Skip to Content

Ramen: ritorno a Edo e una ricetta

Nei miei continui e solitari studi dell’epoca Edo – la mia epoca storica giapponese preferita – mi ritrovo spesso ad affrontare argomenti legati alle abitudini alimentari del tempo. Qui, ad esempio, un mio articolo dedicato alla tempura (o tenpura, nella corretta traslitterazione).

Recentemente, infatti, ho avuto la possibilità di ripercorrere sommariamente la storia del ramen scoprendo, così, il suo indissolubile legame con l’epoca Edo.

Vorrei, quindi, raccontarvi qualcosa di questa gustosa relazione storico-culinaria e condividere con voi una veloce ricetta per preparare un ramen casalingo. Si tratta di una ricetta vegetariana che è possibile rendere vegana in un batter d’occhio cioè eliminando semplicemente l’uovo come guarnizione. È una ricetta speciale che ho tradotto per voi e che proviene dalla mia collezione privata di ricettari giapponesi.

Che cos’è il ramen?

Illustrazione di una scodella di ramen, nello specifico il classico チャーシュー麺 Chāshūmen. Più 定番 teiban di così non si può! Fonte.

Che cos’è il ramen? Forse è una domanda scontata poiché sembra che ultimamente anche questa parola sia entrata a far parte della lunga serie dei tormentoni gastro-modaioli. Pare essere ovunque ormai, spesso però nella solita salsa superficiale in cui si avverte il consueto nulla.

Questa è la mia definizione:

Il rāmen è un piatto della cucina giapponese di origine cinese. Fondamentalmente, è una zuppa a base di spaghetti di frumento serviti in un brodo di carne. Il piatto viene tradizionalmente guarnito con fette di carne di maiale, alghe, uova morbide marinate e alcune verdure quali il cipollotto, i germogli di soia, i メンマ menma (germogli di bambù bolliti, tagliati a fettine, fermentati, essiccati, conservati sotto sale e poi messi a bagno in acqua calda e sale), mais ecc.

Illustrazione di una tipica scodella giapponese da ramen, con il caratteristico decoro detto ギリシア雷文 girishia-raimon ovvero la greca, un elemento in grado di richiamare subito alla mente il mondo classico cinese.
Fonte dell’immagine.

Gustose molteplicità

Come tutti i piatti molto amati, anche il ramen si presenta in numerose versioni spesso legate a preferenze regionali. E ogni versione, a sua volta, solitamente possiede caratteristiche specifiche in merito al tipo di spaghetto, di brodo, di guarnizioni e così via.

Per avere un’idea della ricca varietà di ramen esistenti, consiglio a tutti di visitare il famoso Museo dei Ramen di Shin-Yokohama. Ho avuto modo di visitarlo in più occasioni trovandolo, ogni volta, decisamente affascinante. Qui un mio resoconto di una di queste visite.

È necessario anche specificare che si tratta di un piatto complesso e che si distingue per la sua preparazione lunga, laboriosa e notoriamente alla mercé di mille variabili. Dunque, nella sua forma classica non è un piatto di rapida esecuzione. Tutt’altro.

Basti pensare che in Giappone il ramen è una delle tante specialità avvolte nella tradizione e in saperi piuttosto articolati di cui sono depositari locande e ristoranti vari, dai più anonimi e nascosti a quelli di fama internazionale.

L’irresistibile flessibilità dei ramen

Questo però non significa che nel tempo non siano stati fatti tentativi per semplificarne la preparazione e per adattarla a varie preferenze alimentari. Al giorno d’oggi, infatti, esistono versioni di ramen vegetariane, vegane, halal (conforme ai precetti alimentari islamici), senza glutine, ecc.

Cito volentieri due esempi (tra i tantissimi a disposizione sull’attuale scena gastronomica giapponese) di realtà che offrono tipologie di ramen specifiche pensate per clienti con esigenze alimentari ben precise:

Il primo è Narita-ya 成田屋, locanda di Ōsaka specializzata in ramen halal, quindi dedicati ai clienti di fede musulmana. E poi Vegan Uzu di Kyōto (e con una sede anche a Tōkyō) che offre una curata varietà di ramen vegani.

Non mi addentro oltre nel mondo contemporaneo dei ramen. D’altra parte, vi ho detto che avremmo fatto ritorno a Edo quindi godiamoci una breve passeggiata lungo la Via del Ricordo e dell’Immaginazione.

Risalire la corrente …fino a Edo

Chi legge questo blog sa che ogni tanto mi piace giocare un po’ alla macchina del tempo con l’indicatore sempre impostato sullo stesso periodo storico! Ricordate il viaggio tra i profumi di Edo? Ecco qui l’articolo.

In giapponese esiste un verbo che mi piace moltissimo: 遡るsakanoboru. Significa risalire. Lo si può per indicare l’idea di rimettere insieme dei dati per giungere ad informazioni di cui siamo alla ricerca. Ma si usa anche per descrivere la risalita controcorrente dei salmoni quando, divenuti adulti, risalgono con immane fatica i fiumi per poter far ritorno al proprio luogo di nascita e deporre così le uova prima di morire.

Risalgo allora la corrente del tempo e dell’immaginazione e torno a Edo.

Proprio così. Perché sono da ricercare lì le origini del ramen. O più precisamente, nei meandri dei rapporti bilaterali tra Edo e Pechino, al tempo della Cina sotto la dinastia Ming (XVII secolo d.C.).

Si fa presto a dire che il ramen è un piatto iconico (che aggettivo indigesto!) della cucina giapponese.

Certamente ha assunto una sua forma e quasi identità indissolubilmente legati alla tavola giapponese ma non si possono negare le sue origini. D’altro canto, i ramen sono tra gli esponenti più celebri della cosiddetta 中華料理 chūka-ryōri ovvero la cucina di origine cinese, secondo una denominazione diffusasi a partire dal periodo Meiji (fine Ottocento) in avanti. Un altro esponente non meno celebre della chūka-ryōri sono i gyōza. A proposito di questi ultimi, ecco qui la mia ricetta: prima parte e seconda parte.

Mito Kōmon: tutto ebbe inizio con lui

徳川光圀 Tokugawa Mitsukuni conosciuto anche come 水戸黄門 Mito Kōmon.
Fonte immagine: 京都大学付属図書館所蔵品, Public domain, via Wikimedia Commons

Mito Kōmon è stato un daimyō del feudo di Mito, territorio che corrisponde all’odierna Prefettura di Ibaraki, situata nella zona nord-orientale della regione del Kantō.

Perché vi parlo di questo illustre signore? Perché si dice sia stato il primo ad assaggiare i ramen in Giappone!

Nell’antico Giappone, dal X secolo fino alla Restaurazione Meiji, i daimyō erano funzionari militari di grado elevato che avevano come compito il controllo e la difesa dei governatori delle varie province. Col tempo, tuttavia, questi funzionari acquisirono (molti direbbero usurparono) il loro potere fino a diventare dei signori feudali a tutto tondo.

Il nostro Mito Kōmon era di discendenza piuttosto importante; era, infatti, il nipote di nient’altri che Tokugawa Ieyasu, fondatore nonché primo shōgun dello shogunato Tokugawa, ultimo governo feudale del Giappone. Il periodo Edo ebbe inizio, secondo la storiografia ufficiale, nel 1603 anche se in realtà Tokugawa Ieyasu governava già da tre anni, prendendo potere all’indomani della famosa battaglia di Sekigahara.

Amore per la cultura e il buon cibo

Questo daimyō è passato alla storia per vari accadimenti ed iniziative di cui si è fatto promotore. Si dice che fosse molto colto ed un grande amante delle arti. Lo definiremmo una sorta di mecenate che amava circondarsi di letterati e artisti. Questo suo amore per il sapere lo incoraggiò a commissionare la realizzazione di un’opera piuttosto imponente, composta da ben cento volumi: 「大日本史」 Dainihonshi ovvero la Grande storia del Giappone.

L’opera Dainihonshi commissionata da Mito Kōmon. Immagine di 刀剣ワールド.

Molte notizie e curiosità sul suo conto si diffusero nel tempo e che restituiscono ai posteri l’immagine di un uomo istruito, probo, amante dei viaggi e della buona tavola. Pare che non tutto corrisponda al vero ma che alcuni aspetti siano stati romanzati grazie ad una lunghissima serie televisiva dedicata alla sua figura. La serie, intitolata appunto Mito Kōmon, fece il suo debutto sulla TV giapponese nel 1969 e si concluse nel 2011! Lo sceneggiato meritò comprensibilmente il titolo di 長寿番組 chōju-bangumi cioè programma longevo.
Insomma, finzione e realtà che ad un certo punto s’intrecciano e si confondono.
C’è chi sostiene, ad esempio, che non fosse un grande esempio di probità e rettitudine ma che in realtà conducesse una vita piuttosto sregolata e dedita all’epicureismo.

L’immagine idealizzata grazie soprattutto alla serie televisiva ci restituisce un Mito Kōmon (raffigurato al centro) accompagnato dalle sue due fedeli guardie del corpo durante i numerosi viaggi sempre teatro di mille eroiche gesta. Fonte immagine.

Da documenti storici pare, tuttavia, che l’amore per i viaggi sia un’invenzione ascritta al personaggio televisivo poiché sembra che si spingesse raramente oltre i confini del suo feudo.

Sia come sia, sappiamo però con un alto grado di certezza che amava la ricerca del sapere e i piaceri della buona tavola.

L’incontro con il ramen

Rielaborazione di fantasia di Mito Kōmon intento a divorare una scodella fumante di ramen! Fonte immagine.

ll nostro daimyō era fortemente attratto dallo studio del confucianesimo e non a caso era in contatto con 朱舜水 Shu Shunsui (il nome cinese è Zhu Zhiyu), eminente studioso della dottrina di Confucio nonché uno dei numerosi rifugiati politici che scapparono dalla Cina sotto la dinastia Ming per stabilirsi in pianta stabile in Giappone. Lo studioso, che discendeva da un’illustre famiglia di alti funzionari governativi e che avrebbe avuto spianata la via, divenne bersaglio di vere e proprie persecuzioni e accuse per via di una sua inclinazione alla ribellione; non era uno facilmente corruttibile e di certo non avrebbe acconsentito a chiudere un occhio davanti alle tante nefandezze di governo di cui era stato testimone.

Shu Shunsui. Fonte immagine.

E con l’accusa formale di essere un “tipo disobbediente” (Clement, p.599), Shu Shunsui scappò dal suo Paese nel cuore della notte e, dopo una serie infinita di rocambolesche avventure, riuscì a stabilirsi in maniera permanente in Giappone, a Nagasaki.

Siamo a metà del Seicento.

Un giorno, Mito Kōmon lo invitò a Edo. Sarebbe stata l’occasione perfetta per approfondire di più il discorso sul confucianesimo e sulla cultura e letteratura cinesi.

Ghiottonerie cinesi in dono

Lo studioso accettò e si recò a Edo con una serie di doni, incluse varie prelibatezze che era riuscito a farsi mandare dalla Cina. E con chissà quanta difficoltà!

Sappiamo, ad esempio, che tra gli alimenti che Shu Shunsui preparò per il daimyō ci furono radici di ginseng coreano, il pepe nero, spezie ed erbe medicinali varie. C’erano anche i cetrioli di mare, una determinata varietà di salamandra (che guarda caso è ancora piuttosto diffusa nei torrenti e fiumi del Giappone sud-occidentale), del miele.

C’erano anche tanti altri ingredienti che lo studioso utilizzò per preparare il necessario per il ramen!

Il ramen dell’epoca, però, si dice fosse abbastanza diverso da quello che conosciamo. Tanto per cominciare, gli spaghetti erano più spessi e somigliavano molto agli udon. Inoltre, anziché essere fatti di farina di frumento, erano preparati con farina di radice di loto.
Dai documenti storici, inoltre, apprendiamo che il brodo veniva realizzato con dello stinco di maiale e sale. Il brodo veniva poi insaporito con aglio, erba cipollina cinese, pepe di Sichuan, spezie medicinali e l’immancabile miscela delle famose cinque spezie cinesi ossia: anice stellato, chiodi di garofano, cannella, pepe di Sichuan e semi di finocchio.

La celebre miscela delle cinque spezie cinesi. In giapponese è nota col nome di 五香粉 gokōfun. Fonte immagine.

Purtroppo non abbiamo notizie della cena e di cosa ne abbia pensato il nostro Mito Kōmon di tutti i doni gastronomici ricevuti dal suo maestro nonché amico, Shu Shunsui.

Tuttavia, il ramen sarebbe rimasto dietro le quinte, appannaggio dei circoli più esclusivi fino al 1923 ovvero l’anno del Grande Terremoto del Kantō (大震災 daishinsai).

Da un ricettario della mia collezione

Come precisato all’inizio, la complessità della ricetta tradizionale (erede sicuramente di quella di Shu Shunsui) non ha però impedito a numerose versioni più avvicinabili di emergere. Tra queste, ci sono le versioni casalinghe alla mano, come ad esempio la mia dei ramen al brodo di manzo. Vi lascio la ricetta qui del mio articolo Ramen Biyori.

Tra le versioni più alla buona vanno annoverate anche quelle vegetariane e vegane che richiedono generalmente preparazioni non troppo articolate.

Ed è proprio una di queste ricette che vorrei proporvi. È una ricetta tratta da questo ricettario della mia collezione:

「おばあちゃんの精進ごはん」Obāchan no shōjin gohan. La cucina buddista della nonna.

Uno straordinario ricettario, il primo di due volumi, che trovai casualmente in una delle mie tante ricerche notturne nell’infinito ed emozionante mondo editoriale giapponese.

Le autrici (le due signore sulla copertina, Akemi e Satsuki, sono due sorelle che abitano nella cittadina di Chigasaki, nel Kanagawa. Cittadina che conosco bene perché lì insegnavo italiano a Ikuko, una misteriosa pianista. Perché misteriosa? Ve lo racconterò in seguito.
Le due signore gestiscono una sorta di agriturismo con dei prodotti della terra e un ricco calendario di attività, workshop e corsi dedicati alla cucina naturale.

La filosofia del libro si ispira alla 精進料理 shōjin-ryōri, ovvero la cucina classica buddista dei monaci zen. Tuttavia, nel titolo la parola ryōri (cucina) viene sostituita dalla parola gohan (riso e, per estensione, pasto) per distinguerla dalla cucina buddista originale che è strettamente vegana. Le due sorelle non usano né carne né pesce nelle ricette ma ogni tanto (e con grande parsimonia) compaiono alcuni ingredienti come le uova e il formaggio.

Ricetta semplice: ramen in brodo di soia (Shōyu-rāmen)

Ingredienti per 1 persona:

1 matassa di spaghetti per ramen (ma potete usare ciò che avete)
2 cucchiai di salsa di soia
1 cucchiaio di olio di sesamo tostato (mi raccomando, usate quello tostato!)
acqua calda q.b.
1 cucchiaino di brodo di alga konbu (potete usare il granulare come ho fatto io)
1 cucchiaino di zenzero tritato fresco
sale e pepe q.b.
GUARNIZIONI:
Uova marinate (facoltativo. Escluderle se si vuole fare una versione vegana)
cipollotto tritato
Spinaci bolliti e strizzati

Gli ingredienti necessari

Preparazione delle uova marinate (facoltativo)

Per le uova marinate (味付け玉子 ajitsuke-tamago) potete seguire il procedimento che trovate nella mia ricetta dei ramen alla carne oppure il metodo che riporto qui di seguito:

Ingredienti per le uova marinate

Per preparare le uova marinate, potete procedere in questo modo:

Fasi della preparazione delle uova marinate

Mettere a bollire dell’acqua a cui aggiungete un pizzico di sale e un goccio di aceto. Questi due ultimi ingredienti faciliteranno la rimozione del guscio. Quando l’acqua inizierà a bollire, versare delicatamente le uova e lasciarle bollire per 7 minuti esatti dopodiché trasferirle in acqua fredda e sgusciarle facendo attenzione a non rovinarle.
In un tegame, versare 100ml di brodo di alga konbu (se non l’avete, usate solo acqua), 1 cucchiaio di salsa di soia, 1 cucchiaino di zucchero e portare ad ebollizione. Abbassare la fiamma, aggiungere le uova sgusciate e lasciarle sobbollire per un minuto. Spegnere e lasciar raffreddare.

Conclusione ricetta

Fasi conclusive della ricetta

In un pentolino di acqua bollente, mettere a cuocere i ramen per il tempo indicato sulla confezione. In un altro tegame, mettere a bollire 300ml d’acqua circa; questi serviranno per il brodo.

Nel frattempo, in una scodella capiente versare la salsa di soia, l’olio di sesamo, il granulare di konbu (se non l’avete, usatene uno di verdure), lo zenzero grattugiato, il sale e il pepe.

Scolate i ramen e trasferiteli nella scodella col condimento. E concludete versandovi sopra i 300ml d’acqua bollente.

Mescolate delicatamente e guarnite con cipollotto, spinaci, l’uovo marinato o ciò che preferite.

Fonti: Chinese Refugees of the Seventeenth Century in Japan, Ernest W. Clement M.A., p. 599
「江戸の食卓」Edo no shokutaku. Kawade Shobo Shinsha, 2007.
「おばあちゃんの精進ごはん」Obāchan no shōjin gohan. Iori 暁美と五月. Momobook Publishing.

Onigiri di coste

Torino in uno strabiliante sabato di maggio

Siamo già nel cuore di maggio. Piogge capricciose si alternano a giorni di sole abbagliante e tutto ha già il sapore dell’estate. Imponenti cumulonembi fluttuavano su un cielo blu clematide e facevano proprio pensare a quegli sfolgoranti cieli estivi quando l’aria è rovente, il Po langue, le cicale friniscono con ardore e per un attimo si ritorna fanciulli. Ma proprio solo per una frazione di un luminoso secondo.
Poi si torna grandi e in quel dipinto maestoso nel cielo si stemperano le malinconie e i sospiri.

Fantasticheria di maggio

La superficie del fiume, come lo specchio di Alice, riflette il cielo e sembra custodire un mondo capovolto.

Il sabato, per me, è giorno di ritorno nella mia Asia torinese. Un puntuale appuntamento a cui non rinuncio spesso. Luogo vibrante ove convergono energie, speranze, sogni realizzati ed infranti. Lì vi si percepisce la disperazione, l’ingegno aguzzato dalla necessità, la lenta ed inesorabile quotidianità sempre diversa e sempre così assurdamente uguale. È lì che può capitarti di finire, in maniera del tutto fortuita (o forse no?) alla Pescheria Wang, negozio nascosto nel cuore più profondo di Porta Palazzo: Piazza Don Paolo Albera.
E allora entri e vieni immediatamente travolto dall’inconfondibile odore di Asia. Quella fragranza pungente che sa di molluschi, frutti tropicali, foglie di tè e unguenti medicinali.
Quell’odore che ti penetra nell’anima e non ti abbandona più. Quell’odore che si mescola al vivace trambusto e al vociare in un idioma di cui cogli solo un sapore di consuetudine.

Mi oriento in quel dedalo di colori, profumi e logogrammi che mi parlano attraverso il giapponese. Mi giro e vedo straordinari mangostani malesi e jackfruit tailandesi.

È un mondo così bizzarramente familiare.

Qui cercavo l’Asia quando non sapevo nemmeno cosa fosse. E poi l’avrei trovata per davvero e ritrovata mille volte ancora, nel mio punto di partenza, nella mia personalissima estremità del cerchio.

Dalle valli canavesani

Da amici con il privilegio di avere delle terre nel Canavese – storico territorio piemontese situato tra Torino, la Val d’Aosta, il Biellese e il Vercellese – ho ricevuto in dono delle verdure freschissime. Tra queste, delle meravigliose coste (o bietole da costa, che dir si voglia).

Associo, come molti forse, il profumo e il sapore delle coste a quello vigoroso del limone. Per me le coste hanno il sapore della cucina spoglia ed essenziale di mia nonna Maria Teresa che – contrariamente all’immagine idealizzata della nonna – ha sempre detestato cucinare.

Avrei potuto, quasi meccanicamente, riscoprire il sapore delle coste al limone e riassaggiare quei gusti non complicati che – al netto di tanti epicurei sofismi – riescono immancabilmente a smuovere qualcosa nel profondo.

Però ho voluto dedicare la bellezza di questi ortaggi così genuini e brillanti al mio grande amore per la cucina giapponese.

E così ho preparato i スイスチャードのおにぎり Suisuchādo no onigiri ossia onigiri di coste.

Illustrazione di deliziosi onigiri di coste. Fonte.

Gli onigiri sono uno dei tanti argomenti di cui scritto tanto negli anni. Ma così tanto da non ricordare nemmeno quanto. Tra gli scritti degli ultimi anni, vi consiglio questo. O se volete fare un bel salto indietro nel tempo, allora questo.

Gli onigiri, in poche e spoglie parole, sono delle polpette di riso che sono spesso (ma non sempre) farcite in vario modo. Rappresentano uno dei soul food giapponesi. Va assaggiato e compreso a livello quasi di anima, pena il totale fraintendimento e la sua ingiusta relegazione a cibo insulso e noioso.

Per dare il giusto risalto a queste squisite verdure canavesane, ho scelto quindi di preparare degli onigiri avvolti nelle foglie di coste anziché nel classico foglio di alga nori.

In Giappone questo ortaggio è conosciuto prevalentemente col nome europeo di スイスチャード Suisu-chādo (che all’incirca significa bietola svizzera). Sono note anche col nome cinese di フダンソウ fudansō.

Illustrazione di coste o biete svizzere, come le chiamano i giapponesi. Fonte.

Ricetta: onigiri di coste

La ricetta che condividerò è di una semplicità disarmante ma di un discreto effetto coreografico.

Questi onigiri deliziosi si prestano a molte modifiche in base ai vostri gusti e sono perfetti per un picnic, uno spuntino, un pranzo veloce oppure per riempire il vostro obentō.

Vediamo subito gli ingredienti:

Per 6 onigiri:

6 coste, ben lavate
300g di riso cotto*
sesamo nero o bianco q.b.
Furikake (facoltativo)

*Per la ricetta vi servono 300g di riso cotto che si preparano con 150g di riso giapponese crudo e circa 230ml d’acqua. Se desiderate le indicazioni per la preparazione del riso giapponese al vapore vi rimando qui. Per la spiegazione rapida: lavare il riso tre o quattro volte, metterlo in un tegame con la quantità indicata d’acqua. Chiudere il coperchio, portare ad ebollizione a fiamma alta e – non appena inizierà il bollore – abbassare la fiamma al minimo e lasciar cuocere per 15 minuti circa. Non aprire il coperchio durante la cottura.

Nei miei giri in solitaria per l’Asia torinese, ho trovato con mia somma sorpresa del riso koshihikari Wadachi, proveniente dalla prefettura di Nīgata!

Preparazione delle coste

  1. Scegliere coste con foglie integre e gambo. Lavarle molto bene e scottarle in acqua bollente salata per dieci secondi al massimo. Scolarle delicatamente e asciugarle una ad una facendo attenzione a non romperle. Tagliare i gambi e metterli da parte.

2. Disporre le foglie, che avrete precedentemente tamponato con delicatezza, sopra un piatto.
Tagliare i gambi per lungo a strisce sottili e tagliuzzarli finemente.

Preparazione del riso

3. Trasferire il riso cotto caldo in un recipiente e aggiungere i gambi tritati, del sesamo a piacere, un po’ di furikake a vostra scelta. Se non avete il furikake, potete condire con del pepe, un po’ di sale, un pizzico di peperoncino, ecc. Mescolare bene con un cucchiaio di legno facendo attenzione a non rompere i chicchi.
Dividere il riso in 6 porzioni uguali.
Potete ora formare le palline di riso con le mani oppure, se avete paura di fare pasticci, aiutandovi con della pellicola per alimenti: basterà posizionare ogni porzione di riso su un pezzo di pellicola che chiuderete fino a formare una pallina.

Preparazione degli onigiri

4. Arriviamo al momento conclusivo. Anche per questa operazione potete aiutarvi con della pellicola per alimenti se avete paura di fare guai.
Con garbo, stendere una foglia di costa per volta e posizionare al centro una pallina di riso. Con molta delicatezza, iniziare a coprire il riso piegando la foglia dall’alto, poi dal basso e infine le parti laterali.
Proseguire così con gli ingredienti restanti.

Condividere è voler bene

Sharing is caring – dicono gli inglesi. In effetti, la condivisione è un gesto di affetto verso gli altri. E vale certamente anche per gli onigiri che, secondo una curiosa teoria, sono più buoni quando sono gli altri a prepararteli. Nel Giappone orientale, quindi anche dove abitavo io, si preferisce il termine おむすび omusubi mentre おにぎり onigiri pare essere più diffuso nella parte occidentale. E non è un caso, forse, che omusubi derivi dal verbo musubu che significa legare, collegare, unire, …quasi a voler rimarcare il suggellamento di un legame di cuore.

Biscotti al matcha di Shiho Nakashima

Biscotti al matcha di Shiho Nakashima.
Biscotti al matcha secondo la ricetta di Shiho Nakashima

I biscotti al matcha sono una mia piccola passione nonché capriccio dolciario a cui ogni tanto dedico qualche esperimento. Non mi piacciono le rivisitazioni industriali, soprattutto quelle goffe che si trovano qui da noi e che spesso sono solo coreograficamente verdi ma dell’autentico sapore erboso del matcha non hanno traccia.

Tempo fa proposi questa ricetta e nel vecchio blog quest’altra. Ognuna con caratteristiche proprie ma entrambe deliziose.

Il matcha è un ingrediente che amo profondamente. Per me è una delle essenze più autentiche giapponesi. Sa inequivocabilmente di Giappone.

Al di là del fatto che ora sia ingrediente di tendenza – un po’ come le bacche di goji e l’olio di argan alcuni anni fa – e quindi sulla bocca di tutti ma nel cuore di pochi, per me è un elemento / alimento importante. Cerco sempre di averne di qualità in dispensa proprio perché amo berlo puro, senza fronzoli. Però ammetto di amarlo anche come ingrediente, soprattutto nei biscotti oppure per insaporire un prezioso sale con cui rifinire una buona tenpura.

Brividi narrativi d’antan

Audiomovie

Il Giappone che mi segue ovunque, anche nei meandri più inaspettati.

Un giorno ho scoperto, casualmente, un podcast intitolato 「夜のミステリー」Yoru no misuterī (I misteri della notte). Da grande ascoltatrice di podcast – di cui parlerò in un prossimo articolo, soprattutto in relazione al giapponese – ho voluto subito approfondire.

Questo podcast si propone di rilanciare una vecchia serie di racconti radiofonici del mistero, prodotta nel 1976 dalla TBS, importante emittente TV radio giapponese. Il 1976 corrisponde al cinquantunesimo anno dell’era Shōwa, secondo la suddivisione tradizionale del 年号 nengō che assegna all’era il nome dell’imperatore regnante. L’era Shōwa, chiamata così perché il regnante del tempo era appunto l’imperatore Shōwa conosciuto anche col suo nome personale di Hirohito, iniziò nel 1926 e si concluse nel 1989 con la sua morte.

Il rilancio, dunque, di questa storica trasmissione della TBS da parte di AudioMovie è stata rinominata 令和版 Reiwa-han ovvero edizione dell’era Reiwa che è il nome dell’epoca in cui ci troviamo ora, iniziata nel 2019 con l’ascesa al trono dell’imperatore Naruhito. Questo per distinguerla dall’edizione classica di epoca Shōwa che, ovviamente era solo radiofonica.

Era notte fonda e faticavo un po’ ad addormentarmi. Quando questo mi succede cerco di ascoltare alcuni dei miei podcast preferiti anche se questo a volte sortisce l’effetto opposto tenendo alta la mia attenzione. Però ricorro spesso ai podcast perché mi rilassano.

Ho scelto un episodio a caso di Yoru no misuterī e – subito dopo l’introduzione guidata da una voce decisamente inquietante e di una musica che lo era altrettanto – è iniziata la storia.

「雪道で」Yukimichide, In una strada innevata

Al di là di un primo brivido che provo già pregustando una storia che ne promette molti altri, ho spalancato gli occhi quando ho scoperto che la storia è ambientata nella Prefettura del Kanagawa, nella città di Atsugi! Praticamente quasi casa mia perché ad Atsugi c’era (c’è tutt’ora) la sede della mia università!

La storia, molto misteriosa e piuttosto tetra, continuava però a sapere di casa e – forse proprio per questo – mi è sembrata ancora più paurosa.

Ho trovato sorprendente questa coincidenza…anche se forse le coincidenze non esistono per davvero. Con tutte le zone del Giappone in cui avrebbe potuto essere ambientata questa storia, proprio ad Atsugi!

Ma ritorniamo al matcha…

Per questa ricetta vi servirà del buon matcha. È evidente che sia lui il protagonista indiscusso.

Potete acquistarne di ottima qualità dalla mia amica Sumie, su J-Okini usando il mio codice sconto del 15% valido solo sui tè, incluso naturalmente il matcha: Marianna15

Questo è il suo straordinario matcha che racchiude il sapore delle colline di Kyōto:

Per questa ricetta, tuttavia, ho voluto usare un matcha di un grado di qualità leggermente inferiore rispetto a quello di Sumie che invece preferisco bere. Questo:

Questo è il matcha di Uji di 菱和園 Hishiwaen, della Prefettura del…Kanagawa!

Se volete preparare questi biscotti, usate il matcha che trovate però accertatevi che sia di provenienza giapponese.

Nakashima Shiho

Chef, autrice di numerosi ricettari ed esperta a trecentosessanta gradi di arte culinaria, Nakashima Shiho è originaria della Prefettura di Nīgata. Tra i suoi tanti libri, ce n’è uno che ha riscosso particolare successo: 「まいにち食べたい”ごはんのような”クッキーとビスケットの本」Mainichi tabetai “gohan no yōna” kukkī to bisuketto no hon (Un libro di biscotti e biscottini che vorrete mangiare ogni giorno tanto quanto il riso).

Trovo delizioso – in tutti i sensi – questo titolo così simpatico e con un che di innocente e giocoso.

Ebbene, la ricetta che vi presento oggi proviene proprio da questo libro quindi è di proprietà di Nakashima-sensei.

La ricetta

Ed eccoci giunti alla ricetta, finalmente. Il libro summenzionato si fonda su una premessa: tutte le ricette proposte sono state alleggerite preferendo sostituti del burro e delle uova.
Solitamente i biscotti al matcha vengono realizzati con una pasta frolla classica, decisamente burrosa e grassa. Le due ricette che avevo pubblicato in passato (e che ho linkato più su) sono proprio a base di una pasta frolla al burro.

La ricetta si chiama 抹茶のグルグルクッキー Matcha no guruguru kukkī …quindi biscotti al matcha guruguru?!
Guruguru è una simpatica espressione onomatopeica che descrive quel disegno spiralico, a girandola, dato dai due impasti avvolti su se stessi.

A proposito di queste espressioni vi rimando al mio articolo precedente che potete trovare proprio qui.

Con questa ricetta – che traduco direttamente dal giapponese – si ottengono più o meno una ventina di biscottini. Il numero potrebbe variare in base, naturalmente, alle dimensioni che deciderete di dare all’impasto prima di tagliarlo.

Ho diviso la lista degli ingredienti in due parti: la prima per l’impasto chiaro e la seconda per l’impasto verde.

INGREDIENTI PER L’IMPASTO CHIARO

100g di farina bianca (io ho usato farina tipo 1)
20g di zucchero di canna
un pizzico di sale
2 cucchiai di olio vegetale
2 cucchiai di acqua

INGREDIENTI PER L’IMPASTO VERDE AL MATCHA

80g di farina (anche qui ho usato la farina tipo 1)
1 cucchiaio abbondante di matcha
20g di zucchero di canna
2 cucchiai di olio vegetale
1 cucchiaio e mezzo di acqua

PREPARAZIONE

Preparare subito l’impasto chiaro: in un recipiente versare la farina, lo zucchero, il pizzico di sale e mescolare con le mani. Aggiungere l’olio e mescolare, sempre con le mani, fino a quando la farina non avrà assorbito bene l’olio. Ora versare l’acqua e mescolare fino a quando non si otterrà un impasto a cui si darà la forma di una palla che andrà poi coperta con della pellicola per alimenti.

Il collage con tutti i passaggi per la preparazione dell’impasto chiaro.

PREPARAZIONE DELL’IMPASTO VERDE AL MATCHA

Per il secondo impasto, seguire la stessa procedura del primo impasto ricordandosi di aggiungere il matcha subito alla farina.

Collage con la procedura per la preparazione dell’impasto verde al matcha.

CONTINUAZIONE

Aiutandosi con della pellicola trasparente come base (o tappetini tipo Silpat, se li usate), stendere entrambi gli impasti con un matterello dando a tutti e due una forma rettangolare di circa 15cm x 20cm. Non c’è bisogno di essere precisissimi al millimetro.

Collage della preparazione dei biscotti al matcha

Ora bisognerà sovrapporre i due impasti, mettendo quello verde sopra quello chiaro. Partendo poi dal lato più corto, iniziare ad arrotolare ben stretto l’impasto su se stesso e poi tagliarlo a fette di circa 5 mm di spessore.

I biscotti prima della cottura

Disporre i biscotti su una teglia rivestita di carta da forno e infornare a 170 gradi centigradi per circa 30 minuti.

Ed ecco i biscotti appena sfornati!

Sono biscotti molto semplici sia come preparazione sia come sapore. Leggeri e con la nota inconfondibile del matcha che spicca.

E con questi biscottini al matcha di Nakashima Shiho e le coincidenze che mi inseguono, vi do appuntamento ai prossimi articoli. In base all’ispirazione, saranno in arrivo racconti, introspezioni, ricette e chissà cos’altro.

L’abbagliante bellezza del Lungo Po Antonelli, a Torino, in un giorno di aprile.

Shuwa-shuwa: l’arte che insegna

È di Shuwa-shuwa che vorrei raccontarvi. Ma cedo il passo, per un attimo alla regina delle stagioni e al suo ingresso in scena

Ben prima che ci raggiungesse, la primavera ci aveva già mandato dei messaggi per avvisarci del suo arrivo imminente. Quel non so che di profumato nell’aria, quei primi raggi di sole ancora brevi ma già intensi. Il piroettare di insetti comparsi quasi d’acchito e spumeggianti cespugli di forsizie dorate. E poi quell’apparizione quasi improvvisa di boccioli impazienti, pronti a svelarsi al via.
Le giornate hanno cominciato ad allungarsi e con esse è ritornato lo stupore sempre bambino del sole fino a tardi.

Sui petali del ricordo

A proposito di fiori, mi viene in mente un’espressione giapponese che mi piace moltissimo:

思い出話に花が咲く

Omoide-banashi ni hana ga saku.

Traduzione: Nel discorrere di ricordi sbocciano i fiori.

La rievocazione di ciò che è stato genera sempre il fiorire di altri ricordi e questo dona brio alla passeggiata di reminiscenza. È un po’ come percorrere molto lentamente un viale lungo cui piccoli fiorellini si schiudono ad ogni passo.

Megumi è venuta a trovarmi nel cuore di marzo. Erano trascorsi già alcuni giorni dalla sua partenza quando, un pomeriggio, mi sono ritrovata a passeggiare per i Giardini Reali di Torino fermandomi più volte a gustare il momento e ad ammirare ciò che mi circondava. Il sole era già incamminato sulla via del tramonto e il cielo aveva iniziato a tingersi di quelle note che fanno da preludio alla sera. È il momento dello 夕暮れ yūgure, come dicono i giapponesi.

Mi sono avvicinata a questo ciliegio dai fiori di un rosa tenue, come quello di un delicato confetto. I suoi rami, generosamente piegati verso il basso, mi hanno permesso di ammirare questa cascata floreale anche nel dettaglio.

Non appena arriva la primavera, l’argomento dei ciliegi in fiore diventa inflazionato tanto da sembrare strano il non parlarne. Ma ho scritto e raccontato molto in proposito negli anni. Mi basta ricordare gli umili ciliegi delle collinette di Zama, nel Kanagawa, che vedevo dalle finestre del mio ingresso. Oppure i rosei tripudi che mi aspettavano avvolti nel silenzio su allo Zama-jinja, il santuario shintoista che visitavo in solitudine.

Ho accolto i primi cenni di primavera così, lungo i viali dei Giardini Reali e con la Mole Antonelliana come fedele compagna nonché inconfondibile simbolo della mia straordinaria città.

Il ritorno verso casa, passando dai Giardini Reali.

Il progetto Shuwa-shuwa

Qualche tempo fa – sinceramente non ricordo nemmeno quando – venni a conoscenza del dolcissimo progetto di una famiglia franco-nipponica. Il progetto, concretizzatosi poi in uno splendido volume, s’intitola “Shuwa-shuwa“.
Si tratta di una vivacissima raccolta di cento espressioni onomatopeiche comunemente usate in giapponese.

La famiglia Lamri-Shigematsu, che artisticamente si fa chiamare M&M&m&m avendo tutti e quattro nomi che iniziano con la lettera M, ha ideato questo libro grazie all’esperienza didattica di apprendimento del giapponese in cui sono impegnati i figli Maïtė e Maceo e il loro papà.

Il libro

Frutto dell’esperienza didattica nell’apprendimento del giapponese di Maïté, Maceo e il loro papà, il libro ha richiesto circa diciotto mesi di lungo lavoro! Il volume, infatti, è anche il risultato di una collaborazione a livello internazionale che ha coinvolto illustratori di quasi quaranta Paesi diversi, inclusa l’Italia!

La prefazione al libro, inoltre, porta il prestigioso nome di Agnès B., stilista francese di fama internazionale il cui marchio ho conosciuto per la prima volta proprio in Giappone dove è molto apprezzata.

Le onomatopee in giapponese

Le onomatopee sono parole che foneticamente imitano il verso di un animale o il suono prodotto da qualcuno o qualcosa. Anche in italiano le abbiamo. Pensiamo, ad esempio, ai miao, bau, cip-cip, muu-muu. Ma pensiamo anche ad onomatopee che riproducono il bum! di un’esplosione; il bla-bla del parlottio indistinto; lo splash di qualcosa che cade nell’acqua; l’etciù dello starnuto; il bang dello sparo; il driiin del telefono o di un campanello. E molte altre.

A me fanno subito pensare ai fumetti; ma anche alle poesie di Aldo Palazzeschi, grande poeta avanguardista italiano, in particolare a quel suo componimento del 1909 intitolato “La fontana malata” che potete leggere qui.

Nel complesso, però, sembrano richiamare alla mente un linguaggio infantile o un contesto giocoso e decisamente non formale.

Tuttavia, in giapponese le cose stanno diversamente.

Coloro che si avvicinano allo studio del giapponese ben presto scoprono che questa lingua vanta un ricchissimo assortimento di queste espressioni. Ma, a differenza dell’italiano, in giapponese sono parte integrante della lingua e non necessariamente legate a contesti di scherzo o di gioco.

E credo stia proprio qui la difficoltà: bisogna considerare queste espressioni al pari di qualsiasi altro vocabolo e appartenenti allo stesso grado di importanza. Sono dunque da imparare a utilizzare con disinvoltura per dare qualche pennellata in più di profondità al proprio pensiero.

Le onomatopee in giapponese a volte arrivano dove il semplice sostantivo o verbo non bastano.

Le cinque categorie di onomatopee del giapponese

Per dare prova della serietà con cui queste espressioni sono annoverate nella lingua naturale è sufficiente notare che ne esistono ben cinque categorie diverse!

Le 擬声語 giseigo: queste riproducono suoni prodotti da animali o persone. Vediamone alcune:

ニャンニャン nyan-nyan : miao miao
ワンワン wan-wan : bau bau
ペラペラ pera-pera: riproduce la scioltezza di chi parla fluentemente una lingua

Vi sono poi le 擬音語 giongo che invece imitano il suono prodotto da oggetti o fenomeni naturali. Vediamone qualcuna:

シュワシュワ shuwa-shuwa (che è anche il titolo del libro!): riproduce il rumore prodotto dalle bollicine di una bevanda effervescente.
ポタポタ pota-pota : imita il suono della pioggia quando cade a goccioloni pesanti.
リンリン rin-rin: replica il suono di un campanellino.

Dalla terza categoria in avanti inizia, a mio avviso, il lato realmente affascinante delle onomatopee del giapponese perché esprimono sfumature di significato che possono rivelarsi estremamente sfuggenti.
Abbiamo infatti le cosiddette 擬態語 gitaigo che descrivono condizioni e stati. Eccone qualcuna:

ビショビショ bisho-bisho: essere bagnati fradici.
グッタリ guttari: essere stanchissimi, senza forze.
ピチピチ pichi-pichi: avere un aspetto giovane e fresco.

La penultima categoria è quella dei 擬容語 giyōgo che comprende le onomatopee dedicate ai movimenti. Qualche esempio:

ダダダダ dada-dada: riproduce il suono di qualcuno che corre trafelato.
スタスタ suta-suta: il suono della camminata a passo svelto, spesso fatta senza guardarsi troppo intorno.
トコトコ toko-toko: il suono dei passettini di un bambino.

L’ultima categoria è quella dei 擬情語 gijōgo, un gruppo che contiene parole dedicate alla descrizione precisa di sentimenti ed emozioni. Questa per me è la categoria più affascinante. Qualche esempio:

飽き飽き aki-aki: descrive la sensazione di noia mortale, il sentirsi stufi.
イライラ ira-ira: sentirsi irritato, fortemente infastidito.
ハラハラ hara-hara: sentirsi agitato, in preda all’ansia.
ワクワク waku-waku: sentirsi molto emozionato e in ansia ma per qualcosa che molto probabilmente sarà positivo.
ラブラブ rabu-rabu: essere innamorati. A questa onomatopea sono affezionata perché me l’aveva insegnata Fusae-san.

La preziosità di Shuwa-shuwa

Questa breve panoramica delle onomatopee in giapponese dovrebbe essere sufficiente per avere più o meno un’idea della loro ricchezza e complessità. Ecco perché sono un aspetto sicuramente intrigante ma anche complicato per qualsiasi studente della lingua: da un lato vi è una complessità numerica (si dice che queste espressioni siano all’incirca quattromila!) e dall’altro la necessità di vederle come parte essenziale della lingua naturale e non come mero abbellimento un po’ burlone.

Per questo motivo vanno studiate con criterio per poterne cogliere le sfumature e i contesti in cui utilizzarle correttamente.

All’università usavamo un libro che si serviva di vignette e semplici illustrazioni per veicolare il significato – anche sottile – di ognuna. Nel fumetto rosso sulla copertina, la promessa: 絵でわかる e de wakaru cioè comprensibili grazie alle illustrazioni. Questo perché a volte non basta semplicemente spiegarle ma è più efficace rappresentarle per poter trasferire più o meno lo stesso concetto in un’altra lingua.

Quando sono venuta a conoscenza del progetto Shuwa-shuwa ripensai subito a questo libro del professor Akutsu…ma con una marcia in più. E avevo ragione.

Cento illustratori che, da ogni parte del mondo, hanno contribuito con i loro straordinari disegni e ognuno con una missione: trasmettere nella maniera più accurata possibile la sfumatura di ogni onomatopea elencata.

In tutte e cento le illustrazioni ritroviamo Maïté e Maceo visti attraverso l’immaginazione e la creatività di questi disegnatori di grande talento. I due ragazzini sono sempre impegnati in svariate situazioni che spiegano esattamente il senso dell’espressione onomatopeica in esame. Ogni espressione è inoltre accompagnata da una frase di esempio in inglese, francese e giapponese e da i riferimenti dell’artista che ha realizzato il disegno.

Nei giorni precedenti all’acquisto ho chiacchierato un po’ con la mamma dei ragazzi che, con grande dolcezza e affabilità, ha accolto il mio entusiasmo per Shuwa-shuwa. Assieme al libro mi ha anche inviato in regalo queste graziose cartoline che riportano alcune delle onomatopee contenute nell’opera:

E una graditissima dedica al fondo del libro!

La magia di queste meravigliose illustrazioni e la passione che chiaramente traspare da tutta l’opera riescono con grande efficacia a trasmettere l’esatto significato di ogni espressione. E quindi, se le si comprende le si riuscirà anche ad usare, arricchendo in questo modo la propria capacità espressiva in giapponese.

Una vera coccola artistica per tutti gli studenti di lingua giapponese, di qualsiasi livello.

Il libro si può acquistare direttamente dalla pagina ufficiale che trovate QUI. E nel frattempo restiamo in attesa del secondo volume che è già in preparazione! Per un piccolo sconto sull’acquisto, usate il codice: SHUWA.

Questo post è dedicato alla famiglia M&M&m&m, in particolar modo a Maïté e Maceo!

Kawari-e e fantasie di carta

Preziosa carta di Echizen
越前和紙

Le sottili tendine della mia finestra avevano già iniziato a distillare i forti raggi del sole di marzo e quest’infusione dorata illuminava ogni cosa attorno a me. Un po’ di quest’aurea essenza accarezzava alcuni foglietti di carta di Echizen che mi aveva regalato Megumi.
La preziosa carta di Echizen è originaria della Prefettura di Fukui. Si narra sia il frutto degli insegnamenti di una misteriosa principessa apparsa improvvisamente in quelle zone più di millecinquecento anni fa.
Dal tumultuoso periodo Muromachi al mio amato periodo Edo, la carta di Echizen fu elemento irrinunciabile nelle corrispondenze ufficiali tra i membri della corte imperiale e i samurai.

La straordinaria carta di Echizen

La carta di Echizen è elegante e trasmette calore. Tanizaki, ne sono certa, l’amava. Nel suo Libro d’ombra 「陰翳礼讃」lo scrittore lodava la bellezza della carta tradizionale giapponese proprio per questa sua capacità di accogliere dolcemente la luce anziché respingerla come fa la carta occidentale.
A Tanizaki ho dedicato molti miei scritti. Qui un articolo di qualche tempo fa.

Giochi di carta

In quest’atmosfera avvolta nell’oro di marzo ho giocato con i fogli di carta di Echizen. Avevano già sorseggiato delicatamente un po’ di quella luce brillante che era penetrata lentamente nelle sue fibre di gelso. Quasi come eteree viscere.

Ho giocato con qualche semplice origami cimentandomi, questa volta, nella realizzazione di alcuni 箸置き hashi-oki o poggia-bacchette.

Qualche stella colorata e poi un piccolo origami a forma di 銀錠 ginjō ovvero i lingotti d’oro e argento dell’antica Cina.

I miei piccoli hashi-oki
I miei hashi-oki all’opera
Stelle di marzo

La domenica è scivolata via, tra una piega e l’altra, nella consapevolezza della preziosità del presente. E non nell’anelito al domani. For someday never comes – cantavano i Creedence Clearwater Revival.

Le mie finestre erano quasi spalancate. Non del tutto però. Forse mi sembrava ancora presto aprirle completamente. Ma il sole riusciva comunque ad insinuarsi in ogni angolo della stanza.
Da lontano ho sentito il piano sconsolato di una donna. Non so dove fosse né perché piangesse. Però ho provato dispiacere assieme a lei, qualunque fosse la causa del suo dolore. Il suo lamento, però, ad un certo punto è cessato e al suo posto voci gentili di chi l’ha consolata.

Ho piegato con attenzione le stelline di carta e ho immaginato fossero le stelle di marzo.

Giocando con la carta

Kawari-e: Storie di carta dell’antico Giappone

A Tokyo ero stata in un piccolo ma prezioso museo che si chiama たばこと塩博物館 Tabako to shio hakubutsukan ovvero il museo del Tabacco e del Sale, nel quartiere speciale di Sumida-ku. Il museo è dedicato alla storia di questi due prodotti, soprattutto in relazione al Giappone.
Fu lì che venni a conoscenza dei 変り絵 Kawari-e.
I Kawari-e (o figure che cambiano) sono un vecchio gioco dell’antico Giappone. Sono conosciuti anche come 折り変り絵 orikawari-e e 畳変り絵 tatamikawari-e.
In poche parole, si tratta di un foglio di carta su cui sono presenti varie immagini. A seconda di come si piegherà il foglio sarà possibile ottenere nuove figure e – perché no – inventare così tante storie sempre diverse.

Nel periodo Edo – epoca caratterizzata dalla popolarizzazione della letteratura e da una fiorente industria editoriale – esisteva un filone dell’editoria infantile che produceva i cosiddetti おもちゃ絵 omocha-e. Erano delle specie di album di figurine per bambini.

Esempio di omocha-e. Fonte.

Ebbene, i kawari-e appartenevano al filone degli omocha-e e rappresentavano un amatissimo passatempo dei bambini del periodo Edo.
I kawari-e ebbero grande successo per tutto il periodo Edo fino verso la metà del periodo Meiji.

Il mio kawari-e

Al museo acquistai una riproduzione di un kawari-e risalente all’epoca 享保 Kyōhō (1716-1736).

In esso vediamo dapprima una nobildonna di corte intenta srotolare una pergamena. Forse è di una poesia. È seduta vicino al tokonoma di una stanza. Dietro di lei, infatti, vediamo un kakemono appeso alla parete della nicchia. Davanti a lei, invece, un piccolo vassoio con sopra disposti del tabacco e una specie di pipa in voga ai tempi.
I giapponesi conoscono il tabacco dal sedicesimo secolo, circa, cioè dall’arrivo dei portoghesi. Ma il tabacco, come i libri, conobbe grande diffusione proprio nel Periodo Edo divenendo poi monopolio di Stato nel 1949.

Una prima piega ci mostra la nobildonna non più seduta ma in piedi, sempre abbigliata in un elegante kimono autunnale abbellito da grandi foglie d’acero. Un’altra piega ancora e vediamo cambiare il nodo del suo obi.

Ma in questa tranquilla stanza di una residenza imperiale di chissà quale provincia dello Shogunato, ecco avvenire trasformazioni davvero strabilianti!

Infatti, ad ogni piega, una sorpresa!

Appare poi un principe!

O forse è solo il gioco frutto di una scaltra dissimulazione!

Damako-nabe e la fine dell’inverno

Foto di 住まいマガジンびお

Nijūshi-sekki: un antico strumento da riscoprire

Credo che l’antico calendario giapponese riesca con elevata precisione a descrivere le lievi (a volte impercettibili) trasformazioni della natura nell’arco dell’anno. Mi piace farvi riferimento proprio perché sa cogliere con meticolosità quelle leggere variazioni che il più delle volte sfuggono. O che forse non passano inosservate all’occhio di chi – ancora – si guarda intorno.

Si tratta del calendario cosiddetto 二十四節気 nijūshi-sekki cioè le ventiquattro ripartizioni dell’anno solare. L’intero anno solare, dunque, si divide in ventiquattro fasi principali (節気 sekki) che corrispondono ai momenti di trasformazione di maggior rilevanza climatica. Ogni fase viene poi ulteriormente suddivisa in tre microfasi chiamate 候 o stagione. In totale, si avranno quindi settantadue kō che restituiranno un quadro altamente accurato di tutto ciò che avviene a livello di temperature, di flora a fauna nell’arco di tutto l’anno.

Rappresentazione a disco del nijūshi-sekki riportante nel cerchio esterno le 24 ripartizioni, nel cerchio mezzano i 12 mesi e in quello interno le 4 stagioni. Fonte.

È un calendario di antica origine cinese, nato nel mondo contadino in cui era essenziale riconoscere il momento giusto per la semina. Introdotto in Giappone intorno al VI secolo d.C. nella sua versione originale cinese, questo calendario non mantenne la sua forma a lungo. Era necessario, infatti, che esso riflettesse le caratteristiche territoriali giapponesi. Storicamente se ne attribuisce il perfezionamento ad un grande astronomo del Periodo Edo di nome 渋川春海 Shibukawa Shunkai.

Shibukawa Shunkai, il grande astronomo del Periodo Edo, che perfezionò il nijūshi-sekki introducendo le microfasi che riflettono le caratteristiche climatiche del Giappone. Fonte immagine.

Nuovo sekki

A partire da oggi 19 febbraio ha inizio un nuovo sekki cioè la seconda ripartizione maggiore da inizio anno. Si chiama 雨水 usui e si può tradurre con acqua piovana. Questo sekki terminerà intorno al 5 di marzo. E oggi ha inizio la sua prima microfase chiamata 土脉潤起 tsuchi no shō uruoi okoru ovvero il momento in cui la pioggia inumidisce il terreno.

Secondo questo calendario, la primavera è già cominciata, precisamente il 4 febbraio con l’inizio di 立春 risshun ovvero il primo sekki dell’anno solare.

Dolce estemporaneità

In uno dei miei recenti giri solitari per la malconcia Chinatown torinese, in un giorno di Risshun, ho trovato queste caramelle:

Caramelle di Hello Kitty

Si tratta di caramelle alla frutta di Hello Kitty (ciliegia, mela e arancia) prodotte per i festeggiamenti del Nuovo Anno. La confezione molto colorata ricorda la forma del Monte Fuji e tutte le decorazioni su di essa sono chiaramente ispirate al periodo di fine anno. Incluso l’elegante kimono che Hello Kitty indossa per l’occasione.

Il sekki corrispondente è l’ultimo dell’anno ossia quello di 冬至 Tōji ovvero del solstizio d’inverno che copre il periodo dal 22 dicembre al 4 gennaio.

Ogni involucro nasconde un おみくじ omikuji, ovvero un oracolo o predizione scritta diffusi nelle credenze shintoiste e buddiste.

Omikuji nascosto

Sollevando un lembo dell’incarto sarà possibile scoprire l’omikuji che riporterà, secondo la tradizione, alcuni messaggi del tipo: 吉 kichi (fortuna) 大吉 daikichi (grande fortuna).

Su ogni involucro Hello Kitty sfoggia un kimono diverso!

Damako-nabe

Tra le specialità della cucina invernale giapponese che prediligo vi sono senz’altro i 鍋物 nabemono ovvero quelle preparazioni dove gli ingredienti si mettono a cuocere in un brodo, in una pentola (nabe), generalmente di coccio. Sono piatti che trasmettono calore e convivialità e sono, inoltre, facilmente personalizzabili in base alle proprie preferenze.

Illustrazione di una Damako-nabe. Fonte.

Anni fa ebbi la possibilità di procurarmi una 土鍋, donabe ossia la tradizionale pentola in terracotta, proveniente da Iga, nella Prefettura di Mie, grazie ai saldi di Muji qui a Torino. Da allora me ne prendo molta cura perché ogni inverno arricchisce le nostre cene con un tocco di confortante giapponesità.

Ogni inverno, tra le mie preparazioni immancabili vi è senz’altro la 石狩鍋 Ishikari-nabe a base di salmone e verdure, nonché tributo alla cucina di Hokkaidō.

Quest’anno, invece, ho voluto dare spazio ad un classico della cucina regionale giapponese, in particolare della Prefettura di Akita: だまこ鍋 Damako-nabe.

だまこ鍋 La mia Damako-nabe di Akita

Si tratta di uno stufato a base di: pollo, verdure, polpette di riso. Il tutto fatto cuocere lentamente in un brodo molto saporito.

La ricetta originale prevede alcuni ortaggi non facili, se non addirittura impossibili, da trovare qui. Ma il problema è presto risolto: è sufficiente sostituirli con le verdure a disposizione.

La particolarità della Damako-nabe è la presenza delle だまこ damako appunto, ovvero delle polpette di riso. L’idea nasce dalla necessità di evitare gli sprechi in cucina e utilizzare ogni singolo chicco di riso avanzato.

E così, in questa ultima fase d’inverno, a cavallo tra Risshun e Usui, ho preparato questo piatto infuso del tepore di casa, mentre fuori una fredda oscurità ammanta ogni cosa. In quel delicato momento di transizione in cui si avvertono ancora gli artigli del freddo ma, al contempo, si percepiscono già i primi effluvi di una primavera non poi così distante.

Riso

Servirà innanzitutto avere del riso cotto, avanzato o preparato appositamente. Nei miei consueti giri per la malconcia Chinatown torinese sono riuscita a ritrovare addirittura una vecchia conoscenza, tra gli scaffali caotici di una delle botteghe solite:

Riso Nishiki

Il celebre riso Nishiki, varietà giapponese storicamente coltivata in California. Credo sia stata una delle prime varietà a venir coltivata negli Stati Uniti guadagnandosi, così, il posto di veterano dei risi.
E avendo vissuto in California per molti anni, ricordo bene le buste di Nishiki nei market asiatici nella Convoy Street di San Diego. E ritrovarlo qui, a Torino, nel solito confortante caos degli scaffali dello Yang Guang Market è stata una sorpresa molto grande.

Non avevo del riso avanzato dunque ne ho preparato un po’ appositamente.

Dashi

Le varietà di dashi che riesco a trovare regolarmente qui a Torino. Le marche sono, partendo dall’alto a sinistra, in senso orario: Marutomo, Ajinomoto, Shimaya, Marushima.

Servirà necessariamente del dashi, ossia uno dei cardini della cucina giapponese e di cui ho scritto molto negli anni: un brodo essenzialmente a base di acqua, alga konbu e katsuobushi (scaglie di tonnetto secco). Si può preparare fresco disponendo, ovviamente, di katsuobushi di qualità. Tuttavia, la scorciatoia più comune e più economica è quella del dashi in polvere.
Nella solita malconcia Chinatown della mia città riesco, incredibilmente, a trovarne ben quattro marche diverse! Insomma, non ho che l’imbarazzo della scelta!
Addirittura, sono persino arrivate le confezioni già in tema primaverile del dashi di Shimaya adornate da romantici rametti di ciliegi in fiore.

Preparazione della Damako-nabe

Ingredienti:
400g di riso cotto
400g di pollo (cosce e petti)
Un cipollotto verde
del cavolo
Uno o due shiitake
Mezza carota
Una patata

600ml d’acqua
un pizzico di sale
due cucchiai di salsa di soia
due cucchiaini di dashi in polvere
due cucchiai di maizena o amido di mais

Per le Damako:

In un sacchetto versare il riso cotto e i due cucchiai di fecola di patate. Chiudere il sacchetto e schiacciare il tutto con le mani, delicatamente, fino a quando il composto non sarà diventato omogeneo. Si dovrà ottenere un impasto un po’ colloso. Con una bacchetta o altro, dividere l’impasto in sei parti uguali. Con le mani inumidite in acqua e sale, modellare ognuna delle sei parti dando loro la forma di una polpetta.
Mettere da parte, assieme alle verdure lavate e mondate.

Verdure e damako

Per le verdure, usate ciò che avete. Per gli shiitake secchi, ricordatevi di metterli in ammollo in acqua calda per un’oretta circa. Tagliare il resto delle verdure a pezzi non troppo piccoli.

Nella donabe (o altra pentola) versare l’acqua, il sale, la salsa di soia, il dashi. Mescolare bene e aggiungere il pollo. Far sobbollire fino a cottura quasi ultimata del pollo. Dopodiché aggiungere le verdure. Non è ancora il momento di aggiungere le damako.

Lasciar cuocere il tutto a fiamma media, fino a quando le patate o altri tuberi non saranno teneri.

La mia Donabe di Iga


Infine, calare le damako nel brodo facendo attenzione a non romperle. Chiudere il coperchio e lasciar cuocere per altri 5 minuti circa.

Un breve video realizzato da me.
Preparazione della Damako-nabe di Akita

Servire in scodelle capienti.

Dekiagari: è pronto!

E forse, chissà, con questa Damako-nabe inizio a salutare l’inverno. Ma assieme all’inverno se ne vanno anche altre cose. D’altra parte, la vita è questo: un ripetersi ma anche un rigenerarsi continuo.

Sano e salvo

Akemashite omedetō gozaimasu. Questa è l’espressione che i giapponesi usano per augurarsi buon anno nuovo. Realizzato da me su cielo torinese come sfondo.

Sano e salvo non è solo una locuzione aggettivale ben nota ma è anche il titolo di una delle più belle canzoni scritte da Neffa.
Straordinario cantautore italiano nonché vero poeta urbano dei nostri tempi, Neffa mette in musica un sentire profondo che a volte sfugge persino dalla mia volubile penna.

Dotato di un raro virtuosismo artistico, riesce con la sua voce ad infondere nelle sue parole una ricchezza di sfumature inaspettata. Per me la voce di Neffa resta indissolubilmente legata ai miei anni giapponesi perché lì lo ascoltavo tantissimo. E non solo io. Ricordo che anche la mia cara amica Sakura ne rimase affascinata, pur non potendo comprendere le parole di quelle canzoni. Diceva però che le piacevano le melodie e l’espressività di quella voce.

Sano e salvo è un inno alla gratitudine. Ma è anche un inno al coraggio di rialzarsi, nonostante tutto. E ogni anno, come ogni giorno, è un bilancio della vita. A prescindere dalle ammaccature subite, si raccolgono nuove consapevolezze.

E proprio per questo penso sia una preziosa e significativa cornice in questi momenti di fine e di inizio così sentiti. Anche se, a dirla proprio tutta, è lo stesso ciclo che si ripete ogni giorno.

Se ci svegliamo la mattina siamo sani e salvi. Grazie a Dio.

Dal Giappone

In queste ore di passaggio calendaristico dal 2022 al 2023, come di consueto ho potuto fare i miei abituali scambi di messaggi col Giappone. Quattro risate con Sakura che mi ha confermato che anche quest’anno non avrebbe mangiato i piatti osechi. Li detesta e questa sua avversione mi ha sempre fatto sorridere. Infatti, non a caso, ogni anno le chiedo di proposito se degusterà qualche piatto osechi e aspetto divertita la sua invariabile risposta. Non gliene piace nemmeno uno e conoscendola normalmente opta per sapori il più occidentali possibili.

Ho parlato dei piatti osechi, cioè la tipica cucina giapponese di Capodanno, tante volte negli anni. Qualche rimando al passato qui e qui.

Dalla zia di Megumi, a Yokohama, invece ho ricevuto due scatti preziosissimi:

初日の出 Hatsu hinode ovvero la prima alba.

Il primo giorno dell’anno, in giapponese chiamato 元旦 gantan, è caratterizzato da tante cose che si fanno per la prima volta. Per la prima volta nell’anno nuovo. E queste cose hanno un nome. Vi è il primo sogno, la prima visita al santuario. E vi è anche lo 初日の出 hatsu hinode ovvero la prima alba che vedete appunto in foto.

Questo hatsu hinode mi ha fatto piangere. Conosco benissimo quelle gradazioni di arancione che dolcemente si diluiscono in un abbraccio di un blu fiordaliso fumoso per poi stemperarsi nel blu carta da zucchero di quel cielo. Quel cielo che ancora una volta s’illumina per ricominciare un nuovo ciclo.

Questo è il momento dell’anno in cui avverto più tagliente che mai la malinconia per il Giappone.

La seconda fotografia preziosa che mi arriva da Yokohama è questa:

赤富士 Akafuji

赤富士 Akafuji ossia il Fuji rosso. È il monte Fuji nella sua veste vermiglia che appare nelle primissime ore del mattino o dell’ora del tramonto quando i raggi arancioni del sole si riflettono sul manto innevato della montagna.
Il grande pittore ed incisore del periodo Edo – Katsushika Hokusai – onorò Akafuji in molte sue opere. Ed è facile comprenderne il perché.

Usagi

Il Giappone ha ereditato dalla sua maestra storica – la Cina – il sistema zodiacale che chiamano 十二支 jūnishi diviso in dodici parti, ognuna corrispondente ad un animale. Secondo questo sistema, il 2023 è l’anno del coniglio o 兎 usagi.

Il delicatissimo calendario dell’associazione Yamato di Casale Monferrato con i sumi-e del maestro Koike e le calligrafie della maestra Marchini.

L’Associazione Yamato di Casale Monferrato ha realizzato un delicatissimo calendario dedicato proprio al coniglietto del 2023. Un’unione d’intenti artistici che, tra il sumi-e di Shozo Koike e lo shodō di Vera Marchini, ha prodotto questo grazioso momento di bellezza cartacea. Un momento che ho voluto acquistare affinché ci facesse compagnia in questo anno che chissà cosa custodisce.

Camminate torinesi

Ho camminato tanto nel 2022. Tantissimo. Camminate infinite. Conosco Torino come le mie tasche non solo perché è la mia città di nascita ma anche perché ho di lei una conoscenza – potremmo dire – centimetro per centimetro. O poco ci manca, insomma.

Camminate quasi sempre in solitaria che mi portano, passo dopo passo, ora verso il Po e ora lontano da esso. Ma il Po resta un po’ l’ovile a cui far sempre ritorno. Le sue sponde antiche lambite da quelle acque che non sono mai le stesse eppure sembrano accogliermi con familiarità ogni volta.

Ho percorso in lungo e in largo la malconcia Chinatown della città rivedendo, ogni volta, i miei passi già compiuti.

Tra le tante cose che vorrei fare c’è quella di raccontare quel luogo perché va raccontato. O almeno, credo che debba essere raccontato anche da me. Perché io della malconcia Chinatown torinese offro una lettura asiatica che ha iniziato a formarsi in me da quando avevo circa quattordici o quindici anni. Svariate lune fa, insomma.

E l’altro giorno ho scelto di andare al di là dell’Eridano. Sì, perché il fiume Po è linea di demarcazione tra la Torino di sempre e quella signorile e già rarefatta. Quella delle ville collinari protette dai loro giardini e cancelli.
Ho percorso la lunga Corso Casale su cui si affacciano quelle squisite e silenziose viuzze che garbatamente salgono su per la collina: Via Bricca, Via Aporti, Via Segurana, Via Ornati, Via Romani.

Ad ogni angolo di quelle vie mi fermavo per qualche istante a guardarle. Le osservavo immaginando le vite dei loro abitanti. Poi riprendevo la mia camminata lasciando che il mio sguardo si posasse ovunque volesse: a volte su una vetrina di un negozio chiuso e altre volte lo volgevo verso il fiume che, sulla mia destra, mi accompagnava come un premuroso chaperon di altri tempi.

Un tram della linea 15 sferraglia nel quartiere Vanchiglietta, nella mia amata Torino, all’imbrunire.

Pierre Loti e le sue Giapponeserie d’autunno

E proprio in Via Romani, al bizzarro civico zero, ho scoperto L’ibrida Bottega.
Magnifica libreria rifugio, collocata sotto il livello stradale, accessibile attraverso una scala. Mi è sembrato per un brevissimo istante di essere in Giappone, in quei dedali di negozi, botteghe e ristoranti nascosti nei sotterranei o nei piani alti di anonimi palazzi.
Proprio all’ingresso, uno scaffale dedicato all’Asia. La mia amatissima Asia. Ed è lì che mi sono soffermata per una quantità imprecisata di tempo prima di proseguire nel resto del negozio.

Tra gli autori proposti, tante opere del mio Tanizaki. Stretta al cuore condita da una punta di leggero orgoglio.

E poi, nascosto tra volumi spessi e dai nomi altisonanti, c’erano le Giapponeserie d’Autunno di Pierre Loti.

Giapponeserie d’Autunno di Pierre Loti. O barra O edizioni.

Pierre Loti (pseudonimo di Louis Marie Julien Viaud) è stato uno scrittore francese che ha avuto la possibilità di visitare il Giappone in pieno periodo Meiji. Visitò il Paese per ben cinque volte, tra il 1885 e il 1901 e raccolse considerazioni del suo viaggio fatto nell’autunno del 1886.

1886, anno di nascita di Tanizaki. Fra l’altro.

Loti racconta le sue esperienze e impressioni d un Paese che fino a pochi anni prima era blindato e inaccessibile agli stranieri. Racconta quindi da una posizione di stupore, di privilegio ma anche di profonda curiosità.
Ci racconta delle sue visite agli innumerevoli templi di Kyōto, del pellegrinaggio alla Montagna Santa di Nikkō.
Ci racconta la Edo del tempo! La festa dei crisantemi, varie festività religiose e la quotidianità della gente di quel periodo.

Le Giapponeserie d’Autunno di Pierre Loti

La descrizione in quarta di copertina conclude così:
“Giapponeserie d’autunno trasmette da una parte lo stupore di un occidentale di fine XIX secolo davanti a una realtà a tratti impenetrabile, dall’altra la malinconia che nasce dalla consapevolezza che presto quel mondo dalle tradizioni millenarie svanirà sotto le spinte omologanti della modernizzazione.”

A parte qualche pennellata eurocentrica e condiscendente tipica di esploratori – scrittori occidentali del tempo, si tratta di un’opera di valore perché testimonianza diretta di un mondo che era stato completamente stravolto con la fine dello shogunato per poi scomparire, senza quasi lasciar traccia. Se non nei ricordi e nella grande coppa sublimante dell’arte.

Incenso Hibi e fragranti riverberi

Inforco gli occhiali della reminiscenza e vedo immagini di fragranti riverberi che si sovrappongono. Vedo, infatti, gli ultimi bagliori di quella mia breve e personalissima estate in compagnia di Aki e Toretto.

L’ultima.

Ritornano i ricordi di quel caduco momento con la prepotenza distintiva della malinconia che, in certi momenti, ti afferra per la gola e ti costringe a un pianto faticoso.

Era la sera del 24 ottobre quando, all’improvviso, è morto il gatto.

Non era il mio gatto ma è come se lo fosse stato. Il dolore che ho provato – e che provo tuttora – è tagliente e curiosamente infingardo: quando sembra affievolirsi ecco che ritorna con più spietatezza di prima.

La vita prosegue e dunque si va avanti. Si perdono persone, animali e cose. È inevitabile.

Mi torna in mente la fiaba di Pollicino che mi raccontava mia nonna la sera, nella sua casa di allora, sulla collina torinese. Ripenso alle briciole di pane che quel bambino lasciava dietro sé nel bosco che poi venivano mangiate dagli uccelli. E in quelle briciole mi sembra di rivedere tutte le persone, gli animali e le cose che ho perso nella mia vita.

Non posso tornare indietro e – anche se potessi – non le ritroverei più.

I don’t know a soul who’s not been battered – cantava il magnifico Paul Simon nella sua commovente American Tune che sento intimamente mia.

E allora queste persone, questi animali e queste cose continueranno ad esserci nel ricordo, nella mia rimembranza leopardiana in cui il dolore si stempera in una stilla di nostalgia.

Hibi

Settembre, ottobre e novembre sono scivolati via, un giorno fugace dopo l’altro. Una quotidianità scandita dai miei impegni di lavoro e di studio i cui ritmi sembrano quasi aver compresso il tempo.

Non so dove siano finiti quei giorni. In quale angolo sono raggomitolate le ore? Su quale tetto si saranno posati i minuti? Forse c’è un cassetto dove sono riposti ritagli di tempo passato, assieme a spolette di filo colorato e forbicine?

Desideravo scrivere del gatto nel tentativo – forse un po’ goffo – di vederlo e poter fantasticare di giocarci ancora. Ma le parole non mi venivano e ancora non riescono a trovare la strada per emergere dai miei abissi.

Le lacrime trovano la strada senza difficoltà ma le parole no. Forse restano imbrigliate nelle sapide scie di quelle lacrime che scorrono con facilità.

E una sera di novembre è arrivato il regalo di Daniela.

Daniela, cara amica che ha seguito con entusiasmo il mio corso di giapponese, mi ha voluto ringraziare così:

Incenso Hibi

Una preziosissima scatolina di incenso Hibi. Si tratta di un prodotto molto speciale: il frutto dell’unione tra apertura e tradizione.
Non è infatti un incenso come ce lo si aspetterebbe (ripenso ai miei Profumi di Edo).

Sono fiammiferi d’incenso.

Fiammiferi d’incenso

Questi incensi provengono dalla Prefettura di Hyōgo, nel Kansai, nel Giappone occidentale. I fiammiferi furono introdotti in Giappone all’inizio dell’epoca Meiji e fu proprio a Hyōgo, specialmente ad Harima, che la loro produzione trovò la massima espressione qualitativa. Le manifatture di fiammiferi di questa zona divennero infatti i maggiori produttori ed esportatori grazie anche alla vicinanza con la città portuale di Kobe.

Ma dov’è il nesso tra incenso e fiammiferi, oltre al fatto di avere bisogno della combustione per poter vivere?

Sempre nella Prefettura di Hyōgo c’è l’isola di Awaji, conosciuta per essere il luogo di nascita dell’incenso giapponese.

E così alcuni anni fa, dalla sensibilità giapponese che mira sempre a suggellare passato e presente con legami nuovi, è nata l’idea di coniugare queste due industrie tradizionali del territorio.

È nato in questo modo l’incenso Hibi.

Il suo nome significa ogni giorno, giorno dopo giorno. Il suo logo – che ricorda una finestra da cui forse entrano i raggi di un timido sole invernale – in realtà è la parola stessa scritta in kanji: 日日 ひび.

Dieci minuti con Hibi

Daniela mi ha mandato una scatolina di Hibi alla fragranza elegante ed evocativa del legno di sandalo.

Ogni fiammifero arde per circa dieci minuti regalando così una breve momento di fragrante contemplazione.

Hibi

La confezione, in cartoncino delicatamente ruvido, è divisa in due parti: la prima scatolina contenente di fiammiferi d’incenso e la seconda che all’interno custodisce un tappetino ignifugo su cui si dovrà poggiare l’incenso mentre brucia.

Incenso Hibi: fragranti fiammiferi che rappresentano passato e presente.

La scatolina contiene anche le semplici istruzioni in giapponese e inglese per poter accedere a questo momento profumato.

Anche il foglietto delle istruzioni è impregnato della fragranza preziosa del sandalo.

Con delicatezza, è sufficiente sfregare il fiammifero sull’apposita striscia collocata su un lato della scatolina per poter dare avvio alla magia.

Dieci minuti di fragranza

Ho realizzato un breve video per condividere con voi parte dell’emozione provata nell’accedere nel microcosmo profumato di Hibi:

Fili di fumo profumati che si librano in aria…
Per il primo brano suonato allo shamisen ringrazio Itō Keisuke 伊藤ケイスケ;
Per il secondo brano invece ringrazio MFP

Attraverso i nastri di fumo d’incenso anche le parole prigioniere trovano comunque una strada.

Dalla mia biblioteca giapponese

La mia piccola biblioteca giapponese personale sta lentamente crescendo. Ne ho parlato tanto in questi anni perché è frutto di una volontà di ricostruire, di ritrovare, di rimettere in piedi. La mia è una collezione di libri in giapponese che rinasce dalle ceneri della mia prima collezione, andata perduta in circostanze strazianti.

Ed è da quel dolore che è rinata questa biblioteca a cui vorrei dare un nome. Ci sto pensando.

Si sono aggiunti alcuni volumi ultimamente.

Alla già nutrita sezione Cucina si sono uniti questi due deliziosi ricettari:

Le ultime due aggiunte alla sezione Cucina della mia biblioteca giapponese

Sono due libricini deliziosi che ho acquistato da Paola, una ragazza di Guidonia. Le avevano fatto compagnia per un lungo tratto del suo percorso di studio del giapponese ma da essi aveva poi deciso di separarsi. E sono arrivati a me, seguendo la strada del destino.
Il libro in primo piano è un ricettario dedicato agli obentō per bambini, quindi un vero manuale che spiega per filo e per segno come realizzare dei bentō indimenticabili per i più piccoli.
Il secondo volume dietro, invece, è un classico manuale che spiega pazientemente le basi della cucina presentando prevalentemente piatti giapponesi sia washoku sia yōshoku.

Qualche tempo fa, invece, tramite le mie nippo-esplorazioni su Instagram, sono venuta a conoscenza di una preziosa libreria a Lucca che si chiama Etta’s Bookshop. La libreria è specializzata in libri in lingua inglese ma vanta inaspettatamente anche un angolo di libri in giapponese di seconda mano.

La distanza geografica tra Torino e Lucca non ha minimamente minato la mia curiosità. Ho infatti preso subito contatto con proprietaria, Giulia, persona gentile e altamente competente, la quale nel giro di poco tempo mi ha inviato tantissime foto di tutti i titoli giapponesi presenti in negozio.

Non è stato semplice decidere ma alla fine ho scelto quattro titoli.

I quattro libri mi sono arrivati accompagnati dalla graziosissima sporta di tela di Etta’s Bookshop che mi ha regalato Giulia:

Ed ecco i titoli:

I miei libri giapponesi acquistati da Etta’s Bookshop di Lucca.

Questi quattro libri sono opera di tre autrici giapponesi che non conoscevo.
Dall’alto a sinistra in senso orario:
「食べものだけで余命3か月のガンが消えた」(Tabemono dakede yomei sankagetsu no gan ga kieta) di Takato Tomoko. Un libro in cui l’autrice racconta di come, attraverso una forma di alimentazione molto particolare, sia riuscita a guarire dal cancro. È un libro che ha generato molta polemica da quel che leggo, data la natura delicata dell’argomento che tratta.

「暖簾」e 「花のれん」(Noren e Hana-noren) di Yamasaki Toyoko, giornalista d’inchiesta e scrittrice originaria di Ōsaka che spesso si ispirava a fatti realmente accaduti per i suoi libri, raccontando molto della società dell’epoca Shōwa. Ad esempio, per il suo primo romanzo – Noren – del 1957 in cui racconta le vicende della famiglia di un commerciante di alghe, l’autrice si ispirò alla propria famiglia. Nel 1965 pubblicò 「白い巨塔」(Shiroi kyotō) La torre bianca, in cui si narra un’intricata vicenda di avidità, potere e corruzione all’interno di un grande ospedale di Ōsaka. L’opera riscosse enorme successo ma generò anche tanta indignazione nel pubblico.

L’ultimo libro è 「白蓮れんれん」(Byakuren renren) dell’acclamata Hayashi Mariko, scrittrice prolifica che in questo romanzo racconta la storia di Yanagiwara Byakuren, poetessa di epoca Meiji / Taishō, cugina dell’imperatore, che rimane coinvolta in una storia amorosa con un socialista destando scandalo e sdegno nella società del tempo.

Dicembre

Dicembre è ormai qui da poco più di una settimana e anche lui sembra dissolversi alla velocità con cui viaggia il tempo dopo una certa età.
L’aria è fredda. Le decorazioni natalizie e tutta la cornice di contorno ormai sono ovunque. Luci che, osservate dall’oscurità, suscitano un senso transitorio di sorpresa che però presto svanisce.

Primavera d’ottobre

Una personalissima e stramba folata di primavera in questa domenica d’ottobre. Proprio qui, in questa casa a due passi dalle sponde del Po.

La finestra spalancata si affaccia sulla mia via sonnecchiante che è puntualmente avviluppata nella sua consueta coltre domenicale. Gli ombrelloni amaranto della caffetteria di quartiere sono chiusi e sembrano boccioli ancora avvolti nelle brattee, quasi come a voler gelosamente custodire memorie di fugaci convivialità.

Qualche casuale passante percorre questa via addormentata attraversandola a passo lento, addirittura svogliato. È il passo della domenica che incarna l’essenza di un meritato otium spesso, secondo me, striato di malinconia.

I ventidue gradi e qualcosa riportati dal barometro certificano l’illusione di una timida primavera estemporanea. In lontananza, un accenno di un pallido sole si sta dissolvendo nell’azzurro fumoso del cielo mentre, sul corso principale, sferraglia il tram della linea 15 che riporta i torinesi quasi ai piedi della collina dopo la passeggiata di rito in centro.

Tante altre finestre sono aperte, gioiosamente aperte, come ad accogliere questa gentile aria tiepida che forse – chissà – è preludio dei primi freddi. Sia come sia, i davanzali sono ancora abbelliti da fiori colorati che anche in mezzo alla città sanno essere rimando alla natura.

Oh, se solo il sole fosse stato un po’ più sfrontato oggi ci si sarebbe potuti illudere ancor di più di essere ritornati per un attimo in una primavera sbocciata!

Sakura-mochi a ottobre

A suggellare questa strana primavera ottobrale e transeunte, una solitaria merenda frutto di una bizzarra scoperta del tutto inaspettata: i sakura-mochi.

Sakura-mochi
Sakura-mochi

I sakura-mochi comparsi inaspettatamente nel negozio della mia amica Nu (di cui vi ho parlato qui) mi hanno talmente sorpresa da non poter proprio resistere alla tentazione di acquistarli. Sebbene i sakura-mochi, ora, siano completamente fuori tempo massimo come stagione.

I sakura-mochi sono, infatti, dei tradizionali dolci giapponesi gustati in primavera. Sono dolci di riso glutinoso avvolti in una foglia di ciliegio in salamoia.

Nel banco freezer del negozio di Nu, invece, eccoli lì. Ecco i sakura-mochi a ottobre, come a voler riportare un assaggio di primavera in autunno.

Nello specifico, si tratta dei sakura-mochi di 芽吹き屋 Mebuki-ya, un’azienda di prodotti di pasticceria tradizionale giapponese con sede nella città di Hanamaki, nella Prefettura di Iwate.

E ancora di più nello specifico, i sakura-mochi in questione sono preparati nello stile del Kansai.

Piuttosto bislacco, devo ammettere, parlare di sakura-mochi il 16 di ottobre. Ma tant’è.

Due declinazioni dello stesso dolce

Il sakura-mochi è famoso per essere non solo uno dei wagashi primaverili più noti ma anche per la sua doppia versione.

Vi è infatti la versione stile Kansai e quella stile Kantō. Le due aree geografiche si riferiscono rispettivamente alla zona ovest ed est del Giappone con i due poli di rappresentanza: Kyōto e Ōsaka per la parte occidentale e Tōkyō per quella orientale.

Ma i veri punti di riferimento per entrambe le varietà sono due templi specifici: il 道明寺 Dōmyōji di Ōsaka e il 長命寺 Chōmeiji di Tōkyō. I due templi sono i luoghi in cui hanno avuto origine le due versioni del dolce.

Durante i miei anni nel Kanagawa – che è nel Giappone orientale e quindi rientra a pieno titolo nel Kantō – i sakura-mochi per me erano prevalentemente quelli preparati nello stile locale ossia alla maniera del Chōmeiji. Questi sakura-mochi sono composti da una sottile crepe rosa liscia ripiena di pasta di azuki, e il tutto avvolto nella foglia di ciliegio salata.

Nelle scatole di wagashi che ricevevo ogni mese da Ishii-san, tuttavia, trovavo ogni tanto nel periodo primaverile anche i sakura-mochi nello stile del Dōmyōji. Questi, a differenza degli altri, sono composti da una morbida pallina di impasto glutinoso e un po’ colloso, sempre di color rosa, ripiena di marmellata di azuki e poi il tutto avvolto nella consueta foglia di ciliegio in salamoia.

Immaginate, dunque, la frizzante estemporaneità del trovare sakura-mochi in stile Dōmyōji provenienti da Iwate, in una bottega di alimentari asiatici a conduzione vietnamita a Torino, in un giorno d’ottobre.

Impossibile resistere a questo mosaico di suggestioni.

E così, per godere appieno della bizzarria di questa finta primavera accentuata dalla mia immaginazione, una merenda a base di sencha e sakura-mochi.

La mia merenda primaverile di ottobre

Lo sfuggente sapore del sakura

Tutto ciò che ruota attorno al sakura in traduzione spesso fa riferimento al ciliegio. E questo crea l’inganno maggiore per chi non conosce lo sfuggente ma inconfondibile sapore del sakura. Perché qui il frutto non c’entra nulla.

Il gusto dolce della ciliegia, con la sua innocente esuberanza, non ha alcunché a che vedere con il sapore del sakura. Nulla. È una distrazione fuorviante.

Qui si parla del sapore del fiore e della foglia del ciliegio, non del frutto. La protagonista è la 桜葉 sakuraba, la foglia!

La fragranza e il sapore del sakura non sono semplici da descrivere. Tra i pochi aggettivi adeguati sceglierei aromatico, floreale, erboso. Ad accentuarne poi la gradevole nota asprigna contribuisce la complessità palatale data della conservazione in salamoia dei fiori e delle foglie, tecnica che facilita l’utilizzo di queste parti della pianta nelle preparazioni gastronomiche e di pasticceria.

Foglia sì o foglia no? Ma foglia sì!

A rendere ancora più curioso questo primaverile incontro di ottobre con questi wagashi è stato notare la quasi assenza della classica tonalità rosa che normalmente accompagna questi dolci, in entrambe le versioni. Forse perché, dopotutto, sono sakura-mochi di ottobre? Un impasto pressoché bianco candido, quasi come a voler richiamare la fumosità del cielo d’autunno oppure le prime nevi che verranno?

Il contrasto tra l’impasto dolce, morbido, piacevolmente colloso e la sapidità aromatica della foglia di sakura è certamente un’esperienza olfattivo-palatale che sa indiscutibilmente di Giappone. Il Giappone in casa mia, con gli occhi chiusi e con una tazza caldissima sencha in mano.

Morsi autunnali di primavera

Il morbido ripieno di marmellata di azuki di Hokkaidō contrasta armoniosamente con la fragrante sapidità della foglia. Ci sono persone che, nel mangiare i sakura-mochi, eliminano la foglia; io appartengo invece al gruppo di coloro che la considerano parte integrante – anzi, caratterizzante – del dolce stesso.

読書の秋 Dokusho no aki

Di recente ho raccontato qualcosa di un libro che ha iniziato a farmi compagnia da fine agosto e che continua a narrarmi fatti passati, giorno dopo giorno. Trovate qui l’articolo.

Il libro in questione, in corrispondenza della data di oggi, riporta un fatto decisamente poco attinente all’evocazione poetica anche se bizzarra dei sakura-mochi assaporati in autunno.

16 ottobre 1973

La mini commemorazione proposta dal libro rievoca la famigerata crisi energetica del 1973 che comportò un aumento repentino del greggio e dei suoi derivati, con tutte le pesanti conseguenze del caso. In Giappone questa situazione degenerò portando la popolazione al 買いだめ kaidame ossia alla corsa alle scorte alimentari, ma soprattutto alla carta igienica.

Tra le letture d’autunno che mi accompagnano, ecco invece un volume decisamente più in sintonia con il clima semi-primaverile-poetico di oggi:

「漢字の成り立ち図鑑」Kanji no naritachi zukan. Guida illustrata all’evoluzione dei kanji.

Un volumetto piccolo ma ricchissimo di informazioni storiche relative all’evoluzione dei kanji nei secoli. Frutto degli studi della ricercatrice 吉田裕子 Yoshida Yūko che, grazie alla sua capacità preziosa di saper condividere questioni linguistiche usando un linguaggio accessibile a tutti, si impegna anche a sfatare una serie di miti riproposti in tanti libri di testo circa l’origine dei caratteri. Ovviamente lo trovate su Verasia, proprio qui.

Svanito l’incanto

È calata la sera. Il cielo si è ammantato nuovamente del suo drappo di un grigio nero con sprazzi di rosa antico. Tutt’attorno le luci di una città che già si prepara al ciclico trantran di sempre. La via si è rianimata e tutto già odora di un quasi lunedì. L’aria ha quella freschezza che inizia a pizzicare dolcemente la pelle.
Il barometro è già sceso al di sotto dei venti gradi e certifica la fine di questa effimera primavera immaginata, inventata e ricamata anche grazie a questi transitori sakura-mochi ormai scomparsi.

Okayu

Agosto è arrivato avvolto nel suo mantello infuocato e l’estate ormai ha raggiunto il suo sfolgorante zenit.

È questo il periodo in cui – più di qualsiasi altro momento – il tempo sfodera l’illusione più sorprendente: apparenti dilatazioni che avvengono a dispetto di quanto sembri postulare la fisica.

In queste roventi giornate diluite da chimerici strascichi allunganti, riscopro sapori giapponesi radicati nel mio cuore.

Come quello dell’okayu.

Ma prima di iniziare, ho due comunicazioni importanti per tutti i miei lettori.

Corso base di giapponese

A settembre avrà inizio il mio corso base collettivo di giapponese, progettato specificatamente per chi è completamente a digiuno della lingua. Si tratta di un corso gratuito, finanziato da Formatemp.
Per chi fosse interessato ad avere maggiori informazioni e desiderasse iscriversi può consultare questa pagina. È un corso a distanza dunque siete tutti i benvenuti, a prescindere dalle vostre latitudini.

Mi raccomando, quando vi iscrivete non dimenticatevi di dire di aver saputo del corso direttamente da me!

Quindi non vi resta che iscrivervi e preparare matite e quaderni. Vi aspetto!

Sono in arrivo…

Ricette della mamma di Megumi
Lo sfondo che ho scelto è color 藤色 fuji-iro, color glicine, che ho scelto istintivamente e ho poi scoperto essere il preferito di Megumi!

Inizierà prossimamente un nuovo spazio dedicato alle preziose ricette della mamma di Megumi. Vi racconterò qualcosa di questa cara amica, della speciale amicizia che ci lega e soprattutto del dono delle preziose ricette di sua mamma. Ricette che, con il permesso di Megumi naturalmente, vorrei condividere con voi.

Sono ricette che profumano di casa, di quotidianità, di convivialità e ricordi. Sono piccoli tasselli di un vissuto inestimabile.

Ma arriviamo ora all’argomento di oggi…

Cos’è l’Okayu?

Okayu con umeboshi
Il mio Okayu

L’okayu, molto semplicemente, è una zuppa di riso stracotto. Alcuni usano il termine porridge per rendere meglio l’idea della consistenza.
È un piatto dalle origini antichissime e che ancora oggi fa parte del repertorio di ricette curative, ideali per quando non si sta molto bene. Ma l‘okayu è delizioso anche semplicemente quando si ha voglia di sapori non complicati.

Come vedremo, prepararlo non è affatto difficile e gli ingredienti sono pochissimi, tutti reperibili ovunque siate. Inoltre, è una preparazione che permette un grande margine di libertà per poterla personalizzare in base ai propri gusti e a ciò che avete in dispensa.

Per i giapponesi, l’okayu è il comfort food – o il ソウルフード sōru-fūdo (soul food) come lo chiamano loro – per eccellenza. È il cibo confortante nei momenti di malattia, di poco appetito, di malessere fisico o emotivo in generale.

L’okayu inoltre è un ottimo alimento indicato sia agli anziani sia ai bambini molto piccoli grazie alla sua consistenza morbida, il suo sapore delicato e la sua composizione leggera. Compare spesso, infatti, sulle riviste e sulle pubblicazioni rivolte alle mamme proprio perché è una preparazione ideale per aiutare i bimbi nel passaggio dai cibi liquidi od omogeneizzati ai solidi.

Ho voluto assaporarlo nuovamente dopo tanto tempo per placare un po’ i morsi della nostalgia che ogni tanto tornano ad attanagliarmi.

Illustrazione di un Okayu
illustrazione di un Okayu con umeboshi.

Che origini ha questo piatto?

Una scodella di buon Okayu. Fonte.

È un piatto con alle spalle ben seimila anni di storia! In Cina è conosciuto da millenni ma in Giappone l’okayu è stato introdotto circa mille anni fa. Comunque sia, non proprio una novità nemmeno per i giapponesi.
Tuttavia, le origini di questa zuppa non sono in Cina! Infatti, uno dei termini con cui è conosciuta in molte parti dell’Asia e anche tra le varie diaspore asiatiche nel mondo è congee. Questa parola, infatti, deriva dalla lingua Tamil parlata nel Tamil-Nadu, nel sud-est dell’India. Il termine originale è kanji (che non ha nulla a che vedere con i kanji della scrittura). In lingua Urdu questa zuppa di riso si chiama ganji mentre nella lingua Malayalam del Kerala è nota come kanni. (cit. Lisa Lim).

Insomma, una zuppa ormai diffusissima in tante versioni soprattutto nell’Asia orientale che però ha inaspettate origini dravidiche.

Okayu, invece, è il termine in uso esclusivamente in giapponese.

Date le sue origini antichissime e che toccano un territorio molto esteso, si può facilmente immaginare la varietà di versioni e metodi di preparazione. Un tempo in Cina, ad esempio, se il riso scarseggiava allora si impiegavano altri ingredienti come il miglio, l’orzo, la farina di mais, ecc. (fonte). In alcune zone al posto dell’acqua si usa il latte di cocco. La zuppa può essere servita semplice senza niente oppure con l’aggiunta di ingredienti molto saporiti che varieranno a seconda degli usi locali. In alcuni Paesi, ad esempio, si serve questa zuppa arricchendola con dell’arrosto, uova di anatra, frutti di mare, erbe assortite, pollo, ecc.

Noi però oggi vedremo come si prepara tradizionalmente in Giappone, tenendo sempre presente che le versioni sono comunque tante e ognuna rispecchierà preferenze e abitudini di famiglia.

La proporzione giapponese ideale

Questa zuppa non ha proprio una consistenza standard. Dipende da chi e dove viene preparato. La versione cantonese (chiamata jook) è particolarmente liquida: si prepara con un rapporto di 1:10 tra riso e acqua. In Giappone, invece, si preferisce che l’okayu abbia una consistenza più compatta e meno brodosa. Nella cucina giapponese esiste, infatti, una proporzione considerata ideale per l’okayu: 1:5. Quindi una parte di riso per cinque parti d’acqua. Questa proporzione ben bilanciata è frutto di molti esperimenti nei secoli e pare sia stata infine inquadrata nel Periodo Edo. Questa proporzione armoniosa si chiama 全粥 zen-gayu.

La mia ricetta dell’okayu segue naturalmente la proporzione zen-gayu.

Sentitevi, però, liberi di aumentare la dose d’acqua se lo ritenete necessario.

Okayu: ingredienti

La ricetta è per una persona e prevede la cottura in un pentolino di ghisa. Ma potete usare un pentolino qualsiasi purché dotato di coperchio.

Vediamo subito gli ingredienti per un okayu giapponese tradizionale. A questa ricetta ovviamente potrete apportare le modifiche che desiderate.

INGREDIENTI

Ingredienti per un buon okayu giapponese, per 1 persona.

50g di riso giapponese (originario)
250ml d’acqua
sesamo nero q.b.
1 umeboshi q.b.*
parte verde di un cipollotto q.b.
kizami-nori o alga nori tagliuzzata, q.b.

*Le umeboshi sono le tradizionali prugne essiccate e conservata in una salamoia a base di foglie di shiso (che dona quel colore caratteristico al frutto). Sono ingrediente importantissimo della tavola giapponese per le sue numerosissime proprietà benefiche. Dato però il loro elevato contenuto di sale, generalmente non se ne consuma più di una al giorno.
Le trovate comunemente in commercio nei negozi di alimentari macrobiotici oppure nei negozi di prodotti asiatici (sia fisici sia online).

Io ho acquistato delle ottime umeboshi provenienti dalla Prefettura di Wakayama, prodotte dall’azienda Sekimoto, una realtà molto attenta alla qualità delle materie prime.

Le deliziose umeboshi da Wakayama!

Se non vi piacciono o non le avete, potete certamente saltarle. Vi indicherò più sotto alcune aggiunte alternative. Tenete però presente che l’okayu è un piatto curativo, come si diceva, quindi la presenza dell’umeboshi è totalmente coerente con la filosofia della preparazione stessa.

Buonissime e ricche di proprietà benefiche!

Okayu: preparazione

Per prima cosa è essenziale preparare il riso. Sarà necessario risciacquarlo un paio di volte sotto acqua corrente. L’acqua dovrà risultare piuttosto limpida. Dopo aver scolato il riso, metterlo a bagno in acqua (non i 250ml che serviranno per la cottura) e lasciarlo a riposo per circa mezz’ora.

Passaggi preliminari per la preparazione del riso

Come già accennato, ho utilizzato un pentolino di ghisa ma andrà bene anche di altro materiale. Volendo, si possono usare i classici tegami di coccio o addirittura ricorrere alle cuociriso elettriche.

Il mio tegame di ghisa.

Trascorsa la mezz’ora di ammollo, scolare molto bene il riso e trasferirlo nel pentolino in cui avverrà la cottura. Aggiungere i 250ml d’acqua, coprire con un coperchio e mettere a cuocere a fiamma alta.

Cottura dell’okayu

Non appena inizierà il bollore, abbassare la fiamma al minimo. A questo punto si può aprire il coperchio per dare una mescolata veloce. Richiudere subito e proseguire la cottura a fiamma lenta. La cottura procederà per circa mezz’ora.
Consiglio di dare un’occhiata dopo circa un quarto d’ora per verificare che il riso non si stia né asciugando troppo né bruciando. Se necessario, aggiungere ancora un pochino d’acqua molto calda.
Tuttavia, non dovrebbero servire aggiunte d’acqua oltre quella prevista dalla ricetta.

Trascorsa la mezz’ora di cottura, spegnere il fuoco e lasciare riposare a coperchio chiuso per qualche minuto.

Okayu: è ora di servire!

Non resta che scegliere una bella scodella in cui servire il vostro delizioso okayu appena fatto! Riunire i condimenti: l’alga nori, l’umeboshi, il sesamo, il cipollotto verde tritato. Ci sono altre possibilità che vi elencherò a breve.

Quasi pronto!

Dopo aver versato l’okayu nella scodella, guarnite a piacere con i condimenti prescelti.
L’aggiunta dell’umeboshi al centro dell’okayu è una scelta molto tradizionale perché simboleggia la bandiera biancorossa giapponese, la Hi no Maru 日の丸!

In ricordo della Hi no Maru!

Aggiungete il resto e siete pronti per gustarvi una vera coccola delicata!

Il mio delizioso okayu!

Condimenti alternativi

Al posto dei condimenti tradizionali che vi ho consigliato nella ricetta, potete sperimentare con altre possibilità tra cui: salmone affumicato, uova, verdure a scelta. Al posto dell’acqua, se volete più sapore, potete usare del brodo di pollo, brodo vegetale oppure del miso. E se lo gradite, come tocco finale, qualche goccino di salsa di soia o dell’olio di sesamo tostato.

Okayu: una curiosità linguistica

Il kanji in utilizzo per la parola okayu è 粥 che si legge kayu. Ad essa generalmente si antepone l’onorifico o-.

Il kanji è a mio avviso molto gradevole dal punto di vista estetico. Si presenta in modo bilanciato ben strutturato.

Kanji di (o)kayu.

Il kanji presenta al centro il riso mentre gli elementi ai lati rappresentano lo yuge ossia il vapore.

Ciao! Anche Biancorosso Giappone usa i cookie! Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. Maggiori informazioni?

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi