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Le katana di Ishii-san.

Photo by Tetsuo Nakahara / Stars and Stripes, Guam

Una katana di Ishii-san. Photo by Tetsuo Nakahara / Stars and Stripes, Guam

Questa volta niente ricette di katei-ryoori, ma una sorpresa che scorre sulla lama da affilare di un’antica katana.

Chi di voi mi segue dagli inizi avrà familiarità con i nomi di certe persone che hanno occupato un ruolo di rilievo, in un modo o in un altro, durante la mia permanenza in Giappone.

Uno di questi nomi è quello di Ishii-san.

Ishii-san è stato il mio padrone di casa ed è il papà della mia cara Saku-chan.

Era la persona che ogni mese si premurava di portarmi in dono una scatola di wagashi freschi provenienti quasi sempre da un’unica piccola pasticceria tradizionale: Miyoshino 三吉野.

A voi un assaggio del mio consistente archivio di articoli dedicati ai wagashi, sul mio vecchio e storico blog dove tutto iniziò.

Ricorderete i miei tanti racconti, tanti davvero, dove spesso lo sfondo era la tranquilla Sagamihara, la mia casa bianca e blu a poca distanza dalle montagne del Tanzawa e dal lento ed antico scorrere del fiume Sagami.

Nutrivo particolare curiosità verso Ishii-san per la storia della sua famiglia e quel retaggio di cui era certamente molto fiero.

La sua antica casa, che a suo dire era infestata da spiriti vari che lui cercava di tranquillizzare tramite offerte di frutta, in particolare di mandarini mikan みかん, era uno dei miei luoghi preferiti perché lì trovavo tracce tangibili di quel Vecchio Giappone che ormai sopravvive nei ricordi degli anziani, nelle pagine ingiallite di libri, nei versi degli haikai e nelle vecchie case come quella di Ishii-san.

Una casa che conserva la fragranza del tempo e delle vicissitudini di una famiglia di samurai di cui lui è diretto discendente.

Sono tanti i ricordi e tutti vividi. Vividissimi. Ricordo l’angusto solaio di legno scurissimo a cui si accedeva tramite una scala, altrettanto angusta e ripida; era un nascondiglio usato dalle donne e i bambini durante gli scontri, mi diceva Ishii-san.

Ricordo la struggente fragranza del tatami d’estate in una delle stanze dove, in un torrido pomeriggio d’agosto, mi accomodai – sedendomi sopra un morbido zabuton 座布団 – in compagnia di Saku, della sua cara mamma, e di ghiaccioli agli azuki.

Nel 2013 fu dedicato ad Ishii-san un articolo pubblicato su Stripes.com, una storica rivista dedicata ai membri delle forze armate statunitensi e alle loro famiglie, dove venne intervistato a proposito di questo suo nobile retaggio e soprattutto per quel che riguarda una delle testimonianze tangibili della sua discendenza samuraica: la sua nota collezione di preziose katana. Nel 2015, poi, seguì un altro articolo che racconta di un curioso incontro.

Mi è stato chiesto, espressamente dalla famiglia Ishii, di tradurre questi articoli in lingua italiana affinché anche i lettori di Biancorosso Giappone potessero fruirne.

Quella che riporto qui di seguito è la mia traduzione in italiano dell’articolo originale apparso qui nel novembre del 2013. Seguirà, nei prossimi giorni, la traduzione dell’articolo successivo pubblicato nel 2015.

Preciso che ho ricevuto personalmente il permesso dalla redazione di Stripes, nella figura dell’avv. David Gardiner, rappresentante legale della rivista presso il Dipartimento della Difesa statunitense.

Concludo questa mia introduzione condividendo brevemente il ricordo di una katana in particolare che Ishii-san conservava nel suo studio e che mostrava solo a pochissimi. Fui una delle poche persone a cui mostrò quell’antica katana appartenuta ad un lontano antenato e la cui lama era lievemente scheggiata al centro. Con uno sguardo e un tono di voce che mai più scorderò, Ishii-san mi disse che quella lama aveva ucciso.


Letali cimeli ci mostrano l’arte della guerra.

di Tetsuo Nakahara. La traduzione è opera mia.

Masuki Ishii, 61 anni, estrae con cura la lama smussata di una spada katana curva, brandita quattro secoli fa in battaglia, e la passa sopra una pietra bagnata, con precisione mirata. Fa parte di un arsenale che, come la sua casa a Sagamihara City, è stata tramandata nella sua famiglia per generazioni. Mentre affila l’acciaio, un luccichio della sua antica lucentezza emerge e con esso un barlume di spirito dei suoi antenati samurai.

“Queste katana sono state per davvero utilizzate in battaglia; su di esse sono anche visibili macchie di sangue di 400 anni fa. “, dice Ishii. “Si tratta di katana normali, non quelle prodotte da fabbri famosi per esigenze particolari (o persone); queste furono utilizzate da normali samurai sul campo di battaglia per ferire le persone. ”

Ishii-san e una katana.

Ishii-san alle prese con l’affilatura di una katana, nella sua casa di Sagamihara.
Photo by Tetsuo Nakahara / Stars and Stripes, Guam

Ishii dice che la maggior parte della katana, o spade lunghe giapponesi, e altre armi dei samurai nella sua collezione, sono state utilizzate dal suo antenato Kiuemon Ishii e dai suoi soldati dal 1580 fino ai primi del 1600. Kiuemon era un tenente per conto di  Toshimitsu Saito, un comandante al servizio del Gen. Mitsuhide Akechi (1528-1582). Akechi lavorava al servizio del feudatario Nobunaga Oda (1534-1582) durante il tumultuoso periodo Sengoku, o guerra-stato, in cui le guerre civili imperversarono dalla metà del XV secolo fino ai primi del XVII secolo.

Ai quei tempi era consuetudine, dice Ishii, preparare una decina di katana in più per ogni samurai perché le spade si usuravano tantissimo dopo l’uso, anche solo dopo aver affrontato un paio di avversari. Ad eccezione dei samurai di alto rango, gli altri samurai dovevano affilare ed affinare le proprie spade per ogni battaglia.

In tutto, Ishii possiede circa 150 di queste spade e 60 fucili, 30 lance e altri oggetti di quel periodo, come armature e paraventi. Egli conserva il tutto nella sua proprietà samuraica risalente a duecento anni fa. Spesso affila e affina nuovamente le katana per mantenerle nelle giuste condizioni.

“Ci vogliono circa due settimane, otto ore al giorno, per affinare e rimodellare una spada e riportarla in buone condizioni. Si tratta di un lavoro serio “, dice Ishii mentre meticolosamente passa una lama sopra una pietra bagnata. Lavora in silenzio, con intensità, come se ogni colpo affilasse anche la sua mente permettendole di entrare in comunione con lo spirito dei samurai. “Penso ai miei antenati, alla storia di queste katana, a quante persone sono state uccise con esse e a come deve essere stato trovarsi in battaglia. … I miei antenati hanno combattuto tante battaglie e sono sopravvissuti con queste cose “.

Gen. Akechi alla fine tradì e uccise il suo signore, Oda, a Honnoji nel 1582; fu poi sconfitto da un altro generale di Oda, Toyotomi Hideyoshi, nella battaglia di Yamasaki quello stesso anno, al confine di Kyoto e Osaka. I samurai di Akechi si dispersero in tutto il paese per evitare ritorsioni. Non fu facile sfuggire; i contadini giacevano in attesa di poterli uccidere per poi derubarli, vendere le loro armi e armature. Coloro che sopravvissero, fuggirono con le proprie armi e armature verso Yoshioka e Ayase nonché nel Kanagawa dove la famiglia di Ishii si stabilì.

“Provo paura a volte quando penso alle battaglie dei samurai“, dice Ishii. “Ma la paura mi fa provare rispetto verso questi samurai con cui sento un legame diretto mentre affilo le lame di queste katana. Credo che queste katana abbiano più significato della katana belle e lucenti, nuove di zecca (in vendita nei negozi). Voglio che la gente conosca il significato e la storia dietro queste katana, non solo quanto siano ammirevoli esteticamente. ”

Per questa ragione, Ishii e suo figlio Takeshi Ishii dicono di essere disposti a vendere alcuni di questi tesori di famiglia ad acquirenti interessati. I prezzi delle katana partono da circa $ 2.000 e variano a seconda della condizione della spada. Sono anche disposti ad insegnare agli acquirenti come affinare e prendersi cura della spada scelta.

“Voglio che la gente percepisca lo spirito dei samurai attraverso questi elementi”, dice il giovane Ishii. “E’ bello usarle per decorare una casa, ma voglio che si comprenda quale storia si celi dietro questi oggetti. Tutti questi elementi sono ciò che resta dello spirito dei samurai. ”

Per questo motivo, il padre, che nutre anche un forte interesse per gli aerei militari americani e i piloti, dice che è particolarmente interessato a trovare acquirenti militari statunitensi.

“Penso che i samurai e piloti militari abbiano qualcosa in comune”, dice Ishii. “Mi sembra che quei piloti mettano la loro vita in prima linea per portare a termine le loro missioni. Credo che questo sia lo stesso tipo di spirito che i samurai avevano in battaglia. ”


Concludo invitando tutti coloro che fossero interessati a richiedere maggiori informazioni sulle katana in vendita di Ishii-san a contattarmi direttamente oppure a inviare un messaggio al mio amico Takeshi all’indirizzo i. takeshi @ hotmail.com (ho lasciato gli spazi volutamente per evitare che venga rilevato dagli spammatori).

Dite tranquillamente che vi manda Marianna.

Confidenze da dietro un uchiwa

Un uchiwa o ventaglio tradizionale giapponese

Il mio fedele uchiwa che profuma ancora di Kanagawa

Settembre ha un che di militaresco. Richiama tutti, o quasi, all’ordine forzando l’attenzione sugli aspetti del quotidiano ritenuti inevitabili.

E` il mese della sfumata transizione tra gli arroventati toni dell’estate e quelli gradatamente più compassati dell’autunno.

E` la prima tappa verso la mia stagione preferita. E` un po’ come Nihonbashi che era il punto di partenza per chi, da Edo (questo l’antico nome di Tokyo), voleva percorrere il lungo Tokaido e raggiungere Kyoto.

Sono ancora circondata dalle scatole. Alcune grandi, alcune piccole. Ci sono anche sacchetti sempre troppo pieni.

Avverto la fragranza del ricordo sui miei vestiti e le mie cose perché è il profumo del vecchio blog, ovvero la mia vecchia residenza.

Ma qui tutto sa di nuovo. Le luci sembrano anche più brillanti e allegre.

Da dietro una pila di abiti è spuntato il mio うちわ uchiwa. Oh. Pochi istanti senza respiro.

Il mio uchiwa o ventaglio tradizionale.

L`uchiwa che profuma ancora di Giappone.

Questo tradizionale ventaglio era rimasto fino ad oggi avvolto in un foglio trasparente di cellophane.

Perché lo avevo scelto con così tanta cura. Nella vita ho sempre cercato di scegliere le mie cose con amore non distratto, ma quel giorno credo di aver accarezzato questo uchiwa con un lembo del mio essere.

Ricordo perfettamente quando e dove lo acquistai.

Erano gli ultimi e laceranti giorni nel mio Kanagawa. Le cicale avevano appena iniziato il loro struggente canto di vita e di morte; l’aria stava acquisendo l’effluvio dei matsuri e tutti i colori intorno a me sembravano intensificarsi in brillantezza.

I miei occhi, in quei giorni, vestivano un velo sottile di lacrime che solo Saku percepiva. Lo stesso che avvolgeva il mio cuore.

Combattevo contro quel nodo in gola che a tratti mi strangolava con la sua violenza.

E quell’uchiwa aveva qualcosa. Forse io, inconsciamente (o consciamente, chissà) presagivo il ciclone che avrebbe sconvolto la mia esistenza fino al midollo e ho voluto preservare il ricordo di quegli anni giapponesi luccicanti attraverso un semplice involucro in cellophane.

Da dietro di esso, oggi, vi parlo. Perché sì, io vi scrivo, ma in realtà voi che leggete “udite” la mia voce.

Ho liberato l’uchiwa da quella gabbia trasparente che non serve più.

In questi ultimi giorni d’estate e in queste ultime scie di calore io mi faccio aria con la sua aggraziata ala tenendolo delicatamente per il suo pregiato manico di legno laccato.

E da dietro i suoi favoleggianti arabeschi inconfondibilmente nipponici io vi parlo.

Uchiwa o ventaglio tradizionale.

Il ventaglio del ricordo e della confidenza.

Oggi pomeriggio ero su un autobus diretta verso il mio quartiere di nascita e che si chiama Barriera di Milano.

Barriera è un quartiere operaio, uno dei più popolati e popolari di Torino.

Come mio solito, seduta sull’autobus, la mia mente componeva e scriveva parole invisibili che probabilmente mai troveranno la propria forma in inchiostro o in pixel.

E pensavo a come ogni persona sia, in fondo, depositaria di storie che aspettano di essere raccontate.

Ricordi di Giappone.

Ricordi di Yokohama e China Pete`s.

Come i tesori negli scrigni, anche le storie nelle persone possono essere difficili o impossibili da raggiungere.

A volte gli scrigni sono in luoghi remoti e altre volte sono intrappolati negli abissi, forse fusi in un quasi eterno abbraccio con soffocanti alghe o pesanti catenacci di una vecchia nave affondata chissà quanto tempo fa.

E talvolta le storie nelle persone, proprio come quegli scrigni inaccessibili, possono essere intrappolate dal soffocante abbraccio di un orgoglio o frantumati da una quotidianità che si ripete eliminando il desiderio di condivisione.

Il pensiero poi si è arrestato. Dovevo scendere e i miei occhi sono stati attratti dal rigoglioso fogliame dei tanti alberi che caratterizzano quella zona.

Alcune ore dopo ero nuovamente nei pressi della fermata dov’ero scesa. A pochi metri da lì, uno degli ospedali più importanti della mia amorevole città: l`ospedale Giovanni Bosco, inaugurato nel 1961 dall’allora Capo di Stato Giovanni Gronchi. Pensate.

Era già buio. Appese alle mie spalle, due pesanti sporte della spesa. Il peso mi disturbava relativamente perché, come solito, la mia mente era svagata e persa in invisibili componimenti.

Sono svagata sì, ma non totalmente. Con la coda dell’occhio avevo notato, nella penombra, una donna seduta sulla panchina di metallo della fermata dell’autobus.

Gli anni di Giappone mi hanno insegnato, talvolta con le cattive maniere, a non incrociare lo sguardo degli altri ma a guardare sempre un pochino altrove. Anche e soprattutto in conversazione.

E quell’abitudine mi è rimasta, mettendomi a volte in situazioni imbarazzanti perché evitare lo sguardo qui è sempre percepito come un atteggiamento sfuggente di chi nasconde qualcosa.

Quindi ho evitato di incrociare il suo sguardo. Ma la vedevo. Perifericamente, ma la vedevo.

Era silente, ma sembrava scossa da qualcosa.

Sempre nei miei pensieri, io vagavo lasciandomi avvolgere dal profumo della sera, di quei lussureggianti alberi di Barriera e dalla fragranza di carne alla brace che arrivava a me seguendo chissà quale irrintracciabile dedalo di vie.

La donna della penombra, dopo essere rimasta immobile per tutta la durata della mia riflessione in piedi e con le pesanti sporte alle spalle, si è alzata lentamente e mi si è avvicinata e, cercando il mio sguardo, mi ha chiesto notizie dell’autobus ritardatario.

Sorridendo – perché io sorrido davvero sempre – le ho dato gli orari che GTT mi aveva inviato via SMS.

Questa donna, vedendola meglio ora che si era allontanata dalla penombra, aveva un che di spontaneamente signorile. Piccoli gioielli indossati con garbo, morbidi capelli raccolti in un semplice chignon impreziosito da un piccolissimo fermaglio di perle.

E quegli occhi. Azzurri. Un azzurro limpido come il mare di Sardegna.

Ma erano occhi tristi e che avevano chiaramente pianto.

La signora mi parlò del disagio degli autobus ritardatari. Del fastidio provato nell’attendere alla fermata di sera. Delle giornate che si accorciano. Dell’afa che si trascina testardamente.

E poi – come settembre che come un ponte collega l’estate alla stagione fredda – la sua conversazione si appigliò a un gancio che compresi all’istante.

Mi disse che l’afa dell’ospedale era insopportabile, acuita forse dall’evidente sofferenza che per definizione popola quel luogo.

E lì compresi che mi trovavo davanti un essere umano nel bisogno.

Nel bisogno di raccontare una storia.

Di dire qualcosa. Di avere qualcuno disposto ad ascoltare non solo meccanicamente, ma pronto ad accogliere quelle parole, quel racconto.

Dei tesori che, attraverso un inspiegabile intreccio di coincidenze, erano riusciti a liberarsi dalla morsa di possessive alghe che li tenevano imprigionati nell’abisso dell’anima.

Questa donna, per me senza nome e senza storia, aveva scelto Marianna a cui raccontare la sua storia e davanti cui scartare delicatamente il suo dolore.

L’innata raffinatezza dei suoi modi di fare, del suo Italiano, del suo tono di voce mi hanno fatto immaginare la sua estrazione sociale, probabilmente elevata.

In un’anonima sera di settembre, nella periferia torinese, mio luogo di nascita, ero li` con due pesanti borse della spesa e con davanti a me una donna che sanguinava di dolore, con un disperato bisogno di parlare.

La lasciai parlare, ascoltandola con calore umano. La sua sofferenza era reale. Avevo compreso il suo bisogno.

Parole di solitudine, le sue. Di preoccupazione per una figlia giovane e ricoverata, quel giorno, in psichiatria, dopo aver iniziato a rifiutare categoricamente di cibarsi.

Parole amare di un marito inflessibile come un generale e assente, ma solo affezionato al lavoro. Di amiche che prendono e non danno. Dell’affetto che lei, nella sua solitudine, rivolge ad una tartaruga.

Non c’erano superficialità, snobismo, finta frustrazione di chi si lamenta per noia.

In quegli occhi, in quelle parole disperate ho colto i frammenti di un dolore umano.

Lei ogni tanto mi ringraziava perché l`ascoltavo. Mi diceva che il mio volto le aveva fatto capire che ero una persona buona e con cui avrebbe potuto parlare. Poco importava se eravamo due perfette sconosciute. In certi casi la solidarietà umana non ha bisogno di formalità, bon ton o etichette.

Intanto l’autobus era arrivato e vi siamo salite insieme. Più mi parlava e più vedevo dipingersi sul suo dignitoso viso un sorriso lieve.

Iniziò a ringraziarmi profusamente per averle permesso di parlare, di dire, di raccontare, di rinfrancarsi un po’ lo spirito e ritrovare di nuovo il sorriso.

 “Hai anche un bel nome, Marianna. Sei forse un angelo”.

Mi ha detto scendendo dall’autobus.

Ma io non sono un angelo. Sono solo una persona che ha compreso.

Ci siamo strette la mano, abbracciate e poi lei è sparita nel buio, salutandomi ancora una volta e dicendomi della sua speranza di incontrarmi di nuovo un giorno.

Angela, il suo nome.

 

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