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Il dolore di scrivere

Scrivere alle volte è un’esperienza dolorosa che ti costringe a prendere in mano un groviglio che invece vorresti solo riporre in uno dei cassettini della memoria, magari con la speranza di non doverlo più riaprire.

Ma può essere anche liberatorio proprio perché ti obbliga ad affrontare, a testa alta e con coraggio, quel groviglio che pian pianino sbroglierai, filo dopo filo, fino a ritrovarti con una matassina liscia e ordinata.

Con la tenace incostanza che mi caratterizza, sono di nuovo qui su questo mio amato blog a scrivere.

Scrivere per preservare e perseverare

Non conosco altro modo che questo per proteggere il ricordo di persone, luoghi e momenti e tutto quell’apparato di conoscenze che da essi ho tratto.
Scrivo per preservare.
Nel 2006, quando iniziai a scrivere raccontando il Giappone, avevo in mente una sorta di diario personale da sfogliare a posteriori, magari nei momenti di nostalgia. Un diario che avrei voluto rileggere per non dimenticare ma che alla fine è stato letto e riletto da migliaia di persone tranne che da me.
E’ una cosa bizzarra: scrivo per preservare ma, contemporaneamente con l’apparire delle lettere sullo schermo, mi accorgo che il ricordo è lì, vivido e brillante. E allora forse scrivo per preservare…per gli altri.
O per me stessa se mai un giorno i colori della mia memoria dovessero sbiadire mesciandosi con le acque dell’incognito.

E allora scrivo anche per perseverare.

Immediatezza e irrigidimenti

L’immediatezza offerta dai social è direttamente proporzionale al complicarsi delle regole che ormai sembrano irrigidire questa immensa rete; una rete che un tempo traeva la propria linfa dalla pionieristica creatività di tanti che costruivano grandi cose, con in mano pochi e rudimentali strumenti.
Una volta bastava un blog attivo su una piattaforma gratuita qualsiasi per creare e condividere. Anche adesso è ancora possibile ma è tutto così stramaledettamente più complesso e appesantito da strategie, hashtag, calendari editoriali, posizionamenti, statistiche, esperti che ti bombardano di consigli su come, cosa e quando pubblicare.

Sì, anche a costo di sembrare un’inguaribile sentimentale ingabbiata in patetici anacronismi, vi dico che prima era più semplice scrivere; era più facile narrare ad altri e lasciarsi trasportare dai racconti di persone sconosciute ma che si affidavano al potere, dinamico e talvolta crudo, della parola scritta.
Adesso dobbiamo pensare alle valanghe di pubblicità e sponsorizzazioni che sono riuscite a corrodere efficacemente la credibilità di un’opinione; adesso dobbiamo pensare alla privacy e ai cookie, ai plug-in, alle indicizzazioni, agli algoritmi e al SEO.

Io mi sento spesso disorientata e anche molto indietro, quasi come se non riuscissi a prendere fiato.

Niki e l’ingegnere di Gurgaon

Con nostalgia ripenso a quanto mi sia dissetata da quella linfa creativa di blogger della metà degli anni Duemila che scrivevano per pura passione e per il desiderio vero di raccontare. Come i racconti rocamboleschi di Niki e del ristorante italiano che gestiva, assieme al suo amato Dario, in Nepal affrontando situazioni politiche tesissime, mentalità incomprensibili e il cronico scarseggiare di acqua potabile e frutta fresca.

O come gli aneddoti che, con esilarante ed effervescente verve, raccontava un ingegnere italiano finito, contro la sua volontà, in trasferta a Gurgaon in India. E allora, per non soccombere all’avvilimento del doversi trovare a vivere in condizioni impensabili dove persino avere una fornitura elettrica diventava fonte di infiniti grattacapi, ecco che l’antidoto stava nel trovare il lato comico e narrarlo.

Dipinti di parole

Leggevo gli scritti profondi e taglienti di Niki che magistralmente dipingeva un mondo a me del tutto inedito e non poi così attraente, di un Nepal dove il male di vivere era all’ordine del giorno. Leggevo dei loro incredibili slalom tra compromessi e sabotaggi per riuscire a importare prodotti per il ristorante. Ricordo quanto soffrisse Niki nel non poter mangiare verdura fresca e della sua incrollabile fede della medicina tibetana, forse unico sollievo in quella terra di limiti. Leggevo tutto questo mentre, dal mio accogliente e moderno salotto di Sagamihara, sapevo di avere a disposizione acqua potabile e i migliori generi alimentari che potessi desiderare.

Con risate soffocanti, mi godevo i racconti umoristici dell’ingegnere di Gurgaon che invece dipingeva un’India lurida, corrotta fino al midollo, imbrigliata in un maleodorante vortice di superstizioni ed ignoranza. Un mondo caotico dove l’unica regola del gioco era sopravvivere in un oceano di esseri umani addossati l’un all’altro. Ogni volta, pur ridendo grazie al suo lodevole espediente anti-avvilimento, emergevano immagini che sembravano così lontane da quelle proposte da e all’immaginario collettivo di un’India spirituale, selvaggia e selvatica, mitica, impregnata dell’energia vitale del mondo, magica e profonda.
Forse erano vere entrambe. Chissà.

Leggevo i suoi scritti di orrori, di grettezze, di carenze mentre mi trovavo in uno dei Paesi più puliti e più imbevuti di un garbo civile dai livelli a volte fiabeschi.

Avrei capito col tempo che gli apparati esperienziali non si escludono a vicenda ma possono essere lati di una stessa medaglia.

Alessandra

Mentre nasceva e cresceva Biancorosso Giappone, io mi nutrivo instancabilmente di questa ricca linfa creativa, viva e scevra di complesse strategie e pianificazioni.
Mi dissetavo con i racconti confortanti e imbevuti di bella italianità che provenivano dalla cucina di Alessandra. Condivideva, con delicatezza e umiltà, le sue ricette riuscendo incredibilmente ad arrivare a me grazie ai profumi della sua tavola.
Le sue parole sapevano medicare le piccole ferite da nostalgia di casa che mi tormentavano a volte quando, in quella mia grande casa di Sagamihara, calava l’oscurità e il silenzio era rotto solo dai rami di gingko che sfregavano i vetri delle mie finestre.

Alessandra scriveva di ricette e di quotidianità e lo faceva con spontaneità, senza tutto quel carrozzone fatto di recensioni fasulle, di Masterchef, di influencer, di set fotografici da rivista patinata.

In quel curioso avvicendarsi di eventi inaspettati che è la vita, i nostri ruoli si sarebbero ribaltati: io sarei ritornata nella mia casa anagrafica che è l’Italia mentre lei si sarebbe trasferita, assieme alla famiglia, dall’altra parte del globo.

Reminiscenze

Riflettevo da tempo sull’evoluzione del mondo dei blog perché in qualche modo devo spiegare questo senso di smarrimento che mi attanaglia quando mi rimetto qui sul blog. Non dovrebbe essere così perché questa è la mia casa su Internet, perché Biancorosso Giappone sono io. Ma è come se non riuscissi a stare dietro alle regole del gioco o addirittura non le capissi appieno.
Però poi le paure svaniscono quando inizio a raccontare. E allora ecco che ignoro gli avvertimenti che in questo momento WordPress mi presenta, invitandomi a modificare questo e quello in funzione del SEO, delle indicizzazioni, dei calcoli e degli algoritmi.

Ma queste reminiscenze mi sono servite anche per prepararmi a raccontarvi un’altra storia. Una storia che ho bisogno di raccontare perché è un tributo, benché doloroso.

Pensieri fluviali: Microcosmi cangianti

pensieri fluviali

Sembra la copertina di un libro che vorrei scrivere.

Pensieri fluviali: questo è, da oggi, il titolo della mia raccolta di riflessioni che pubblicherò periodicamente qui su Biancorosso Giappone.

Sono pensieri che tento di esprimere attraverso la parola scritta poiché sono una terribile oratrice. E sono fluviali semplicemente perché vivo vicino al grande fiume Po le cui acque spesso fanno da sfondo alle mie riflessioni solitarie.

Microcosmi cangianti

riflessioni

Riflessioni sul cambiamento

Ricordate l’incanto delle bolle di sapone? Ricordate quel loro modo pesantemente leggero di volar su? Ricordate i raggi del sole che , incontrando la superficie di queste fragili e fugaci sfere, davano origine a quegli evanescenti giochi cromatici?

Bolle trasparenti ed effimere le cui superfici divenivano inafferrabili tavolozze dove solo le auree setole dei raggi solari potevano tracciare mirabili schizzi.

Ancora adesso, quando osservo le bolle di sapone librarsi su verso il cielo senza sapere che – pur avendo da poco lasciato il soffio del bambino – presto svaniranno in un inesorabile puff, nei miei occhi esse diventano tanti microcosmi cangianti.

Prima e dopo

Le mie riflessioni, soprattutto quelle solitarie che compio quando passeggio per le vie del mio vecchio quartiere oppure quando oziosamente mi appoggio al parapetto in pietra che costeggia le rive del Po, passano inevitabilmente attraverso il setaccio del prima e del dopo.

Tutto per me acquisisce una collocazione sensata in base a questi termini.

Appoggiata a quel parapetto di pietra calda e che leggermente mi punge la pelle osservo lo scorrere del vecchio fiume, respirandone il profumo muschiato che istantaneamente mi trascina con dolce veemenza alle mie lunghe estati torinesi, povere ma ricche, degli anni Ottanta.

1999: la lira cristallizzata nella mia mente

Era l’estate del 1999 quando, nel pieno fermento dei miei diciannove anni, me ne andai da Torino, dal’Italia. Decisioni poco soppesate, la voglia di scappare, di esplorare il mondo, di respirare un’aria che non sapesse di questa città.

Ero una ragazzina timida, molto affezionata alla mia casa e soprattutto alla mia mamma e alle mie sorelline. Ma quasi improvvisamente me ne andai: un aereo, il primo della mia vita, mi portò prima nel Colorado così caro a John Denver, e poi a Dallas nel Texas.

Sì, lei: la Dallas di J.R., dei ricchi petrolieri con il cappello da cowboy, la camicia inamidata e il sigaro.

Ma anche la Dallas delle estati asfissianti, degli sconfinati campi di mais, dei malconci convenience stores seminati in mezzo al nulla dove forse Stephen King e i suoi personaggi dell’incubo potrebbero aggirarsi. La terra della Bible Belt, dello everything is bigger in Texas, degli immensi quanto insapori hamburger di Whataburger, dei messicani sprezzantemente chiamati wetbacks e dove ai bianchi essi riservano il termine gringos.

Ritornerò nei miei pensieri fluviali ai miei anni statunitensi, ma non ora.

Me ne andai quando ancora qui c’era la lira, la moneta del prima, la moneta in cui ancora oggi eseguo mentalmente i calcoli relativi alle spese.

2005: un assaggio del dopo

Con una toccata e fuga sarei ritornata in Italia, e precisamente a Torino che è la mia città di nascita, solo nel 2005. E avrei trovato qualche brandello di ciò che ricordavo, avviluppato in una mescolanza di microcosmi cangianti a me sconosciuti.

Era tutto cambiato. I pochi volti ancora a me familiari erano visibilmente invecchiati, alcuni dolorosamente abbruttiti da difficoltà del vivere quotidiano italico che io ancora non conoscevo.

Ho visto strade rattoppate. Ho visto quartieri nuovi di zecca dove la memoria non trovava appigli. Ho sentito tante lingue che percepivo come un unico magma incandescente ed aggrovigliato.

Oggettivamente erano passati pochi anni, ma lo stravolgimento che mi attendeva mi travolse in tutta la sua imponderabilità.

L’italiano come l’ambra

Persino la lingua che parlavo da quando ero piccola, l’italiano, sembrava non essere più lo stesso. In fondo, nei miei anni statunitensi (soprattutto) e poi quelli giapponesi avrei mantenuto un italiano che in fondo conservava cristallizzato al suo interno un microcosmo cangiante svanito per sempre. Proprio come fa l’ambra.

Una bolla di sapone scoppiata in quella confusa estate, al decollo di quell’aeroplano che mi avrebbe condotta nella terra a stelle e strisce dove avrei trovato gioia e terrore, respiro e soffocamento, convivialità e solitudine.

Il mio Giappone dell’anima

Poi il Giappone e il mio totale innamoramento di quella terra, la sua lingua, il suo profumo, il verde puro del suo sencha, le nuvole d’incenso, i sentieri solitari che portavano su a Zama Jinja, la metropolitana col suo odore e quel suo nonsoché di potenzialmente distopico, il suo infinito labirinto di strade, l’aria salmastra di Yokosuka, il sapore quasi californiano di Shonan Beach, le capesante alla griglia su su ad Enoshima.

Lacrime scorrono giù copiosamente.

Al mio ritorno definitivo, nel 2010, dovetti farmene una ragione: parlavo un italiano incerto e dal sapore retrospettivo.

Avevo superato la barriera linguistica per sempre, azzerando i tempi di traduzione mentali da lingua A a lingua B, giungendo però paradossalmente all’autonomia comunicativa e al rattrappimento inverso a casa mia.

L’esule in patria, mi chiamò qualcuno.

Qualcuno un giorno mi affibbiò, forse scherzosamente o forse no, questo soprannome. Il mio continuo senso di smarrimento in questa Italia fatta di microcosmi cangianti che non sento miei perdura e lo avverto anche ora mentre scrivo.

L’incapacità comunicativa, prevalentemente se in forma orale, mi rende forse poco chiacchierina e mi fa apparire più riflessiva di quanto non lo sia in realtà.

Sono anche quel che è stato

Benché nessuno forse si accorga del mio smarrimento, della mia permanente condizione dell’esule in patria, del mio raccapriccio davanti all’abbruttimento di luoghi che – chissà – magari sono sempre e solo stati belli nel mio ricordo, non posso lasciare che il cambiamento mi destabilizzi e mi butti giù a terra con prepotenza.

Cercavo il caffè Ciao Türin ma ora vi è solo una grigia saracinesca abbassata per sempre. Cercavo la vecchia giostra nel giardinetto intitolato a Peppino Impastato ma ora al suo posto c’è uno spazio vuoto di cemento.

Tante cose sono sparite, scoppiando in quel puff inesorabile che è parte integrante del cambiamento.

Per me restano il prima e il dopo, i conti della spesa in lire, sparute vestigia di quei microcosmi cangianti che ricordo, nuove ma poche persone preziose che hanno incrociato il mio cammino da quando sono tornata. Resta il mio essermi rimessa in piedi, grazie a Dio.

In fondo sono anche quel che è stato, ma al contempo in trepidante attesa di ciò che sarà.

teiera e tè

Un tè in solitaria con la mia teiera di Yixing.

Marianna

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