere finissima che mescolava con garbo ad acqua calda. A quel tempo in Cina si usava il tè in polvere, ma questa abitudine presto s’indebolì nel Regno di Mezzo fino a scomparire del tutto. Nella Cina contemporanea, infatti, di questa usanza restano solo tracce in documenti storici e stampe.
In Giappone, invece, la preparazione del tè in polvere, ossia del matcha 抹茶, e viva più che mai e indissolubilmente legata alla figura di Eisai e allo zen, disciplina introdotta in Giappone per primo proprio dal monaco.

La famosa cerimonia del tè, chadoo o sadoo 茶道, è un momento meditativo proveniente proprio dai tempi di Eisai, volto ad aiutare chi ne prende parte a soffermarsi sulla bellezza custodita nella semplicità.

La produzione di questo tè, tuttavia, al tempo richiedeva una lavorazione molto complessa  rendendo quindi il prodotto finito appannaggio per pochi, come i membri della nobiltà, dell’ aristocrazia e del clero i quali, essendo molto spesso amanti della bellezza, ricercavano nella ritualizzazione del matcha quella raffinata semplicità a cui anelavano quotidianamente.

Solo verso la fine del Settecento, attraverso brillanti idee ed avvincenti innovazioni, si inizierà ad accorciare le distanze tra l’elitario e regale matcha e la gente comune, arrivando pian piano fino ai giorni nostri dove il matcha – pur rimanendo un prodotto di eccellenza e quindi con un prezzo ancora alquanto elevato soprattutto in base alla varietà – ha smesso di rimanere isolato in templi ed esclusive sale da tè per entrare anche nelle pasticcerie, nei ristoranti, nell’industria alimentare e dolciaria e addirittura nelle case.

Da anni ormai in Giappone il matcha gode di stima e affetto nei repertori di cucina casalinga poiché, secondo me, rappresenta un morbido nastro che congiunge delicatamente la tradizione con la modernità, il passato con il presente, l’Oriente con l’Occidente.

E’ il rivedere e rivivere un passato lontano, regale e fiero, in un soffio di profumato tè verde in polvere.

La ricetta di oggi della nostra rubrica è quindi un tributo a questo speciale e prezioso ingrediente che amo sempre chiamare col suo nome anziché optare per il generico “tè verde” in quanto a quest’ultimo, spesso, si associa il sapore occidentalizzato del tè verde cinese che ritroviamo nei gelati e dolcini orientaleggianti.

Il sapore non è quello del matcha.

Il matcha ha un sapore vivo, fresco, di natura, di acqua, di verde, di fogliame, di terreno, di pioggia, di cicli della natura che instancabilmente si alternano.

La ricetta di oggi è un classico ormai amato da tanti in Giappone e frequentemente replicato in milioni di case da mamme e casalinghe sempre più creative:

I biscotti guruguru (questa espressione onomatopeica si riferisce al motivetto a spirale che abbellisce questi dolcini) di pasta frolla al matcha.

Un vero abbraccio tra Oriente e Occidente.

抹茶ぐるぐるクッキー Matcha guruguru kukkii 

Ingredienti:

Ingredienti per i kukiii.

Tutto quello che occorre per preparare i matcha guruguru kukii.

IMPASTO VERDE CHIARO

50g di burro a temperatura ambiente

3 cucchiai di zucchero a velo

60g di farina

1 bustina di vanillina (facoltativa)

1/2 cucchiaino di matcha

un pizzico di lievito per dolci

un pizzico di sale

IMPASTO VERDE SCURO

Replicate gli stessi ingredienti, nelle stesse quantità, elencati per l’impasto verde chiaro usando però questa volta 2 cucchiaini di matcha.

Procedimento

  1. Preparare il primo impasto, ossia quello verde chiaro: con una frusta lavorare il burro con lo zucchero a velo.
  2. A parte, unire la farina al matcha, il sale, il lievito di dolci e la vanillina se la si usa.
  3. Gradatamente, aggiungere il mix dato da questi ultimi ingredienti al burro lavorato con lo zucchero. Impastare bene fino ad ottenere una pasta omogenea.
  4. Avvolgerla in un pezzo di pellicola trasparente e metterla a riposare in frigo per una mezzora circa.
  5. Preparare l’impasto verde scuro ripetendo esattamente gli stessi passaggi appena visti, con l’unica differenza che questa volta la quantità di matcha passa a due cucchiaini.
  6. Avvolgere anche il secondo impasto in un pezzo di pellicola per alimenti e lasciar riposare in frigo.
  7. Tirare fuori entrambi gli impasti e stenderli tra due fogli di carta da forno per evitare che si appiccichino. Cercare di ottenere, suppergiù, due rettangoli di pasta della stessa misura.
  8. Sovrapporre delicatamente un rettangolo sull’altro (a voi la scelta; potete anche lavorare in due tempi invertendo i colori) e, facendo molta attenzione, iniziare ad arrotolare i due impasti su se stessi.
  9. Avvolgere i rotoli in pellicola per alimenti e riporre in frigorifero per un’ora circa.
  10. Riscaldare il forno a 180 gradi centigradi e rivestire una leccarda di carta da forno.
  11. Tirare fuori i rotoli di impasto e con un coltello affilato tagliateli a rondelle di circa mezzo cm.
  12. Disporli con attenzione sulla carta da forno e metterli a cuocere a forno caldo per 10 minuti, non di più. Non aspettate che prendano colorito. Devono mantenere la propria brillantezza del verde.
  13. Lasciarli raffreddare e servire.

E qui di seguito, parte della procedura riportata in una sequenza fotografica:

Preparazione kukkii.

Sequenza fotografica della preparazione dei kukkii.

Modellare il rotolo usando, se lo si desidera, un makisu o stuoietta di bambu.

Modellare il rotolo usando, se lo si desidera, un makisu o stuoietta di bambù.

Non sono biscotti forse molto leggeri dato il contenuto di burro non trascurabile, tuttavia soddisfano appieno il palato. Ne bastano due o tre per accompagnare, con la raffinatezza che distingue il matcha sin dai tempi antichi, un buon caffè oppure del tè nero.

Biscotti al matcha.

Biscotti al matcha.

Mi sono divertita, in questa ricetta, ad utilizzare due varietà di matcha: una è quella raffigurata in una foto un po più in alto, in una lattina di metallo e l’altro invece e un matcha proveniente dalla provincia di Shizuoka, terra ingioiellata dalle smeraldine piantagioni di tè:

Matcha

Matcha di Shizuoka

Per la preparazione dei biscotti al matcha non è certamente necessario scomodare gli utensili tradizionali generalmente riservati alla corretta esecuzione di questa deliziosa bevanda. Tuttavia, la fragranza unica di questo pregiato tè mi ha invogliata a riscoprire il mio chasen 茶筅, ossia il tradizionalissimo frullino di bambù che si usa per mescolare il te con l’acqua e creare la caratteristica schiuma.

Frullino di bambu.

Chasen o frullino di bambù.

Chasen

Frullino di bambù.

Acquistai questo chasen nella Prefettura di Chiba, a Funabashi, per la precisione.

Frullino di bambu.

Chasen di Funabashi.

Concludo avvisandovi che al momento ho alcune difficoltà con il form dei contatti che non mi permette di ricevere i vostri messaggi. Vi chiedo gentilmente, qualora vogliate comunicare con me, di lasciare un commento qui sul blog oppure di scrivermi direttamente a questo indirizzo: biancorossogiappone @ yahoo . it

Lascio volutamente gli spazi per evitare lo spam.

Alla prossima ricetta di katei-ryoori!

E come si dice in giapponese prima di mangiare e bere:

Itadakimasu!

いただきます!

Cucina giapponese casalinga: due Asazuke 浅漬け

Due asazuke.

La nostra esplorazione della cucina giapponese casalinga, facilmente realizzabile in Italia, prosegue attraverso un elemento squisitamente tipico della tavola nipponica quotidiana: gli asazuke 浅漬け.

Ricorderete, molto probabilmente, il mio discorso sulla formula ichijuu-sansai 一汁三菜 su cui si fonda l’impostazione ideale del pasto giapponese tradizionale: ichijuu sta per una zuppa (generalmente di miso. Trovate qui la ricetta) e sansai per tre piatti che possono essere di carne, pesce, verdure ecc. più la nostra irrinunciabile scodella di riso la cui preparazione ho spiegato proprio qua.

Il pasto giapponese è un delicato gioco di equilibri, colori, sapori, forme e consistenze, il tutto armonicamente scandito dalla stagionalità e dalla freschezza degli ingredienti.

Anche nella più modesta katei-ryoori o cucina casalinga del Giappone – dico modesta perché spesso confinata dietro le quinte di un palco che mette in risalto la cucina giapponese formale o quella più conosciuta alla maggioranza – si cerca di non dimenticare di aggiungere tocchi di colore, sapore ed elegante equilibrio al pasto da servire in casa.

In un classico pasto washoku, sia nei ristoranti sia in casa, spesso si incontra un elemento che sembra davvero ricoprire un ruolo minore e secondario, quasi una sorta di comparsa volendo prendere in prestito termini cinematografici: gli tsukemono 漬物.

La parola tsukemono è un termine collettivo che fa riferimento ad una grande famiglia di ortaggi di molti tipi, conservati in salamoia.

Gli tsukemono sono realizzabili con un’ampia varietà di verdure e radici,  attraverso vari metodi che vanno dal più semplice e rapido (e che vedremo oggi insieme) ai più complessi e laboriosi come il metodo nukazuke ぬか漬け che prevede la fermentazione e conservazione degli ortaggi nella nuka ぬか, una pasta di crusca di riso.

Gli tsukemono, a cui in italiano facciamo riferimento per comodità come “sottaceti”, aggiungono colore e consistenza al pasto, fornendo un buon equilibrio anche a livello di digestione. Inoltre, un po’ tutti gli tsukemono aiutano a ripulire e rinfrescare il palato durante il pasto.

C’è uno tsukemono che forse quasi tutti conoscete già: il gari ガリ, ossia lo zenzero in salamoia comunemente servito in abbinamento con il sushi. Ma il gari non è che uno dei membri di questa grande e gustosa famiglia che esploreremo, un passettino per volta, insieme.

Come vi ho già anticipato, esistono molti metodi per la preparazione degli tsukemono. Alcuni semplici e altri complessi e praticati al giorno d’oggi solo da artigiani, dall’industria conserviera oppure da pochi e pazienti amanti degli tsukemono che ogni giorno amorevolmente rivoltano, massaggiano e lasciano fermentare in apposite anfore di creta quei deliziosi bocconi di ortaggi ricoperti di nuka.

Tra i metodi però più rapidi, semplici, alla portata di tutti e che godono di maggior stima a livello domestico vi è quello chiamato asazuke 浅漬け, un metodo che prevede la conservazione di verdure fresche usando semplicemente del sale, salsa di soia e altri semplici ingredienti per insaporire, servendosi di tempi ristretti di marinatura.

Il limite qui è davvero la fantasia.

Tra gli ortaggi esistono ovviamente i favoriti nella produzione di tsukemono, indipendentemente dal metodo. Alcuni dei più amati sono i cetrioli, il daikon (o la sua buccia), le foglie di cavolo, le carote, le melanzane, radice di loto, ume, zenzero, ecc.

Oggi qui su Biancorosso Giappone vedremo insieme come realizzare due semplicissimi asazuke, uno a base di carota viola di Polignano (sostituibile con una comunissima carota arancione) e uno a base di melanzana.

Sono entrambi asazuke, ma preparati con ricette leggermente differenti.

Entrambi richiedono pochi ingredienti ma soprattutto pochissimo tempo, permettendovi di realizzare due tsukemono casalinghi deliziosi, rapidamente.

Si prestano anche come eccellenti jobisai poiché è possibile prepararli con qualche giorno di anticipo e conservarli in frigo, pronti per essere utilizzati a tavola oppure quando è ora di confezionare un bento.

Vediamo il primo asazuke.

Murasaki no ninjin no asazuke 紫の人参の浅漬け
Asazuke di carota viola

Ingredienti

Ingredienti per asazuke.

Cosa ci occorre per preparare un asazuke di carote.

1 carota viola di Polignano un po’ grande (oppure una carota comune arancione)

mezzo cucchiaino di sale marino

mezzo peperoncino, privato dei semini

Procedimento

  1. Lavare, sbucciare la carota ed eliminarne le estremità.
  2. Tagliarla a striscioline abbastanza sottili usando, se volete, la stessa tecnica illustrata per il kinpira che vi avevo mostrato qui.
Preparazione asazuke.

I passaggi della preparazione dello asazuke di carote.

3. Seguire i passaggi illustrati nella sequenza fotografica che vedete qui sopra ossia: in un sacchetto di plastica pulito per alimenti inserire la carota a striscioline, il sale e il mezzo peperoncino affettato. Chiudere il sacchetto e metterlo in una ciotola su cui poggerete un peso (io ho semplicemente usato un’altra scodella).

4. Lasciare riposare a temperatura ambiente per un’oretta. Quando fa caldo, lasciate riposare in frigorifero.

5. Servire in una bella scodellina o piattino.

Asazuke di carota.

Asazuke di carota viola di Polignano.

Per questo asazuke ho utilizzato del sale marino della Camargue, ma potete usare qualunque sale abbiate a disposizione. Nessun problema. Massima flessibilità.

Sale della Camargue.

Sale della Camargue.

Il secondo asazuke di oggi, invece, ha come protagonista la melanzana. Io ne ho usata una piccola e lunga. Tenete quindi presente che con una melanzana panciuta nostrana converrà usarne metà oppure raddoppiare le dosi del condimento che comunque, come vedrete, sono molto libere.

Nasu no asazuke ナスの浅漬け

Asazuke di melanzana

Ingredienti

Asazuke di melanzana.

Cosa ci occorre per un buon asazuke casalingo di melanzana.

1 melanzana piccola

due pizzichi di sale

salsa di soia q.b.

dashi granulare q.b. *

*Potete saltare questo ingrediente, se non lo avete. Oppure potete sostituirlo con un pizzico di paprika o peperoncino di Cayenna in polvere, pepe nero ecc.

Vi rimando, inoltre, alla spiegazione sui dashi giapponesi al mio intervento precedente, qui.

Procedimento

  1. Lavare bene la melanzana ed eliminarne le estremità.
  2. Tagliarla a metà per lungo e tagliare ogni parte ancora una volta a metà, sempre per lungo.
  3. Spargere sulla melanzana pochissimo sale, non più di due pizzichi, e lasciare riposare per un paio di minuti.
Salatura della melanzana.

Preparazione dello asazuke di melanzane.

4. Non lasciare la melanzana in compagnia del sale per troppo tempo. Risciacquarla bene sotto un getto d’acqua fredda e asciugarla.

5. Tagliarla a pezzetti piccoli e mescolarla alla salsa di soia (circa due cucchiaini e mezzo per una melanzana di queste dimensioni) e al dashi granulare. Se non usate il dashi, usate qualche pizzico di paprika, peperoncino di Cayenna, del pepe nero o anche – perché no – qualche strisciolina di scorza di limone tagliata finemente.

6. Servire in una bella scodellina o piattino.

Asazuke di melanzana

Asazuke di melanzana

Asazuke di melanzana

Asazuke di melanzana

Entrambi gli asazuke si conservano in frigo, in un sacchetto per alimenti o in un contenitore di plastica o vetro, per 3 o 4 giorni.

Concludo ringraziando Daniela del blog The Messy Luggage che ha voluto annoverare la pagina #Instagram di Biancorosso Giappone tra i profili consigliati.

Trovate qui la sua gentile e generosa recensione.

Alla prossima ricetta di katei-ryoori!

E come si dice in giapponese prima di mangiare e bere:

Itadakimasu!

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Cucina giapponese casalinga: Tamagoyaki 玉子焼き

Tamagoyaki o frittata giapponese

Un buon tamagoyaki facilmente realizzabile.

Tra i tanti piatti di cucina giapponese casalinga che ho selezionato appositamente per questa rubrica e che ho dunque intenzione di proporre non poteva mancare un vero classico: il tamagoyaki 玉子焼き o frittata giapponese. Un altro nome con cui è noto è dashimaki だし巻き. Esiste anche un’altra versione chiamata datemaki 伊達巻 che però è molto più spugnosa, dolce e sostanziosa ed è tipica dell’osechi-ryoori おせち料理 ossia della cucina di Capodanno. Mi cimentai nella preparazione di un tradizionale osechi alcuni anni fa e potete leggerne il resoconto qui dove vedrete, fra le varie delizie, anche il tipico datemaki.

Imparai a preparare il gustoso tamagoyaki in Giappone, dalla mia cara amica Akiko. Fu lei ad insegnarmi la tecnica e poi io, da sola nella mia spaziosa cucina di allora, mi esercitai molto mettendo in pratica i trucchetti e le accortezze che mi aveva insegnato.

Chi di voi mi legge da tempo forse ricorderà proprio il mio famoso articolo del 2007 intitolato “Tamagoyaki con Akiko-san” che potrete rileggere cliccando qui.

Mi piaceva molto l’idea di realizzare questa frittata dall’aria cosi diversa dal solito. Il suo aspetto apparentemente complicato la rendeva ancora più invitante.

La frittata giapponese si differenzia da quella italiana essenzialmente per due ragioni:

  1. L’aspetto: il tamagoyaki è una frittata di frittate, composta da tante frittatine sottili arrotolate l’una sull’altra;
  2. il sapore: a differenza della frittata italiana, qui non mettiamo ad esempio il formaggio. Generalmente è più dolciastra per la presenza dello zucchero e ha inoltre una nota di pesce dovuta al dashi che le conferisce quel sapore tipico nipponico. Vedremo nel dettaglio però le varie possibilità relative agli ingredienti.

Riscontro spesso molta curiosità nei confronti del tamagoyaki, una curiosità però mista a reticenza all’idea di cimentarsi nella sua preparazione perché si pensa sia troppo complessa, sia per la tecnica che per gli utensili necessari.

Quali utensili speciali saranno mai così indispensabili? – Vi starete probabilmente domandando.

La caratteristica principale del tamagoyaki è la sua forma: una sorta di tronchetto cilindrico composto da tante frittatine l’una sull’altra.

Per poter ottenere facilmente questo effetto si ricorre, comunemente, ad un’apposita padella particolare dalla forma rettangolare chiamata tamagoyaki-ki 玉子焼き器 (letteralmente significa strumento/utensile per tamagoyaki).

Ecco la mia tamagoyaki-ki:

Padella per tamagoyaki

La mia tamagoyaki-ki.

Sopra vedete appoggiate le mie saibashi 菜箸, ossia le bacchette che si usano per cucinare. Ne ho due paia, ma alla fine uso sempre quelle con la decorazione nera perché vi sono affezionata.

Bacchette da cucina.

Tipiche saibashi o bacchette per cucinare.

Posso però capirlo: l’idea di preparare con le bacchette tante frittatine sottili, per giunta sovrapposte l’una sull’altra, mette abbastanza in soggezione.

E’ facile immaginarsi scene disastrose di frittate bruciate, bacchette che volano, una cucina in disordine e – dopo tutto questo pasticcio – niente di pronto da mangiare.

Ma in realtà è molto più semplice di quel che si creda. Tuttavia, una cosa non negherò: per imparare a fare il tamagoyaki alla vecchia maniera ossia con bacchette e tamagoyaki-ki è necessario essere pazienti e fare un po’ di pratica, ma … chi l’ha detto che non possa esserci un’altra maniera leggermente più rapida e alla portata di tutti tutti proprio tutti?

E soprattutto, considerando la filosofia di questa rubrica che si propone – repetita iuvant – di illustrare classici della cucina casalinga giapponese facilmente realizzabili anche in Italia, come potevate pensare che mi sarei limitata a presentare una ricetta tradizionale senza riadattarla e adeguarla alle comuni cucine italiche?

Infatti, come vedrete, oggi vi mostrerò come realizzare un buon tamagoyaki in due modi: sia alla maniera classica sia alla maniera alternativa cioè senza bisogno di acquistare alcunché di nuovo o di non comune. Neppure gli ingredienti perché, come vedrete, sono tutti forse già presenti nel vostro frigorifero o dispensa.

Prestatemi, dunque, attenzione.

Per prima cosa eliminiamo subito la paura delle bacchette da cucina o saibashi: se le avete e le sapete usare, molto bene. Diversamente, nessunissimo problema: utilizzate tranquillamente una paletta di legno o di plastica. Non consiglio di usare forchette poiché lavoreremo con padelle antiaderenti che non vanno graffiate.

Seconda innovazione: se avete una tamagoyaki-ki, ottimo! Usatela e prendetevene cura. Se non l’avete, non crucciatevi: esistono sempre le alternative. E oggi ve ne mostro una. Volete sapere qual è l’alternativa? Una comunissima padella antiaderente.

Avete letto bene: non vi servirà avere una padella apposita da tamagoyaki, ma potrete usare una normale padella antiaderente.

Alcune precisazioni, ora, sugli ingredienti.

Di ricette per il tamagoyaki ne esistono tante. Non credo ve ne sia una corretta in assoluto. Esistono però elementi ricorrenti e comuni.

Ovviamente, le uova. Senza le uova non si può andare molto avanti col discorso. Quindi, se siete allergici alle uova, non vi piacciono o non le mangiate per motivi vostri, vi invito a provare un’altra delle ricette presenti nella mia rubrica.

Lo zucchero: il tamagoyaki in Giappone tende ad essere molto dolce, forse fin troppo per un palato italiano. Ma qui potete regolarvi in base ai vostri gusti e preferenze.

La componente liquida: a seconda delle ricette, troverete chi usa l’acqua, il dashi, la salsa di soia oppure un mix di tutto. Quando penso alla salsa di soia nel tamagoyaki la mia mente va sempre ad Akiko che mi raccontava che sua mamma, quando lei era piccola, le preparava il bento da portare a scuola. Nel bento c’era spesso il tamagoyaki che però sua mamma preparava usando la salsa di soia. La salsa di soia scurisce un po’ il colore della frittata e alla piccola Akiko questo non piaceva e quindi andava a scuola sempre un poco imbronciata all’idea di avere, nel suo bento, un tamagoyaki scuretto e non dorato come quello che avevano gli altri compagni.

Il sale: si può mettere se non usate la salsa di soia. Se la usate, saltatelo.

Per quanto riguarda il dashi, io uso d’abitudine quello granulare. Se non lo avete, preparatelo fresco seguendo le indicazioni che vi avevo riportato qui. Se non avete dashi di nessun tipo, saltatelo a piè pari e piuttosto compensate con la salsa di soia. Vi dirò come e in che proporzioni.

Come già precisato, vi farò vedere come realizzare il tamagoyaki sia alla maniera tradizionale, ossia con l’apposito padellino rettangolare  sia alla maniera riadattata per le nostre cucine ossia con un normale padellino tondo antiaderente. La procedura è esattamente la stessa; cambiano solo gli utensili.

Ingredienti per il tamagoyaki 玉子焼き.

Ingredienti per il tamagoyaki.

Tutto quello che vi occorre per il tamagoyaki.

3 uova

3 cucchiai d’acqua*

1 pizzico di sale

1 pizzico di zucchero

1 cucchiaino di dashi granulare**

olio vegetale per ungere la padella

*Se volete usare la salsa di soia, inseritela qui usando 2 cucchiai di acqua e 1 cucchiaio di salsa di soia. Se non la volete, lasciate i 3 cucchiai d acqua. Se usate la salsa di soia, saltate il sale mi raccomando.

**Se non avete il dashi granulare ma avete quello fresco (dashi di pesce, shiitakedashi o konbudashi), semplicemente usate 3 cucchiai di dashi al posto dei 3 cucchiai d’acqua. Se non avete nessun tipo di dashi, saltatelo a piè pari. Potete, se volete, compensare usando la salsa di soia nelle dosi indicate poc’anzi.

Procedimento

Per illustrarvi il procedimento, che rimane invariato sia con la padella rettangolare che con quella tonda, ho preparato una sequenza fotografica che va letta seguendo i numerini apposti sulle immagini. Segue descrizione di ogni passaggio.

Preparazione frittata giapponese

Sequenza illustrata relativa alla preparazione del tamagoyaki casalingo.

  1. In una scodella versare le tre uova, lo zucchero, il sale, l’acqua, il dashi granulare. Se usate la salsa di soia, aggiungetela ora nelle giuste proporzioni indicate.
  2. Con le saibashi oppure con una forchetta o frusta sbattere le uova. Attenzione a non incorporare troppa aria nel composto! Sbattete senza metterci troppa forza. Con le bacchette, ma lo potete fare anche con la forchetta, cercate di spezzare l’albume. Questo si fa per una questione principalmente estetica perché spezzandolo non sarà troppo visibile nel prodotto finito.
  3. Prima della cottura, preparatevi tutto: la padella, l’uovo sbattuto, una scodellina con dell’olio vegetale, un pezzo di carta da cucina, le bacchette oppure una paletta di plastica o legno.
  4. Passaggio importante: scaldate la padella, a secco, a fiamma alta per un paio di minuti dopodiché toglietela dal fuoco e appoggiatela sopra un panno umido. Questa operazione consente di portare la padella alla giusta temperatura ideale per cuocere il tamagoyaki bene senza bruciarlo.
  5. Riportate la padella sul fuoco, a fiamma questa volta medio/bassa e ungetene l’interno con la carta da cucina imbevuta d’olio. Ricordate che la pentola andrà unta ad ogni passaggio ossia prima di ogni frittatina.
  6. Versare un primo mestolino di uovo sbattuto. Non aspettate che si cuocia interamente prima di iniziare ad arrotolare la frittata! Cominciate ad arrotolarla quando sarà cotta a metà circa. Non preoccupatevi perché le frittatine avranno tempo a sufficienza per cuocere man mano che andrete avanti.
  7. Arrotolate la frittata partendo dall’esterno e portandola verso di voi. Riportatela dalla parte opposta e prima di versare altro uovo passate nuovamente la carta da cucina imbevuta d’olio. Ora versate altro uovo e procedete allo stesso modo come prima fino ad utilizzare tutto il composto, ricordandovi sempre di ungere la padella tra una frittatina e l’altra.
  8. Andate avanti fino a quando avrete finito tutto l’uovo.
  9. Tamagoyaki finito!

Una volta che il vostro tamagoyaki è pronto potete affettarlo e servirlo subito, ma sarebbe meglio prima avvolgerlo in un foglio di carta da cucina e poi in un makisu 巻き簾 o stuoia di bambù (di quelle che si usano per fare i makizushi). Così facendo potrete modellare un pochino il vostro tamagoyaki e al tempo stesso eliminare l’olio in eccesso.

Tamagoyaki e makisu.

Arrotolare il tamagoyaki nella stuoietta di bambù è un modo per modellarlo ulteriormente.

Come vi avevo anticipato, la procedura per preparare il tamagoyaki con una normale padella antiaderente è esattamente come quella appena vista. Cambiano solo gli utensili e ovviamente cambierà anche un pochino la forma del tamagoyaki stesso che si adatterà a quella della padella classica.

La seguente sequenza vi mostrerà brevemente i passaggi della preparazione del tamagoyaki con una padella tonda:

Tamagoyaki in una padella tonda.

Preparare un tamagoyaki usando una comune padella tonda.

Anche il tamagoyaki preparato nella padella tonda andrà poi avvolto in un foglio di carta da cucina e, se lo avete, nella stuoietta di bambù. Se non avete quest’ultima, non importa. Sarà sufficiente il tovagliolo.

Come vedete, la differenza non è enorme fra i due tamagoyaki. Cambia solo un pochino la forma.

Due tamagoyaki.

Due tamagoyaki: uno classico e l’altro alternativo.

Prima di servire il tamagoyaki solitamente se ne tagliano le estremità chiamate mimi 耳 che significa orecchie. Le mimi, considerate esteticamente poco graziose, sono però un boccone prelibato che spesso finisce alla cuoca oppure al marito curiosone che viene a vedere che succede in cucina. Solitamente le mimi non si servono agli ospiti proprio per una questione di presentazione.

Affettando il tamagoyaki.

Tagliamo le mimi al tamagoyaki.

Tagliate le mimi anche al vostro tamagoyaki fatto nella padella tonda e servitelo come preferite.

Ecco qui, nel piatto di portata, il tamagoyaki realizzato alla maniera tradizionale nella padella rettangolare:

Tamagoyaki

Tamagoyaki realizzato nella padella rettangolare.

Ed ecco qui, invece, il tamagoyaki realizzato in una comune padella tonda antiaderente:

Tamagoyaki

Tamagoyaki realizzato in una comune padella tonda.

Siete pronti ora a provarci anche voi? Aspetto i vostri commenti e le vostre foto.

Alla prossima ricetta di katei-ryoori!

E come si dice in giapponese prima di mangiare e bere:

Itadakimasu!

いただきます!

Cucina giapponese casalinga: Norizuae のり酢あえ

Norizuae giapponese

Norizuae: una semplice delizia.

Dopo la lunga, ma credo necessaria, panoramica sul miso e sulla gustosa zuppa che con esso si prepara, oggi ritorniamo alle ricette semplici, veramente veloci ed economiche della cucina giapponese casalinga, con il norizuae のり酢あえ.

Nella cucina giapponese i piatti vengono generalmente suddivisi per categorie, in base al metodo di preparazione (bollitura, frittura, ecc.) oppure in base ad un ingrediente che contengono.

Tra le categorie, vi è quella dei sunomono 酢の物 che raggruppa i piatti a base di aceto, in giapponese O-su お酢 . Sunomono, letteralmente, è traducibile con “cose all’aceto”.

Il piatto di oggi, il norizuae, rientra in questa categoria in quanto l’aceto è uno degli ingredienti che useremo.

Il norizuae è, solitamente, un piatto che compare curiosamente nelle mense aziendali o scolastiche, in Giappone, ma che ultimamente sta trovando popolarità anche nei menù casalinghi poiché non solo è molto buono, ma è veloce e decisamente economico da realizzare.

Attraverso una serie di bizzarre circostanze, sono entrata in possesso di questa ricetta che appartiene alla signora Sato e che ringrazio. E’ il norizuae che in casa Sato non manca mai!

Norizuae のり酢あえ. Ingredienti per 3/4 persone. 

germogli di soia freschi 150g

spinaci freschi 100g

un foglio di alga nori

una scatoletta di tonno* da 80g, sgocciolato

salsa di soia 2 cucchiai

aceto di riso 1 cucchiaio

1 cucchiaino di sale (per bollire le verdure)

Ingredienti

Tutto quello che occorre per un buon norizuae.

*Potete usare tonno al naturale, all’olio di oliva, girasole ecc. Insomma, utilizzate ciò che avete.

Preparazione

  1. Lavare bene sia gli spinaci che i germogli di soia.
  2. Riempire una pentola con acqua e portarla ad ebollizione. Versarvi il cucchiaino di sale.
  3. Nell’acqua che bolle mettere a cuocere gli spinaci per 1 minuto. Trascorso il minuto, girarli e lasciarli cuocere per altri 30 secondi dopodiché trasferirli subito in un recipiente contenente acqua fredda. Così facendo, gli spinaci manterranno il loro color verde brillante.
  4. Nella stessa acqua di bollitura, versare i germogli e lasciarli bollire per soli 30 secondi!
  5. Scolare i germogli. Non raffreddateli con acqua altrimenti l’assorbiranno e saranno troppo acquosi.
  6. Mettete su un piatto i vostri germogli e raffreddateli dolcemente usando un ventaglio.
    Germogli

    Germogli di soia o moyashi, in giapponese.

    7. Scolare gli spinaci e, aiutandosi con le mani, strizzarli bene bene cercando di rispettare la forma della pianta se possibile. Io ad esempio li faccio bollire interi, senza separarli, proprio per questa ragione.

    8. Mettere il mazzo strizzato di spinaci sopra un tagliere e poi tagliarlo a pezzi, possibilmente della stessa lunghezza.

Spinaci

Spinaci strizzati e bolliti.

Spinaci.

Tagliamo gli spinaci.

9. Prendere il foglio di alga nori, piegarlo in quattro e tagliuzzarlo a striscioline. Oppure, se preferite, potete anche spezzettarla a mano.

Alga nori

Nori o yakinori.

Alga nori tagliata.

Striscioline di nori fatte con le forbici. Quando la nori è tagliata cosi si chiama kizami-nori.

10. Ora dobbiamo solo unire gli spinaci tagliati e i germogli di soia e mescolarli delicatamente.

Spinaci e germogli di soia.

Spinaci e germogli di soia.

Spinaci e germogli di soia.

L`abbraccio tra spinaci e germogli di soia.

11. Aggiungiamo alle verdure il tonno sgocciolato, la salsa di soia e l’aceto di riso. Mescolare bene.

12. Servire il norizuae in un bel piattino o coppetta e guarnirlo, se lo si desidera, con qualche strisciolina di nori.

Finito!

Ve l’avevo detto che era veloce!

Se per qualche ragione non gradite il tonno, potete tranquillamente saltarlo e il vostro norizuae non ne risentirà.

Due parole sull’alga nori: oramai, visto l’imperversare della moda del sushi, quasi tutti i supermercati si sono allineati alla nuova mania e hanno prontamente provveduto a mettere sugli scaffali anche cose tipo l’alga nori. Va detto che generalmente, qui in Italia, la si trova di provenienza cinese oppure coreana. Si trova anche giapponese, ma più raramente e a costi naturalmente più alti.

Consiglio, qualora non trovaste la nori giapponese, di preferire quella coreana a quella cinese per il semplice motivo che è un ingrediente comunemente utilizzato nella cucina coreana, a differenza di quella cinese dove – che io sappia – non esiste. Scegliendo quella coreana, dunque, prendereste un prodotto comunque buono.

Faccio presente, però, che tendenzialmente la nori coreana viene salata e aromatizzata con olio di sesamo, mentre quella giapponese no. Comunque sia, utilizzate il tipo di nori che riuscite a reperire con maggior facilità.

Se per qualche motivo non doveste gradire l’alga nori, provate a sostituirla con dell’alga wakame.

Alla prossima ricetta di katei-ryoori!

E come si dice in giapponese prima di mangiare e bere:

Itadakimasu!

いただきます!

Norizuae

Un buon norizuae casalingo!

Cucina giapponese casalinga: Kinpira きんぴら

Kinpira di carote

Delizioso kinpira di carote.

La neonata rubrica dedicata alla cucina casalinga giapponese facilmente realizzabile in Italia è un progetto che vorrei fosse a cadenza settimanale, quindi, salvo imprevisti, ogni sette giorni circa troverete una nuova ricetta.

Tutte le ricette di questa rubrica devono possedere le seguenti quattro caratteristiche per poter essere annoverate nella collezione:

  1. Devono indiscutibilmente essere autentiche ricette giapponesi, del repertorio casalingo.
  2. Devono essere facili da realizzare, senza quindi l’ausilio di ingredienti di difficile reperibilità o di utensili / pentolame non comune.
  3. Devono poter essere riprodotte senza difficoltà da chiunque disponga di un fornello e degli ingredienti previsti di volta in volta.
  4. Essendo ricette del repertorio casalingo, la loro realizzazione non sarà solo semplice ma anche clemente col portafoglio.

Alcune ricette sono state riadattate per poter facilitare l’incontro tra la katei-ryoori 家庭料理 e il pubblico italiano attraverso intelligenti sostituzioni di ingredienti non comuni nella nostra Penisola. Tutti gli ingredienti utilizzati, come vedrete, sono in vendita in tutti i supermercati del territorio nazionale. Le poche eccezioni saranno chiaramente evidenziate, ma si tratterà sempre di ingredienti che potrete comprare in market asiatici oppure nei negozi di alimentari biologici e naturali.

Ricetta di oggi.

Kinpira. きんぴら

La ricetta che vi propongo oggi è un grande e amato classico della katei-ryoori (cucina casalinga giapponese) perché oltre ad essere facilissimo da preparare e gustoso, è uno di quei piatti che ben si prestano ad essere preparati in anticipo facendo cosi parte della categoria dei jobisai 常備菜.

I jobisai sono una sottocategoria della katei-ryoori che comprende tutti quei piatti che possono essere preparati in anticipo ed essere quindi serviti nei giorni successivi, aiutando così a risparmiare tempo ed energie.

Nelle case giapponesi, dove c’è  una brava mamma o qualcuno che si occupi coscienziosamente della gestione del ménage famigliare, generalmente non mancano i jobisai nel frigorifero, preparati periodicamente.

I jobisai aiutano nella composizione del pasto ideale giapponese che risponde alla seguente formula: ichijuu-sansai 一汁三菜 ossia “una zuppa, tre piatti”. A questo, si aggiunge una scodella di riso al vapore, elemento pressoché sempre presente.

Avremo modo, nel corso di questa rubrica, di approfondire ichijuu-sansai. 

I jobisai sono anche un grande alleato di chi prepara gli o-bento!

Prima di vedere da vicino come realizzare un ottimo kinpira, devo fare una necessaria precisazione: la ricetta originale prevede, per tradizione, la carota e la radice di bardana (o scorzonera). Purtroppo, questa radice qui da noi è difficilissima da trovare se non a prezzi stellari sul web oppure essiccata, in negozi di alimentari naturali. E` un peccato che sia così rara perché, credetemi, è molto buona.

Che fare, dunque?

Cinque possibilità. Scegliete il sostituto che preferite:

  1. Sedano;
  2. Renkon o radice di loto;
  3. Buccia di daikon o rapa cinese, affettata (consiglio di Kyoko-san);
  4. Patate (consiglio di Akiko-san);
  5. Nessun sostituto. Utilizzare solo la carota.

Questo jobisai prende il nome da Kinpira, un rocambolesco personaggio del joruri o teatro dei burattini particolarmente in voga nel Periodo Edo ossia dal 1603 al 1867/68. Questo incredibile Kinpira del teatro era protagonista di impavide e spericolate avventure come quando riuscì a pescare, da solo, una gigantesca balena!

Vediamo, quindi, il jobisai dedicato a questo ardimentoso eroe!

Ingredienti:

200g di carote

1 peperoncino

mezzo cucchiaio di olio di sesamo*

mezzo cucchiaio di olio vegetale (mais, girasole, ecc.)

2 cucchiaini di zucchero

4 cucchiaini di salsa di soia

Ingredienti per kinpira

Tutto l’occorrente per un buon kinpira.

*Se non avete l’olio di sesamo, nessuna paura. Usate l’olio vegetale portando la dose quindi a 1 cucchiaio totale di olio vegetale di vostra scelta.

E’ importante, però, che il kinpira abbia un po’ di sapore di sesamo quindi se non avete l’olio, procuratevi qualche semino di sesamo tostato. Io ho usato sia l’olio che i semini, questi ultimi come guarnizione.

Olio e semi di sesamo

Olio di sesamo e semi di sesamo nero giapponese.

Procedimento

Per prima cosa, lavare e sbucciare le carote privandole delle estremità.

Le carote, ora, vanno tagliate a listarelle fini. Generalmente, si procede con il tanzaku-giri 短冊切り, ossia una semplice tecnica di taglio che permette di ottenere le agognate striscioline tipo julienne.

In questa mia illustrazione, vi mostro una versione facilitata del tanzaku-giri, un taglio che prende il nome da tanzaku 短冊 ossia le tradizionali strisce di carta rettangolare su cui, fin dai tempi antichi, i giapponesi scrivono verticalmente poesie. Il taglio ha questo nome perché la forma che produce ricorda quelle appunto delle strisce di poesia.

Taglio della carota

Il tanzaku-giri.

In poche parole, si taglia la carota in pezzi più o meno della stessa lunghezza (figura in basso a sinistra). Ad ogni pezzo, poi, si tagliano le estremità per lungo in modo da poter mettere l’ortaggio in piano e affettare i nostri bei tanzaku da cui – come avrete facilmente intuito – ricaveremo delle delicate striscioline.

Non fate strisce troppo spesse altrimenti impiegheranno troppo tempo a cuocere. Tuttavia, non è necessaria la perfezione chirurgica nel taglio. I nostri sono, dopotutto, piatti di katei-ryoori e non di kaiseiki o della cucina di Kitcho di Arashiyama.

Miriamo ad una sobria ma elegante modestia che sappia di casa giapponese.

Potreste utilizzare le carote julienne confezionate per sveltire i tempi, ma ho fatto questa prova e sinceramente il sapore era un po` diverso e non come piace a me. Se possibile, optate per le carote fresche che taglierete voi stessi.

Terminato il taglio della carota, pulire il peperoncino eliminandone i semini interni e il picciolo. Affettare finemente.

Peperoncino

Un piccolo peperoncino italiano, affettato.

In un tegame antiaderente, mettere a scaldare l’olio di sesamo e quello vegetale (o solo quello vegetale, se non avete l’altro).

Versare le carote affettate e farle saltare rapidamente a fiamma media.

Kinpira

Kinpira in cottura.

Farle saltare per circa due minuti, dopodiché abbassare la fiamma al minimo, coprire con un coperchio e lasciar cuocere per altre due o tre minuti. Le carote si ammorbidiranno delicatamente, mantenendo però la giusta croccantezza.

Togliere il coperchio e aggiungere lo zucchero, la salsa di soia e il peperoncino. Far saltare il tutto a fiamma media fino a quando il condimento liquido sarà evaporato.

Servire con garbo in un bel piattino, guarnendo – se si desidera – con del sesamo nero o bianco e un anellino di peperoncino.

Colgo l’occasione per ringraziare pubblicamente la dolcissima Cristiana Cenedese di Ars Cenedese di Murano (Venezia) per l’incantevole piattino che mi regalò e che oggi fa da raffinata cornice al mio kinpira.

Kinpira di carote

Delicatissimo kinpira.

Il kinpira, essendo un eccellente jobisai, si conserva in frigorifero, in un contenitore ben chiuso, per tre o quattro giorni. Se lo surgelate, anche un mese!

Alla prossima ricetta di katei-ryoori!

E come si dice in giapponese prima di mangiare e bere:

Itadakimasu!

いただきます!

Kinpira di carote

Il re dei jobisai: il kinpira

Cucina giapponese casalinga: la Poteto Sarada ポテトサラダ

Insalata giapponese di patate

ポテトサラダ L`insalata di patate del Lontano Oriente

Cucina giapponese. Cosa vi viene in mente?

Vediamo se riesco ad indovinare.

Sushi. Sushi. Sushi. Sushi. E ancora sushi, declinato in tutte le sue varianti: nigiri-zushi, temaki, kappamaki e altre ancora.

Anfore di sakè.

Scodelle di riso al vapore. Scodelle laccate contenenti calde zuppe di miso.

Eteree composizioni di tempura.

Tazze di tè verde.

Delicati edamame.

E poi di nuovo sushi. Bacchette. Stuoiette di bambù. Paraventi. Ventagli.

A proposito, sapete come si chiamano quelle barche di bambù cosi` utilizzate qui in Italia come coreografico metodo di presentazione di sushi e sashimi?

Funamori 舟盛り.

La realtà, cari amici e lettori di Biancorosso Giappone, è che la cucina giapponese è un piccolo e gustoso universo di cui ancora si conosce poco qui in Occidente.

Una cucina che sorprende. Delicata. Raffinata. Eppure semplice e che si appella ai gusti autentici degli ingredienti più freschi e di stagione, dribblando abilmente tante spezie o tutto ciò che possa disturbare la nuova armonia di sapori. Il concetto di shun 旬, o stagionalità dei cibi, è davvero un ingrediente cardine nella washoku (questo il nome della cucina tradizionale del Giappone) e un criterio sempre rispettato, laddove possibile.

Chi di voi mi segue e legge da tempo ricorderà che dalla mia vecchia casa (il mio storico blog, per intenderci) ho condiviso tante, tantissime ricette: alcune mi erano state insegnate dalla mia mentore di washoku, Kyoko-san; altre provenivano da appunti presi guardando trasmissioni di cucina sulla NHK; altre erano frutto di mie traduzioni di ricette prese dai più disparati libri di cucina.

Vi ho parlato tanto di washoku negli anni. Tantissimo.

Ma in particolare vi ho parlato tanto di katei-ryoori 家庭料理, ossia la cucina giapponese casalinga.

I sapori della quotidianità. Le rassicuranti delizie che appaiono ogni giorno in tavola, negli obento per la scuola o il lavoro, ai picnic.

I piatti dell’anima.

La cucina della semplicità, della famiglia, della sfida di un budget ristretto con cui nutrire bene però i propri cari. Piatti a volte meno aulici di quelli proposti dalla cucina ufficiale, ma non per questo meno meritevoli di lodi; ricette dove, col tempo, si sono intrufolati ingredienti di origine occidentale (ad esempio la maionese, la salsa di pomodoro, il burro, ecc.)

La cucina, in poche parole, della vita.

Ebbene, io con questo post vorrei inaugurare la sezione “cucina casalinga giapponese” dove, pian piano, proporrò e riproporrò grandi classici della tavola nipponica di tutti i giorni.

Le ricette, come quella che vi presento oggi, hanno le seguenti caratteristiche:

  1. Sono autentiche ricette giapponesi del repertorio casalingo;
  2. Sono di facile realizzazione e non richiedono attrezzi particolari o abilità strabilianti;
  3. Laddove possibile, sono state riadattate per poter essere realizzate qui in Italia facilmente e senza spendere tanto.
  4. Vi permetteranno di portare sulla vostra tavola autentici sapori del Sol Levante.

La ricetta di oggi è la Poteto Sarada ポテトサラダ o insalata di patate, un contorno (o okazu おかず, come si dice in giapponese) molto amato e che spesso compare negli obento, sia casalinghi che acquistati già pronti. Questa versione che vi propongo proviene dal Kanagawa, dove un tempo abitavo.

A primo acchito, forse, vi ricorderà la nostrana insalata russa anche se gli ingredienti qui sono un po’ diversi.

Un’altra differenza sostanziale sta nella quantità di maionese che qui deve essere modesta. Niente oceani di maionese, dunque!

E’ sufficiente una quantità di maionese tale da legare solo gli ingredienti insieme. Miriamo ad ottenere una consistenza tale da permetterci di poter consumare la nostra poteto sarada con le bacchette!

Vediamo insieme gli ingredienti e il procedimento.

Preciso che la poteto sarada, in Giappone, è solitamente servita in piccole quantità ma seguendo porzioni un po’ più italiane direi che, approssimativamente, le dosi che vi darò siano sufficienti per quattro o cinque persone.

Ingredienti per 4 o 5 persone:

2 patate di media grandezza

1 carota

mezzo cetriolo

1 uovo sodo

1 cipolla piccola

maionese* q.b.

sale e pepe q.b.

Una punta di Karashi o senape giapponese (facoltativo)

Ingredienti per la poteto sarada

Ingredienti per la ポテトサラダ poteto sarada.

Procedimento

  1. Lavare le patate e metterle, ancora con la buccia, in un pentolino d’acqua a bollire. Lavare e pulire la carota e metterla a bollire con le patate. I due ortaggi andranno fatti cuocere quel tanto che basta affinché siano morbidi e si possano tagliare a cubetti. Non devono disfarsi, dunque. Io ho tagliato la carota a fettine perché mi sentivo ispirata così.
    Carote affettate.

    Carota affettate finemente.

  1. Lavare il cetriolo, tagliarlo per lungo e – aiutandosi con un cucchiaino – privarlo dei semini. Affettare il cetriolo molto finemente. E’ importante!
  2. Sbucciare la cipolla e affettarla altrettanto finemente.
  3. Disporre su un piattino il cetriolo e la cipolla affettati e cospargerli di sale fino. Lasciarli riposare per alcuni minuti. A contatto col sale, i due ortaggi rilasceranno tanta acqua.
    Cetrioli e cipolle

    Il cetriolo e la cipolla affettati finemente e cosparsi leggermente di sale.

  4. Aiutandovi con le mani, prendete sia il cetriolo che la cipolla e strizzateli bene bene, con un po’ di forza. Mettete da parte.
  5. Una volta cotte, scolare le patate, pelarle e tagliarle a dadini. Stessa cosa con la carota.
  6. Sbucciare l’uovo sodo e tagliuzzarlo grossolanamente.
    Uovo sodo a metà.

    Un uovo sodo pronto a contribuire alla causa della poteto sarada.

  7. In un recipiente unire: le patate e la carota a dadini, il cetriolo e la cipolla strizzati, l’uovo tagliuzzato, il sale, il pepe, la karashi (se la usate), e la maionese. Mescolare bene e con delicatezza. Coprire il recipiente e, se possibile, lasciar riposare in frigorifero per almeno un’oretta.
    Karashi o senape giapponese. Si distingue da quella europea e americana per l'assenza di aceto.

    Karashi o senape giapponese. Si distingue da quella europea e americana per l’assenza di aceto.

  8. Servire fredda, possibilmente in un bel piattino.
Insalata di patate

Insalata di patate giapponese o poteto sarada.

Come con la quasi totalità delle ricette mondiali, credo, anche per la potato sarada esistono varianti. Quella che vi ho presentato io è forse la versione più classica e comune. Un’altra variante altrettanto gettonata prevede anche l’aggiunta di prosciutto. Io personalmente non lo aggiungo.

*Bisognerebbe utilizzare la maionese giapponese (Kewpie) dal sapore diverso dalla maionesi nostrane. Tuttavia, essendo un ingrediente di non facile reperibilità ed essendo questa sezione dedicata a ricette autentiche giapponesi ma di facile ed economica realizzazione in Italia, consiglio di utilizzare una maionese qualunque purché non abbia un sapore di aceto troppo pronunciato.
Consiglio o una maionese casalinga preparata con succo di limone oppure la Delicata Calvè.

Alla prossima ricetta di katei-ryoori!

E come si dice in giapponese prima di mangiare e bere:

Itadakimasu!

いただきます!

Insalata di patate giapponese

Ed ecco pronta la vostra ポテトサラダ poteto sarada o insalata di patate…alla maniera dei giapponesi!

Hiyashi-chuuka: il sapore giapponese dell’estate

冷やし中華 Hiyashi-chuuka

冷やし中華 Hiyashi-chuuka

Passano i secondi, passano i minuti, passano i giorni, le settimane, i mesi. E poi gli anni.

E così la vita si srotola davanti ai nostri occhi come una vecchia pergamena.

Gli istanti passano per non tornare più, lasciando dietro sé il sapore dolce-amaro della nostalgia.

L’estate è di nuovo alle porte. Innumerevoli manciate d’istanti sono dovuti passare per ritrovarci di nuovo qui, nel mese di giugno, in quel mese sempre associato alla fine della scuola e all’inizio di quelle vacanze che da bambini sembravano durare per sempre.

Gli istanti passano, fondendosi l’un nell’altro, mentre forse a volte ci sembra di essere fermi, di non aver mosso un passo.

Altre volte, invece, quegli stessi istanti scivolano via con la forza travolgente di un turbine, lasciandoci addosso la sensazione di aver vissuto un giorno come cento.

Maggio e giugno sono stati mesi, per me, emotivamente molto forti.

Ho trovato la dimensione spirituale che cercavo, ritrovando una grande pace e una chiarezza di pensiero che sembrava ormai avermi abbandonata.

Ho rafforzato ulteriormente un’amicizia con un’amica dal cuore limpido.

Ma nel frattempo ho ricevuto una delusione dolorosa da una persona che, come capita nel cento per cento dei casi, sembrava un’amica ma evidentemente non lo era.

Le delusioni hanno un perché e senza di esse non riusciremmo ad avanzare. Conosciamo il loro valore, ma lo conosciamo e lo apprezziamo solo a posteriori, a mente fredda.

In quel momento, però, la lama tagliente dell’amicizia tradita e del tuo cuore trattato come se valesse mezza carta di caramella gettata a terra penetra molto in profondità, facendoti sanguinare. Si sanguinano lacrime calde che lavano via un pò il dolore, smorzandolo fino a farlo arrivare a livelli gestibili e assimilabili da una mente che altrimenti rifiuta di trovare una logica a ferite provocate senza un perché.

A mente e cuore un po’ più alleggeriti dal bruciore di quel taglio ormai in fase di guarigione, trovo una grande verità:

Strada facendo si perdono tanti amici, per i motivi più svariati. Anzi, a volte i motivi possono pure non esistere.

Ma ad ogni amico perso, se ne trova un altro e generalmente migliore del precedente.

E se questo non dovesse accadere, allora vuol dire che ci sarà altro che ci darà equivalente o superiore gioia a quella di un’amicizia.

Con l’aria quasi ormai estiva pregna della fragranza dei gelsomini, il calore sempre più invadente e appiccicoso, mi sono ricordata con nostalgia di una delizia che in Giappone mangiavo non appena il Paese si ritrovava nella morsa di quella sua estate senza pietà: 冷やし中華 hiyashi-chuuka.

Hiyashi-chuuka è l’equivalente nipponico della nostra estivissima insalata di pasta.

Letteralmente il nome significa “cibo cinese freddo” e questo perché il tipo di spaghettini usati sono generalmente i ramen o comunque spaghetti cinesi.

Essenzialmente, quindi, si tratta di spaghettini freddi guarniti da cetrioli, striscioline di frittata, pollo bollito, prosciutto e il tutto irrorato da una salsina a base di salsa di soia e olio di sesamo.

È un piatto davvero molto gustoso, non difficile da preparare, economico ed esteticamente gradevole.

Ecco a voi la ricetta per quattro persone:

4 o 5 matassine di spaghetti cinesi
2 petti di pollo
1 cetriolo
6 fettine di prosciutto (io ne ho usato uno di manzo molto gustoso)
2 uova

Gli ingredienti per il タレ tare o salsina:

140ml d’acqua
100ml di salsa di soia
100ml di olio di aceto di riso o aceto di mele
2 cucchiai di zucchero
1 cucchiaio di olio di sesamo

facoltativo: una manciata di semi di sesamo

Acqua, aceto e salsa di soia

Acqua, aceto e salsa di soia

Per prima cosa, preparare la tare o salsina unendo l’aceto, l’acqua, la salsa di soia, lo zucchero e l’olio di sesamo.

Due cucchiai di zucchero

Due cucchiai di zucchero

L’olio di sesamo è un ingrediente ormai diffuso anche in Italia e reperibile sia negli Asian Market che nei centri della grande distribuzione.
Non costa poco, ma conviene prenderlo di qualità dato che non si usa in grosse quantità generalmente. Una bottiglietta vi durerà diverso tempo, purché la conserviate in un luogo fresco e asciutto. Se non fate attenzione, l’olio di sesamo irrancidirà alla velocità del west.

Qui a Torino, nella zona di Porta Palazzo, e più precisamente nel mio Asian Market del cuore ossia quello di Via delle Orfane, trovo questo olio di sesamo giapponese proveniente dalla Prefettura di Mie, il 純正junsei della Kuki-Sangyo:

ごま油 Goma-abura. Olio di sesamo.

ごま油 Goma-abura. Olio di sesamo.

Mischiando i suddetti ingredienti, otterrete la vostra profumatissima tare:

冷やし中華のタレ Salsina per hiyashi-chuuka

冷やし中華のタレ Salsina per hiyashi-chuuka

La salsina può essere preparata anche con largo anticipo e conservata tranquillamente in frigorifero, fino al momento dell’uso. Anzi, se vi dovesse piacere la ricetta, vi consiglio di preparare una bella quantità di tare da tenere in una bottiglia o contenitore nel frigorifero, pronta da usare all’occorrenza ogniqualvolta vorrete gustarvi un buon piatto refrigerante di hiyashi-chuuka.

Gli spaghettini da usare sarebbero quelli che in Giappone vengono chiamati 生中華そば nama-chuuka-soba ossia spaghettini cinesi freschi. Là si trovano anche secchi e sono buoni comunque, anche se quelli freschi personalmente io li preferisco.

Andate a farvi un giro nel vostro Asian Market di fiducia e vedete un pò cosa riuscite a scovare in quanto a spaghettini. È possibile che non ci saranno degli autentici nama-chuuka-soba ma qualcosa di simile.

La mia scelta è ricaduta su queste deliziose matassine:

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Questi begli spaghettini arrivano da Taiwan e hanno una consistenza simile a quella della chuuka-soba.

Prendete qualcosa di simile oppure anche delle semplici mattonelle di ramen secchi, di quelle che trovate in vendita senza il condimento.

Queste matassine cuociono nel giro di 4 minuti abbondanti. Ricordatevi che la pasta asiatica generalmente va cotta in acqua senza l’aggiunta di sale poichè il sale è già incluso nel suo impasto.

Una volta cotti, vanno risciacquati sotto un getto d’acqua fredda corrente.

Prepariamo le guarnizioni:

1. mettere a bollire in acqua leggermente salata i petti di pollo e – a cottura ultimata – tagliarli a striscioline con un coltello oppure sfilacciarli con le mani facendo attenzione a non bruciarvi.

2. Tagliare il cetriolo possibilmente con la tecnica del 細切り komagiri e che vedete illustrata qui.

3. tagliate a striscioline sottili il prosciutto.

4. Sbattete le due uova e fateci una frittatina sottile e che tagliuzzerete a strisce.

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Prendete dei piatti un po’ fondi e in ognuno mettete una matassina di spaghettini cotti. Sopra gli spaghettini, cominciate a sistemare le guarnizioni cercando di essere ordinati.

Infine, irrorate generosamente i vostri hiyashi-chuuka con un mestolo di tare.

E siete pronti per sedervi a tavola! いただきます! Itadakimasu!

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La mia hiyashi-chuuka: un ritorno olfattivo e papillare al Giappone estivo

La hiyashi-chuuka è facilmente personalizzabile in base ai vostri gusti. Potete farla solo di verdure evitando così la carne, le uova e il prosciutto. Oppure potete aggiungere altre verdure che vi piacciono.
Ad esempio, i pomodorini piccoli sono ideali perchè danno un bel tocco di colore.

In questi giorni al mercato e dal verduriere si trovano i piselli freschi, una di quelle bontà che oramai non siamo quasi più abituati a gustare nella sua versione naturale, che non preveda dunque una scatola di latta.

Avevo un pò di piselli freschi e quindi ho pensato di usarne qualche manciata per dare colore e sapore.

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Arriva l’estate e noi l’aspettiamo. Cos’altro possiamo fare?

Come aspettiamo lei, aspetteremo anche l’autunno e poi l’inverno. È la ciclicità della vita che scandisce i nostri ritmi e il passare delle stagioni dell’uomo.

E come sempre, il segreto sta nel riuscire a trovare il bello in tutto ciò che ci circonda, fossimo anche attorniati da un brullo deserto. Da qualche parte, pure in quel deserto, ci sarà una duna da cui spunta fiera la luna, no?

Io adesso, grazie a Dio, non sono più nel deserto brullo ma mi ritrovo nuovamente in un giardino che diventa di giorno in giorno sempre più verde, più fiorito, più profumato. In esso corre libero l’effluvio del gelsomino e dei cuori più belli che io abbia ora nella mia vita.

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