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Le parole di Sho – seconda parte

In queste ultimi giorni di vera estate e in queste ultime ore prima dell’inizio ufficiale delle scuole, mi trovo qui ancora a boccheggiare in un caldo invadente. Il ventilatore continua nella sua rapida missione ristoratrice e mi domando fra quanto tutto questo diverrà un ricordo.

La mia cara amica è partita una settimana fa e in questi giorni il dolore è stato più forte del previsto. Passerà tanto tempo prima di poterla rivedere. Quanto, esattamente, ancora non lo so. Forse alcuni mesi o forse un anno.

Nel frattempo, però, devo continuare ad onore la mia promessa. E chissà che non sia una sorta di inizio vero e proprio per la mia scrittura. In fondo, scrivo da molti anni attraverso Biancorosso Giappone ma non ho mai dato spazio ai miei racconti.

Questa è la seconda e penultima parte del racconto di Sho che si concluderà con la terza.

Trovate la prima parte proprio qui.

Buona lettura.

Le parole di Sho – seconda parte

Nell’oscurità una figura, muovendosi rapidamente sullo sfondo luminoso della TV muta, si avvicinò a Sho e inginocchiandosi verso di lui cercò di rianimarlo. Non riuscendo a sortire alcun effetto, la figura rapidamente compose il numero dell’ambulanza e attese, assieme a uno Sho che sembrava morto, l’arrivo dei soccorsi.

Insieme attesero in quella strana oscurità rotta solo dalla luce del televisore che continuava a trasmettere immagini mute di campagne italiane. Rimasero così, incastrati in quel momento tra la vita e forse l’assaggio di una morte, con il suo soccorritore lucido ma al contempo così frastornato da non pensare nemmeno di accendere la luce della stanza. 

I paramedici non tardarono a raggiungere l`appartamento di Minato Mirai dove viveva la famiglia Nakamura. 

Quando giunsero all’appartamento di Sho, al dodicesimo piano di un palazzo dalla facciata color caffè, ad accoglierli trovarono Hiroshi. 

Era stato lui, rientrando velocemente a casa dove aveva dimenticato il portafoglio, a trovare il suocero a terra.

Aveva tentato di rianimarlo ma Sho sembrava morto. Senza farsi prendere dal panico, e soprattutto senza avvisare né Akane né Yuko, telefonò subito ai soccorsi. Sapeva che entrambe si sarebbero spaventate moltissimo e preferì risparmiare loro questa angoscia. Almeno, per ora. 

Sho fu portato d’urgenza al Policlinico Yokohama Chuo. Hiroshi seguì il suocero in ospedale dove, seduto in una saletta dalle pareti verde pistacchio, rimase in attesa di un qualche responso da parte dei medici. 

C’era solo una finestra grande che si affacciava sul cortile interno del policlinico. Provò ad aprirla ma sembrava bloccata. Si accontentò di guardare fuori, per quanto possibile. Era buio ormai e si vedevano solo i lampioni del cortile che gettavano una luce fioca sul giardinetto circostante. 

Reminiscenze nell’oscurità

Improvvisamente gli sembrò di percepire in lontananza le inconfondibili note di apertura della Sonata al chiaro di luna di Beethoven. Ma com’era possibile? Da dove potevano arrivare, in un ospedale? e a quell’ora? Girò delicatamente la testa e con lo sguardo tentò di capire da dove arrivasse quella melodia a lui cara. 

Si affacciò sul corridoio e lo percorse per alcuni passi verso l’ala ovest: gli sembrava che il suono provenisse da lì.  

Dita misteriose continuavano a far lacrimare un pianoforte invisibile. 

Si fermò nel corridoio che sembrava farsi sempre più buio. E quella musica che invece cresceva in intensità. E laggiù gli parve quasi di vedere suo fratello, Shigeru, morto all’indomani del suo quindicesimo compleanno dopo essere stato investito mentre andava a lezione di pianoforte. 

Quanto amava questa Sonata! Diceva che era un inno ad un amore e che sperava, un giorno, di poter dedicare alla sua amata. 

Shigeru! – bisbigliò incredulo Hiroshi, mettendosi poi una mano davanti alla bocca per soffocare quella sua reazione assurda ad una situazione impossibile. 

Hiroshi rimase imbambolato lì, in mezzo al corridoio deserto dell’ospedale, mentre cercava di liberarsi dai tentacoli di un’allucinazione. 

La musica, nel frattempo, era cessata all’improvviso. 

Si strofinò gli occhi e inspirò profondamente. Forse era solo molto stanco. 

Tornò davanti alla finestra a osservare quel giardino. Non c’era niente lì. Solo quel lampione, anonime aiuole che forse portavano un po’ di allegria in quel luogo di malattia e sofferenza. 

Consapevolezze

A Hiroshi si riempirono improvvisamente gli occhi di lacrime ed è per questo che continuava imperterrito a tenere lo sguardo rivolto verso quel giardino solitario e inghiottito nell’oscurità; non voleva rivelare la sua inquietudine ad alcuno, certamente non in questo modo.  Non sapeva se stesse piangendo per Hiroshi oppure per quel bizzarro e fugace incontro col suo amato fratello.
Sapeva bene di non godere della stima di Sho. Era consapevole di essere ai suoi occhi un fannullone, per giunta mantenuto. Questo pensiero lo intristiva perché lui, invece, per il suocero provava molta ammirazione. Gli capitava spesso di ascoltarlo mentre si allenava nelle sue presentazioni. Lo guardava e ascoltava con rispetto e in cuor suo il desiderio di poter essere un pochino come lui. 

E Sho, quando si accorgeva del genero, smetteva di parlare e, con fare sempre seccato, gli faceva cenno con la mano di andarsene in un’altra stanza. 

Il professor Hasegawa

Si stava facendo davvero tardi. Non poteva più aspettare. Doveva avvisare Akane che sicuramente si sarebbe allarmata non vedendolo arrivare. 

Akane rispose al telefono ma non sentiva bene che cosa le stesse dicendo il marito. Da Tsubame c’era la consueta gara di karaoke a cui lei partecipava sempre con un trasporto che a volte sembrava eccessivo. 

Esci un attimo dal locale! Con questo baccano non si sente nulla! – disse Hiroshi in tono seccato, non potendo alzare la voce.

Sono allo Yokohama Chuo!! Tuo padre ha avuto un infarto! – le spiegò con voce ansiosa ma affrettandosi subito a precisare che i soccorsi erano arrivati in tempo.

Akane sembrava intontita dalla notizia e balbettava cose incomprensibili. Si capì soltanto che lo avrebbe raggiunto al più presto.

Venti minuti dopo, infatti, Akane e la madre erano al nono piano del policlinico  nella saletta dalle pareti color pistacchio in cui Hiroshi aspettava da solo, seduto su una panca rosa salmone. 

Un medico, il professor Hasegawa, si affacciò nella saletta e comunicò alla famiglia che Sho era fuori pericolo. Diagnosi: un’ischemia cardiaca preceduta da una paralisi afasica. 

Il professor Hasegawa era un uomo sulla sessantina, alto, con capelli neri ordinatamente pettinati all’indietro. Indossava degli occhiali dalla montatura tonda e spessa, color avorio. Erano occhiali curiosamente vistosi ed era quasi come se fossero loro a monopolizzare l’attenzione di chi ascoltava. Non erano le parole del professore ma quegli occhiali ad essere gli appariscenti protagonisti di quella strana e tesa riunione in una sala d’attesa di un ospedale. 

Chissà chi glieli aveva consigliati? O forse li aveva scelti lui stesso, tradendo così un qualche eccesso di vanità. 

Akane e Yuko erano ancora talmente sbigottite da non riuscire a fare altro che annuire meccanicamente alle parole del professore.

Il ritorno a casa

Hiroshi era riuscito a mantenere la calma ma faticava a seguire le parole del dottore. 

Che tipo strambo questo dottore – pensò Hiroshi, non riuscendo a distogliere lo sguardo da quella montatura color avorio. Gli sembrava, in certi momenti, come se questa montatura fosse sospesa a mezz’aria, senza il volto del professore. Degli occhiali vaganti, forse di un fantasma. 

Lo spavento e la stanchezza lo stavano confondendo con i loro effetti quasi psicotropi. Avrebbe presto avuto bisogno di tornarsene a casa a dormire. Ne aveva avuto abbastanza di fantasmi, musiche e allucinazioni. 

Dal groviglio di parole difficili del professore, si capì però chiaramente che Sho sarebbe dovuto rimanere in ospedale per qualche giorno per accertamenti.

Riuscirono a vederlo di sfuggita da dietro un vetro. Sho era lì, sommerso nelle acque di un sonno medicinale, in un pigiama celeste, sotto un piumino bianco. Immobile come una statua, Sho aveva il volto toccato lievemente dal raggio di luce verde di un monitor. 

Lo osservarono nel più assoluto silenzio. Akane era come ipnotizzata, con lo sguardo fisso. Yuko aveva abbozzato un lieve sorriso di compassione e forse di circostanza. Hiroshi, invece, cercava miseramente di domare quelle dannate lacrime che ormai avevano deciso di sgorgare ad ogni piè sospinto. 

Akane, Yuko e Hiroshi tornarono a casa senza dire una parola. Presero un taxi che scivolò per le strade della Yokohama notturna, sempre punteggiata di luci. E ognuna di esse stava a testimonianza della vita che ricomincia sempre. Ogni giorno. Di lì a poco sarebbe spuntata l’alba e con essa un nuovo inizio. 

Arrivati a Minato Mirai nell’aria si percepiva un profumo intenso di spiedini di pollo alla brace. Quell’appetitoso aroma proveniva sicuramente dalla locanda di Anchan, lì all’angolo tra la lavanderia e il condominio Tajima. 

Hiroshi, senza dire una parola, fece solo cenno che sarebbe andato a casa. Yuko e Akane si guardarono per alcuni istanti, come se si consultassero con le occhiate. Probabilmente avrebbero gradito la gustosa distrazione di uno spuntino insolito, a un’ora dall’aurora. Ma alla fine in silenzio si compresero: era meglio andare a casa.

Lacrime e tisane

L’appartamento, immerso ancora nella quiete notturna e avvolto negli ultimi strascichi di oscurità, accolse i tre con la fragranza di casa e il conforto della familiarità. 

C’era ancora un po’ di disordine dovuto all’intervento dei paramedici ma non era adesso il momento di occuparsene. 

Hiroshi scomparve immediatamente in camera, crollando sul suo futon. Nell’arco di pochi minuti già dormiva profondamente. 

Akane e Yuko si ritrovarono in cucina davanti a una tazza fumante di quella tisana che beve sempre Sho prima di dormire: la tisana Gussuri, alla valeriana e passiflora. L’aveva assaggiata per la prima volta chissà dove e da allora la voleva sempre. Diceva che lo faceva addormentare subito e bene. Gussuri, appunto. 

Yuko, però, appoggiò improvvisamente il capo sul tavolo, proprio vicino alla tazza  e si abbandonò ad un pianto sconsolato. Akane la guardò sorpresa poiché accadeva raramente che la madre si lasciasse andare ad esternazioni emotive così forti.

Dai, mamma, non fare così. Vedrai che papà si riprenderà sicuramente! – le disse Akane, toccandole con affetto la spalla. 

Yuko, singhiozzando, si tirò su e, asciugandosi gli occhi con le dita, prese in mano la tazza e la portò subito alla bocca. Era come se sperasse di trovare un conforto immediato in quella bevanda calda ed erbacea. 

Madre e figlia finirono di bere la tisana, nella calma che era rotta solo dai loro respiri, da Yuko che tirava su dal naso e dai rami di una quercia che sfioravano delicatamente la finestra della cucina. 

Senza dire una parola, andarono a dormire mentre fuori nasceva un nuovo giorno. 

L’incontro col signor Ueda

Quella mattina Sho venne trasferito in una stanza dove c’era già un paziente. Sarebbe rimasto lì per tutto il periodo degli accertamenti. 

Sho era già sveglio. Si guardava intorno frastornato cercando di tirare su la testa per poi, esausto, lasciarsi andare sul cuscino. 

Una volta in stanza osservò il cielo dalla finestra. 

La giornata era serena. 

Dopo alcuni minuti si accorse della presenza di un uomo sdraiato su un letto, sul lato opposto. Era anziano: avrà avuto un’ottantina d’anni. Si vedeva che non era molto alto. Capelli grigi radi, volto emaciato e punteggiato da una spinosa barba da fare.  Anche lui abbigliato in quello stesso pigiama celeste, come una specie di divisa d’ordinanza dell’infermità. 

Sho si accorse che gli occhi di quell’uomo lo stavano scrutando con un’attenzione insistente. 

Capisco la curiosità ma mi chiedo cos’abbia da fissare questo qua! – pensò irritato Sho. 

Cercando di ignorare lo sguardo importuno dell’uomo, Sho chiuse gli occhi sospirando con infastidita rassegnazione. Chissà quanto sarebbe dovuto rimanere qui, in questo posto, in questo letto scomodo e in compagnia di questo tizio. 

Ancora non poteva – e non voleva – parlare. 

L’ischemia e la volontà di non parlare più si erano incontrate nello stesso punto, sovrapponendosi l’un sull’altra: la volontà che si realizza nella malattia e la malattia che, a sua volta, si manifesta nel pensiero. 

I due uomini rimasero così a lungo, sospesi in quel silenzio singolare generato dal malessere, dal desiderio di non comunicare e forse anche dalla diffidenza. 

Sho con gli occhi chiusi e l’anziano con gli occhi aperti fissi sul suo nuovo compagno di stanza. 

Comunque io sono Ueda. Ueda Akito. Piacere di conoscerla … anche se una stanza d’ospedale non è il posto più allegro dove poter stringere nuove amicizie. – esordì l’uomo tutto ad un tratto, rompendo improvvisamente quella strana atmosfera. 

Sho lo guardò per qualche istante e poi fece un cenno col capo e richiuse nuovamente gli occhi. 

So bene che non parla. Ho sentito il professor Hasegawa informare l’infermiera del reparto. Mi pare di aver capito che lei si chiami Sho. È così? – domandò Ueda con evidente curiosità. 

Sho annuì. Sul volto un’espressione seria e al contempo stanca. 

Prima mi fissa per ore e poi inizia a farmi l’interrogatorio. Non mi interessa nulla di questo Ueda e spero che mi lasci in pace al più presto. – pensò Sho, già ampiamente irritato dalla presenza di quest’uomo invadente. 

Con quale carattere si scrive il suo nome? È forse quello di comandante? – domandò Ueda, iniziando – com’è consuetudine dei giapponesi –  a tracciare in aria col dito indice della mano sinistra i tratti del sinogramma da lui ipotizzato. 

Dieci tratti esatti! Dieci. Un bel numero chiaro e schietto! Forse come lei? Certo che essere chiari e schietti senza poter parlare diventa abbastanza complicato! – osservò tagliente Ueda in questa sua analisi estemporanea non richiesta. 

Sho decise di ignorarlo. Anche volendo sarebbe stato difficile comunicare e di certo non avrebbe sprecato energie per tentare di dialogare con un vecchio impiccione. Chissà, forse uno dei due sarebbe stato presto dimesso e questo incontro sarebbe finito rapidamente nel dimenticatoio della vita. 

Sapori cinesi e domande

Era ora di pranzo e anche in ospedale il momento del pasto è atteso con una certa trepidazione. 

Al policlinico Yokohama Chuo si mangia piuttosto bene per essere un ospedale – ricorda di aver sentito dire Sho da un suo dipendente che era stato ricoverato qui per un’appendicite. 

Il menù di oggi e che, combinazione, sarebbe stato lo stesso per entrambi i pazienti:

Happosai: verdure otto tesori. Piatto di chiara origine cinese composto da carote, cavolo verza, germogli di bambù, funghi, scalogno, calamari, gamberi e un po’ di carne. Il tutto condito con una salsa molto saporita. 

Sho amava la cucina d’ispirazione cinese e l’idea di riassaggiarla, anche se in ospedale, lo aveva messo di buon umore. 

Poi le alghe hijiki bollite in salsa di soia e zucchero. Una leggera insalata di bianchetti e aceto, una scodella di zuppa di miso, riso al vapore e frutta di stagione. 

Non male! – pensò Sho assaggiando le varie pietanze. Certo, non era la cucina di Yuko ma non ci si poteva lamentare.

A proposito! Yuko! Akane! Chissà dov’erano e che cosa sapevano di quanto era successo. 

Una visita…inaspettata?

Non aveva nemmeno il suo telefono con sé. Quell’inetto di Hiroshi sicuramente poltriva come suo solito e non sarebbe stato di aiuto in niente. 

Signor Nakamura, c’è una visita per lei. Mi raccomando non si affatichi troppo. Il professor Hasegawa passerà più tardi per darle alcuni aggiornamenti. – disse con una vocina squillante un’infermiera dai capelli lucidissimi neri e raccolti in una treccia rivolgendosi a Sho, mentre versava ad entrambi del tè verde caldo.

Comunque, so perché ha fatto questa specie di voto del silenzio. Anch’io ho avuto un’esperienza simile. Le racconterò magari più tardi. Adesso provo a riposare un pochino. – annunciò Ueda pulendosi la bocca col tovagliolo e appoggiando il vassoio del pranzo sul comodino vicino al letto. 

Dal silenzio alla logorrea! – osservò sarcasticamente Sho fra sé e sé. 

Sulla porta apparve Hiroshi. 

Sho lo guardò stupefatto. 

Lo so che non si aspettava di vedermi. Come sta? Okāsan** e Akane stanno ancora riposando. Sono rimaste qui in ospedale insieme a me fino verso le 4 di stamattina. Erano stremate. – spiegò Hiroshi, prendendo posto su una sedia vicino al letto. 

Sho fece un cenno di comprensione col capo ma senza distogliere lo sguardo sbalordito dal genero. 

In quel momento Hiroshi tirò fuori dal suo zaino il telefono del suocero e glielo porse. Era rimasto a casa, nella fretta e confusione della sera prima. 

Sho venne presto a scoprire com’erano andate le cose e che era stato proprio Hiroshi ad intervenire tempestivamente, salvandogli di fatto la vita. 

Messaggi

Utilizzò il programma di messaggistica istantanea per comunicare col genero che era seduto lì affianco a lui. 

Grazie. Non so che dire. Ricordo solo che stavo guardando la TV quando tutto ad un tratto ho avvertito un dolore lancinante al petto. – scrisse nel suo messaggio a Hiroshi. 

Se tu non fossi rientrato per il portafoglio forse a quest’ora stareste pianificando il mio funerale. – aggiunse con una punta di drammaticità. 

Otōsan*, l’importante è che lei ora sia qui, fuori pericolo. Fra qualche giorno la rimanderanno a casa e piano piano potrà cominciare il suo percorso di guarigione. Okāsan** e Akane si sono molto spaventate. Verranno più tardi a farle visita. – rispose Hiroshi mentre si apprestava a sorseggiare un po’ del tè verde bollente che gli aveva portato l’infermiera con la treccia e dalla vocina squillante.  

Dlin dlon

Arrivò un altro messaggio di Sho. 

Responsabilità

Io non sono molto gentile nei tuoi confronti eppure mi hai aiutato. Perché? – domandò Sho arrivando subito al punto che creava imbarazzo e tensione tra i due.

Otōsan, anche se lei non mi vede di buon occhio, io l’ammiro e la tengo in grande considerazione sebbene mi abbia sempre maltrattato. Da quando Akane ed io ci siamo sposati lei ha fatto di tutto per escludermi e farmi sentire un perdente. 

Non posso negare di aver sofferto molto per questo suo atteggiamento ma cosa potevo fare? E soprattutto, cosa avrei potuto fare in una situazione d’emergenza? Vendicarmi, forse, evitando di chiamare i soccorsi in tempo? – commentò con voce rapida e concitata Hiroshi. 

Sho si vergognava profondamente. E non solo delle parole di Hiroshi che lo mettevano davanti alle sue responsabilità ma anche delle meschinità che aveva commesso per mettere volutamente zizzania tra lui e Akane. 

Come quelle volte in cui consapevolmente sabotò i vari tentativi di Hiroshi di trovare lavoro, abusando della sua posizione e sparlando del genero coi potenziali datori. 

Ancora responsabilità

Hiroshi non sapeva che era stato proprio lui a mettergli i bastoni fra le ruote nella maligna speranza che questo portasse allo sfascio il matrimonio con Akane la quale, secondo Sho, meritava certamente qualcuno di meglio. 

L’ora delle visite era terminata. Prima di andare via, Hiroshi appoggiò sul comodino dei libri e alcune riviste che piacevano al suocero.

Ho pensato di portarle qualcosa da leggere. In un posto come questo serve un po’ di aiuto a far passare il tempo, no? Si riguardi, otōsan. Ci risentiamo più tardi. – e con un lieve inchino si congedò, scomparendo in un attimo dietro la porta scorrevole bianca in vetro e PVC. 

Dolorose verità e gratitudini

Sento aria di confessioni. Vero, signor Sho? – intervenne di punto in bianco Ueda che non aveva dormito ma, come ci si sarebbe potuto aspettare, era rimasto sveglio cercando di carpire il più possibile da quella conversazione a metà tra Sho e il genero.

Sho lo ignorò. Quel Ueda era solo un vecchio borbottone con la passione per il pettegolezzo. 

Dlin dlon. 

Era appena arrivato un messaggio a Sho. 

Era Hiroshi.

Otōsan, ieri sera non ero tornato a casa per il portafoglio ma per farla finita. – confessò Hiroshi nel messaggio.

Sho sbiancò. 

Ero da Tsubame con Akane, come sempre. Non trovavo il portafoglio e Akane ne approfittò per schernirmi dicendo che tanto non avrebbe fatto alcuna differenza dal momento che i soldi per pagare il conto sarebbero usciti dalle sue tasche. Era da tempo che me ne diceva di ogni, ricordandomi che ero solo un fallito per il quale aveva buttato via un futuro brillante. Aveva iniziato a ricordarmi sempre più spesso che avrebbe dovuto darle retta quando si oppose al nostro matrimonio. – proseguì Hiroshi come un fiume in piena.

E invece aveva scelto di rimanere con me e di abbassarsi al mio livello. Forse le facevo pena. Eppure ho tentato in tutti i modi di cercare lavoro, sempre senza successo. Così, ieri sera, dopo quest’ennesima lite umiliante in cui davanti a tutti mi ha accusato di essere la sua rovina, mi sono alzato e con la scusa di venire a prendere il portafoglio volevo invece togliermi la vita. Non ne potevo più. – aggiunse. Le sue parole grondavano di dolore e Sho questo lo percepiva. E ad ogni parola, si sentiva stringere sempre di più la gola dal rimorso.

Entrando in casa, però, ho trovato lei otōsan. A terra, in preda a qualcosa che non era benevolo. In quel momento, nonostante il suo disprezzo continuo, in lei ho visto solo una persona inerme e debole. Ho abbandonato immediatamente il mio malsano piano e le sono venuto in aiuto.

In un certo senso è lei che ha salvato la vita a me. – concluse Hiroshi.

A Sho scivolò il telefono dalle mani, cadendo rumorosamente sul pavimento a quadretti bianchi e celesti della stanza.

(Continua)

Note:

*Il termine otōsan è un onorifico che significa papà ma che spesso viene usato anche nei confronti del suocero.
** Il termine okāsan, allo stesso modo, significa mamma e nella cultura giapponese viene spesso usato come titolo affettuoso e al tempo stesso rispettoso nei confronti della propria suocera. Normalmente non è consuetudine rivolgersi ai suoceri chiamandoli direttamente per nome.

Matcha alle rose e floreali silenzi

Prima di iniziare ad immergermi nei miei racconti di oggi di matcha, rose, fiori, silenzi e letteratura, vorrei ritagliare uno spazio per delle comunicazioni di servizio:

1. Il blog ha avuto qualche difficoltà tecnica nei giorni scorsi dovute ad aggiornamenti di WordPress. Questo ha reso Biancorosso Giappone, purtroppo, non accessibile per alcuni giorni. Dunque, se avete avuto difficoltà a leggermi, questo è il motivo.

Clicca qui per saperne di più.

2. Non avrei mai creduto di dover fare un giorno questa precisazione ma tant’è: sono la proprietaria ed autrice di Biancorosso Giappone, sin dai suoi albori. Non utilizzo ChatGPT, chatbot, AI e altre tecno-bizzarrie analoghe per scrivere i miei testi o per realizzare le mie foto. Tutto ciò che leggete e vedete sul mio blog è frutto del mio intelletto e della mia capacità di rielaborare in forma scritta pensieri, sensazioni, ricordi, opinioni, informazioni ecc.
Il risultato non sarà mai privo di imperfezioni e sbavature ma è certamente autentico. E soprattutto, umano.
Il mio impegno continua ad essere quello di scrivere di mio pugno tutto ciò che leggete e di realizzare da sola le foto che spesso corredano i miei scritti. Naturalmente, posso garantire l’autenticità solo dei miei scritti e delle mie foto: non posso garantire altrettanto per quel che riguarda illustrazioni e foto provenienti da altri siti.

Matcha alle rose

Questi giorni di agosto scorrono lenti, come l’acqua di un fiume in secca che langue sotto i raggi inferociti di un sole implacabile. Agosto sembra un po’ una parentesi illusoria tra i restanti undici mesi in cui il tempo, invece, si affretta a raggomitolarsi nell’eternità.

Un corvo gracchia lamentosamente ogni mattina, appollaiato sulle tegole del palazzo dirimpetto. Il quartiere è ancora molto silenzioso: qualche automobile che ogni tanto sfreccia sul corso principale, dei cani in lontananza abbaiano, il vociare di alcuni bambini forse impegnati in un gioco.

La collina, laggiù sulla sinistra, è avvolta in una spessa coltre bluverde. Era la stessa collina che vedevo da bambina quando mi portavano su dai nonni, in Viale Curreno. Infatti, è un vero punto fermo, immobile nel tempo.

Anche il cielo sembra muto, perforato da venature rosa salmone.

È ad agosto che l’illusione bergmaniana, di cui ho parlato qui, si fa particolarmente intensa e vivida.

Oggi non tocca ancora alla quinta e ultima ricetta della rubrica estiva.

Questa volta scrivo liberamente ciò che zampilla dalla mente, cercando comunque di seguire sempre un filo logico su cui i pensieri ogni tanto faranno acrobazie da trapezisti provetti.

In uno di questi pomeriggi afosi e svogliati, ho avuto l’idea di preparare una bevanda fredda al matcha con qualche nota di rosa.

Il matcha ha un sapore che accoglie molto bene le note fragranti e inconfondibili della rosa. Visivamente è come se creassero un abbraccio tra i due colori predominanti: il verde e il rosa, in tutte le loro delicate sfumature.

Quella che riporto non è proprio una ricetta: è più che altro un procedimento. Sentitevi liberi di variare le proporzioni a vostro piacimento.

Indicazioni per preparare il matcha alla rosa

Per due matcha freddi alla rosa:

100ml d’acqua calda
1 cucchiaino abbondante di matcha di qualità
190ml di latte freddo* (io ho usato un latte di soia non zuccherato)
1 cucchiaio di acqua di rose per uso alimentare**
dolcificante a piacere (zucchero, miele, sciroppo d’acero ecc.)
boccioli di rose essiccati (facoltativo)

*Qualsiasi latte andrà bene: animale o vegetale. L’importante è che sia ben freddo. Potete aggiungere del ghiaccio, se preferite. Potete usarne uno già zuccherato evitando, in seguito, di aggiungere dolcificanti.
**L’acqua di rose è un ingrediente molto diffuso nella pasticceria mediorientale. È economica e la potete acquistare nei negozi cosiddetti etnici oppure nei negozi di alimentari provenienti prevalentemente dal Medio Oriente e dal Nord Africa. Verificate che sia per uso alimentare. Non usate l’acqua di rosa cosmetica!

In una tazzina stemperare il matcha nell’acqua calda e mescolare benissimo, evitando che si formino grumi. Potete usare il chasen di bambù oppure un frullino a mano o elettrico.
Al latte di soia freddo aggiungere un cucchiaio di acqua di rose e mescolare bene.
In due bicchieri, versare il matcha stemperato e aggiungere il latte di soia aromatizzato alla rosa.
Se lo desiderate, potete zuccherare con un dolcificante di vostra scelta. Se lo gradite, unite anche qualche cubetto di ghiaccio.

Per finire, si può guarnire con qualche bocciolo di rosa essiccato.

Servire immediatamente.

Silenzi floreali

In questa atmosfera avvolta nel pigro e torrido silenzio agostano, ho pensato ad un detto giapponese che ben si accompagna alle rose del nostro matcha freddo:

Questo color rosa ricorrente segue il filo floreale e non certo l’assillo modaiolo del momento, di un film incentrato sulla figura di una famosa bambola.

Il detto è:

「言わぬが花」
Iwanu ga hana.
Traduzione non letterale: il non dire (ossia il silenzio) è un fiore.

Non servono sbrodolamenti filosofistici per comprenderne il senso. Anche perché, d’altra parte, troppe parole per spiegarlo sarebbero in netta contraddizione con la sua stessa essenza.

Molto si può dire – e spesso si dice – non dicendo. Nel non detto, l’esplicito.

In questo messaggio ritrovo, ad esempio, una chiave di lettura delle favole giapponesi ma anche di molta letteratura del Giappone, di varie epoche. Non sempre c’è una conclusione soddisfacente (secondo i nostri canoni) o una morale sazievole.
Sovente, il racconto sembra quasi concludersi in una sorta di dissolvenza narrativa dai contorni liquidi e anche un po’ sbiaditi. Oppure, un’interruzione decisa che può generare un punto interrogativo.

Ma anche l’inizio di un silenzio eloquente in cui vi sia spazio all’interpretazione oppure, più sottilmente, il messaggio non detto.

Il fiore, appunto.

Piccola nota per gli studenti di giapponese

La forma verbale negativa che appare nel detto ha la desinenza in 〜ぬ: questa è una forma arcaica e corrisponde all’attuale 〜ない . Quindi: 言わぬ 言わない.

Oltre il matcha ma con i silenzi: I microcosmi di Kawakami Hiromi

Tempo fa dedicai un articolo ad una delle mie scrittrici giapponesi contemporanee preferite: 川上弘美 Kawakami Hiromi. Potete leggerlo qui.

Torno spesso sui suoi racconti perché mi trasportano in una dimensione immaginaria e confortante in cui mi rifugio volentieri quando il livello delle forze è a secco. E questa volta ho ripreso questa sua straordinaria raccolta di mini racconti intitolata 「このあたりの人たち」Kono atari no hitotachi (lett. le persone di questo quartiere). L’opera, di cui non credo vi sia ancora la traduzione in italiano, è disponibile in inglese col titolo di People From My Neighborhood, (tradotto da Ted Goossen).

Per me il nome di Kawakami Hiromi sarà per sempre legato all’immagine e al profumo di una golosa torta al cioccolato.

E incredibilmente, ritorna il rimando gastronomico non necessariamente a ciò che scrive ma a ciò che le sue opere suscitano nei lettori. Infatti, il giornalista americano Eric Margolis del Japan Times paragona la lettura di questa raccolta di racconti ad uno spuntino insolito ma appagante (like an unusual but satisfying snack). Qui l’articolo originale della sua analisi.

Una raccolta di ventisei storie brevissime, di tre o quattro pagine al massimo. Postfazione di Furukawa Hideo.
Le storie sono dei microcosmi interconnessi ma al tempo stesso indipendenti. Il fil rouge sono i rapporti interpersonali o tra umani e personaggi frutto della fantasia della scrittrice. Una prosa che incanta perché tocca mondi a volte lontani e altre volte vicinissimi. Un po’ come in Kamisama, di cui ho scritto nell’altro articolo: il mondo degli esseri umani che si avvicina a quello degli animali.

C’è la storia dell’uomo con due ombre o del bambino (o forse qualcosa che gli assomiglia) monello che vive vicino a un albero, nascosto sotto un telo bianco. Vi è la storia dell’amicizia tra la protagonista e una nonnina (che in realtà avrà avuto circa una quarantina d’anni), dal carattere capriccioso e che vediamo impegnata a fare gli origami con delle carte dai colori sgargianti.

E la nonnina che, improvvisamente, esordisce con un singolare:” Mi è stato detto che l’inferno odora di olio di fegato di merluzzo”.

Floreali silenzi e conclusioni sfumate

E anche qui ritroviamo storie irrisolte, soluzioni sfuggenti o del tutto assenti. Di nuovo quei contorni soffusi che, in realtà se ascoltati, comunicano più delle parole.

Collage di fiori incontrati casualmente durante le mie passeggiate torinesi in solitaria.

I fiori (e il matcha) hanno punteggiato questo mio scritto e a questi stessi fiori lascio l’onore di custodire il non detto.

言わぬが花。Iwanu ga hana.

Kanten di fragole e latte di soia

Siamo ai primi dieci giorni di agosto, ormai. Mese curioso, questo, poiché fa da sala d’aspetto dell’autunno.

D’altra parte, secondo il calendario giapponese tradizionale di derivazione cinese, il periodo compreso tra l’8 e il 22 agosto è noto come 立秋 risshū ovvero l’inizio dell’autunno. Sembra che la morsa più feroce del caldo esasperante resti tra le roventi pieghe di un luglio incandescente. Ora, invece, iniziamo ad assaggiare gli ultimi sorsi dolci di estate diluiti in fresche ed ariose venature temporalesche.

I kanji di risshū accompagnati dalla data d’inizio, ovvero l’8 agosto. Fonte immagine.

Devo, dunque, affrettarmi a concludere la mia rubrica estiva. Oggi vi proporrò la quarta delle cinque ricette programmate: il kanten di fragole e latte di soia.

A chi non avesse seguito, ricordo che a fine giugno ho inaugurato uno speciale estate che ho voluto chiamare 夏の味 Natsu no aji, cioè Sapori d’estate.

Le tre ricette già pubblicate sono:

Yamagata-dashi
Shiratama del Periodo Edo
Tomatomiso

Non passo subito alla ricetta, lo sapete. C’è sempre molto da scoprire e da condividere. Da anni, ormai, mi si chiede di scrivere un libro poiché ho scritto tanto e ancora tanto scriverò, se Dio vuole.
Ma soprattutto mi chiedo che forma stiano prendendo questi scritti storico-gastronomici e quale potrebbe essere il loro destino.
Certo, potrebbero rimanere qui sul blog, ma vorrei davvero che trovassero posto sulla carta materiale che, sin dai tempi antichi, accoglie parole e pensieri dando loro una tangibile e fragrante dimora.

Se tra chi mi legge c’è qualcuno che desidera aiutarmi ad iniziare un percorso di pubblicazione, mi lasci un commento con un recapito e mi metterò in contatto io.

Fragole, Ingmar Bergman e deviazioni

Avevo scelto di proporre un dolce come quarta ricetta della rubrica. Scelsi di orientarmi verso i kanten (che spiegherò a breve) con ingrediente principale un altro frutto. Non le fragole. Tuttavia, la preparazione di prova ha rivelato troppe incognite e trappole e quindi ho deciso di fare una deviazione rispetto al percorso precedentemente definito.

Non so ancora cosa farò di quella ricetta originale. Probabilmente la riproporrò in altro modo.

Questo allontanamento, però, ha riservato delle sorprese.

Le modifiche di percorso, sebbene a volte ingannevoli, mi affascinano perché conducono a soluzioni o scoperte del tutto inaspettate. Oppure possono portare semplicemente a nuove angolazioni da cui poter osservare meglio una questione.

Questa deviazione mi ha riportato subito alla mente il professor Isak Borg nonché celebre protagonista di un capolavoro del cinema svedese: Smultronstället, in italiano conosciuto come Il posto delle fragole, di Ingmar Bergman. La vicenda narrata nel film, dopotutto, inizia per davvero con una deviazione di percorso.

Fonte immagine.

Il professor Borg comincia così una riflessione sulla vita e sulla morte deviando, di fatto, dal suo percorso prestabilito di viaggio e di pensiero.

Le fragole per gli svedesi non rappresentano solo la primavera ma anche l’innocenza. Insomma, la primavera dell’esistenza. Ed è al ricordo di essa che Borg fa ritorno, seppur solo con la memoria.

La mia deviazione di ricetta non mi ha condotto lungo tortuosi percorsi di riflessione bergmaniani. O almeno, solo in parte.

Mi sono infatti trovata ad ammirare e ad assaporare delle fragranti fragole di montagna. E da lì poi l’idea di ritornare sulla strada principale, verso la mia destinazione.

Ma curiosamente ripenso spesso al professor Borg in estate a Torino, soprattutto ad agosto. Sebbene la città non si svuoti più come un tempo, è innegabile l’alleggerimento generale delle strade. Può capitare che, passeggiando per una qualche strada proprio in un pomeriggio d’agosto a Torino, di avere la sensazione che il tempo si è fermato: orologi immobili, lancette arrugginite, marciapiedi deserti e toccati soltanto dai raggi roventi di un sole pomeridiano e dalle pervicaci erbacce che tutto sfidano.

Fragole di montagna

In qualche modo è arrivata l’idea del kanten di fragole e latte di soia: preparazione frutto forse di una deviazione squisitamente bergmaniana?

Cos’è il kanten?

In rete esistono centinaia di articoli che trattano in maniera esauriente l’argomento quindi non mi ci soffermerò troppo a lungo.

Il 寒天 kanten è un gelificante vegetale, estratto da alcuni tipi specifici di alghe. Rappresenta una notevole alternativa alla gelatina alimentare classica che è quasi sempre di origine animale (suina, in particolare).

In Giappone si utilizza da secoli questo ingrediente soprattutto nei dolci tradizionali, i wagashi.

Da noi il kanten è più noto col nome di agar-agar, vocabolo di origine malese. Tuttavia, pur essendo fondamentalmente la stessa cosa, di norma i giapponesi li distinguono perché i due prodotti si ricavano da due varietà di alghe diverse.

Nonostante questa distinzione, a conti fatti, non sembrano esserci differenze tali da giustificare procedure diverse. Quindi possiamo usare uno o l’altro senza particolari problemi, ricordandoci però di attenerci scrupolosamente alle indicazioni del produttore.

In Italia si trova l’agar-agar in polvere, in fiocchi, in stecche.

Per questa ricetta userò quello in polvere nonché la forma più comunemente reperibile nei supermercati e anche la più semplice da utilizzare. Al fondo dell’articolo, troverete poi un aggiornamento riferito ad un esperimento in cui ho utilizzato l’agar-agar in fiocchi.

In passato ho trattato l’argomento kanten / agar-agar. Ad esempio, in una ricetta della scorsa estate: コーヒーゼリー Kōhī-zerī ovvero la gelatina al caffè.

Le fragole in Giappone

Fonte immagine.

Ed eccoci al collegamento storico che sempre mi affascina.

Qual è la storia delle fragole in Giappone? Quando sono state introdotte? E da chi? Anche le fragole, come i pomodori, sono state inizialmente apprezzate solo come elemento decorativo?

Normalmente, quando si ripercorre la storia delle fragole in Giappone, si volge subito lo sguardo al XVIII secolo e al ruolo degli olandesi in questa vicenda. In realtà, ci sono testimonianze storiche che ci raccontano del consumo di fragole selvatiche già nel lontano Periodo Heian (794-1185 d.C.), nonché epoca d’oro della letteratura giapponese e in particolare della poesia.

Ritroviamo notizie del consumo di fragole selvatiche nel famoso 延喜式 Engishiki, importante trattato di leggi e costumi, commissionato dall’Imperatore Daigo, sessantesimo sovrano del Giappone. L’opera, conclusa nel 927, rappresenta un importante successo nei tentativi di codificazione degli usi, costumi e leggi del tempo.

L’Engishiki. Parte dell’opera costituita, nella sua interezza, da cinquanta volumi. Fonte immagine.

Altre scie al profumo di fragola provengono da una celebre opera letteraria risalente sempre al prospero Periodo Heian: l’opera in prosa 「枕草子」Makura no Sōshi, in italiano tradotto come Note del guanciale, di Sei Shōnagon, dell’anno 1002. Mi preme precisare che la traduzione italiana è della straordinaria Lydia Origlia a cui ho dedicato questo scritto in ricordo del nostro incontro, in provincia di Savona.

In Makura no Sōshi ritroviamo un insieme di pensieri, riflessioni, poesie, aneddoti, opinioni, sensazioni dell’autrice nonché dama di compagnia dell’Imperatrice Teishi. Il tutto presentato in uno stile scorrevole e curiosamente fresco scandito dai criteri del mi piace e non mi piace.

Al punto 42 dedicato alle sue considerazioni relative ai Particolari eleganti e graziosi, Sei Shōnagon scrive:

“Indossare su una veste rossa un’ampia e giovanile sopravveste candida. Le uova di anatra. Un dolce di zucchero di vite, conservato nel ghiaccio e presentato in una coppetta di metallo. Un rosario di cristallo. I fiori di glicine. I fiori di prugno quando su di essi fiocchi la neve. Un bambino graziosissimo che mangi fragole. “

Lo zampino olandese e tempi più recenti

Arrivano gli olandesi con le fragole!
Fonte immagine.

Troppo lontana è l’epoca Heian, con la sua rarefatta vita di corte ritmata da complessi rituali e raffinate etichette.

In quel mondo si mangiavano fragoline selvatiche e un bambino intento a divorarle poteva attirare lo sguardo intenerito di una dama imperiale dalla penna prodigiosa.

Le varietà di fragole comunemente consumate al giorno d’oggi in Giappone hanno avuto origine nel tardo Periodo Edo (tra il 1830 e il 1840) grazie all’introduzione del frutto da parte degli olandesi, al porto di Nagasaki.
Non a caso, infatti, venivano chiamate オランダイチゴ Oranda-ichigo cioè fragole olandesi. Tuttavia, i tempi forse non erano ancora maturi per la nascita del grande amore tra i giapponesi e le fragole.
Infatti, solo nel Periodo Meiji (1868-1912) ebbe inizio la coltivazione su larga scala.
Negli anni, poi, vennero formulate nuove varietà nate da incroci con fragole americane e francesi, soprattutto dagli anni Cinquanta in avanti.

Da allora la popolarità della fragola è cresciuta sempre di più fino tanto che da un sondaggio lanciato nel 2007 dalla NHK, la maggior emittente radio-televisiva del Paese, è emerso che la fragola è il frutto preferito in assoluto dai giapponesi.
Infatti, a mio parere, rappresenta un po’ il frutto perfetto che piace a persone di tutte le età e che sa dare il giusto finale di graziosità e colore a qualsiasi dolce.

Basti pensare alla sua presenza quasi di rito in alcuni dolci moderni come l’emblematica クリスマスケーキ Kurisumasu-kēki ossia la torta di Natale, le crepe da passeggio, la torta per la festa della mamma ecc.

Illustrazione della classica torta di Natale. Fonte immagine.

Le fragole nell’arte

Proprio come abbiamo già visto per i pomodori, anche le fragole hanno un grazioso posticino nell’arte.

Nel 1834, il grande Katsushika Hokusai realizzò un’opera intitolata 「鵙 翠雀 虎耳草 蛇苺」Mozu, ruri, yuki no shita, hebi ichigo. Passerotto, Begonia fragola, sparviero e fragole matte.

Fonte immagine.

Kanten di fragola e latte di soia

Dopo il consueto prologo storico-letterario-artistico, giungiamo finalmente alla nostra ricetta. Vediamo subito gli ingredienti sufficienti per quattro o cinque coppette di dolce:

INGREDIENTI
200g di fragole lavate e mondate
200ml di latte di soia senza zucchero*
100ml d’acqua
4g di agar-agar **
3 cucchiai di zucchero di canna
un po’ di fragole in più per decorare (facoltativo)

*In Giappone per queste ricette si usa un tipo di latte di soia chiamato 無調整 muchōsei ovvero puro, senza additivi di alcun genere. Io ho usato il latte senza zucchero della Valsoia. Usate la marca che preferite ma accertatevi che non contenga zucchero.
**Io ho usato l’agar-agar in buste della Coop. Usate quello che avete ma seguite con precisione le indicazioni riportate dal produttore perché queste possono variare molto da una marca all’altra.

Nella coppa di un frullatore versare il latte di soia e le fragole lavate e tagliate a pezzi. Frullare bene fino ad ottenere un composto omogeneo.

In un pentolino versare l’acqua e l’agar-agar in polvere. Mescolare bene con una frusta assicurandosi che non vi siano grumi e che la polvere si sciolga in maniera uniforme. Scaldare a fiamma medio bassa e, una volta raggiunto il bollore, lasciar cuocere per circa due minuti.
Aggiungere lo zucchero e mescolare ancora. Per ultimo, unire il frullato di fragole e latte di soia preparato in precedenza. Amalgamare il tutto e scaldare il composto per un paio di minuti senza però portarlo ad ebollizione.

Scegliere delle coppette di vetro o di ceramica e versarvi il composto con un mestolo. Io ho scelto coppette varie, tra cui i miei amati sobachoko. In particolare, quello in primo piano, è un sobachoko giapponese decorato con illustrazioni di alghe…motivo particolarmente adatto se si considera che sono la fonte del kanten!

Lasciar raffreddare fintantoché il vapore di cottura non sarà svanito. In giapponese esiste un termine specifico per indicare questo vapore di cottura: 粗熱 aranetsu.

Riporre in frigorifero per almeno un’oretta e mezza. Se lo si desidera, si può guarnire il kanten con delle fettine di fragole precedentemente messe da parte oppure con altra frutta, cioccolato fuso, panna montata ecc.

Provate questo dolce. Vi sorprenderà. La consistenza è quella di una soffice mousse.

Kanten al matcha

Come promesso, vi riporto un esperimento dove al posto delle fragole ho utilizzato il matcha. Ma non è stata l’unica variazione: ho infatti usato l’agar-agar in fiocchi e non quella in polvere. Nello specifico ho utilizzato quella del marchio Probios:

Ho trovato un po’ più complesso l’uso di questi fiocchi perché serve essere precisi con le dosi. Occorre, dunque, una bilancia di precisione che io non ho. Tuttavia, per circa sei coppette di kanten al matcha ho utilizzato un cucchiaio e mezzo da minestra di fiocchi.
Un altro aspetto che può rendere più complesso l’uso dell’agar-agar in fiocchi è la necessità di farli sciogliere molto bene in acqua prima di poter procedere col resto della ricetta. Questa operazione richiede un po’ di pazienza.

Ho ottenuto un kanten compatto ma al tempo stesso gradevole e fresco con le note del matcha come vere protagoniste.

Fonti

Kanazawa Market
NHK Broadcasting Culture Research Institute, Public Opinion Research Department, 2008, What Japanese People Like: Tastes and Values Read with Data.
Nihonjin no Suki na mono: Data de yomu shikō to kachikan (Cosa piace ai giapponesi: preferenze e valori), Japan Broadcast Publishing Association.

Sei, Shōnagon, Note del guanciale, SE, 2002.

Tomatomiso

Siamo giunti alla terza ricetta della rubrica estiva Natsu no aji. Le prime due sono: Yamagata-dashi e le Shiratama del Periodo Edo.

Il nome della mia rubrica con una splendida xilografia di Hashiguchi Goyo 橋口五葉 come sfondo. L’opera è intitolata 「温泉宿」Onsen-yado (locanda termale).

Oggi è il turno del トマトみそ Tomatomiso.

Nell’introduzione alla rubrica, pubblicata il 25 giugno 2023, ho elencato le caratteristiche principali che avrebbero avuto le ricette, senza però svelarne il contenuto.
Ebbene, nell’elenco vi è menzione di una ricetta estiva contemporanea che sarà infatti la protagonista di oggi.

Dal nome – Tomatomiso – si può facilmente intuire quali saranno gli ingredienti principali: i pomodori e il miso, per l’appunto.

Il pomodoro e il miso sono due ingredienti che sono già comparsi insieme in una ricetta che pubblicai qualche tempo fa e che trovate proprio qui: Zuppa di miso al pomodoro e basilico.

Ritornano ora in scena in una veste diversa e forse anche un po’ inaspettata.

Sapor di pomodoro: una storia lunga secoli

Ci sono alimenti a cui siamo così tanto abituati da credere che siano parte del nostro mondo da sempre. Forse siamo consapevoli che storicamente le cose non stanno proprio così ma, emotivamente, continuiamo a pensare che essi siano sempre esistiti nel mondo in cui siamo nati e cresciuti.

Fonte immagine

Un alimento di questo tipo è il pomodoro che per noi italiani sembra quasi custodire al suo interno l’essenza di tutta l’italianità a tavola.

Eppure sappiamo che il pomodoro è originario della parte meridionale dell’America settentrionale e del Sudamerica, introdotto in Europa nel XVI secolo, durante la movimentata epoca delle esplorazioni e conquiste del cosiddetto Nuovo Mondo.

Ed è proprio dal Nuovo Mondo – ossia il territorio un tempo abitato dai Maya e dagli Aztechi (i mexica, come si autodefinivano) – che provengono molti cibi entrati a far parte delle nostre alimentazioni da secoli, ormai. Ricordiamo, ad esempio, il mais, le patate, le zucche, i fagioli, oltre naturalmente il nostro amato pomodoro.


Secondo certe fonti, ci sarebbe addirittura una data precisa d’introduzione del pomodoro in Italia: il 31 ottobre 1548, a Pisa, quando Cosimo de’ Medici ricevette in dono una cesta di pomodori nati da semi appartenuti al Viceré del Regno di Napoli. E sempre secondo queste ricostruzioni, la gastronomia del tempo accolse con diffidenza il nuovo prodotto e iniziò a conoscerlo meglio solo a partire dal Settecento. Solo dall’Ottocento si suggellerà il grande patto d’amore pomodoresco che ci avrebbe resi famosi in tutto il mondo.

I pomodori in Giappone

In Giappone i pomodori sono ormai conosciuti e apprezzati ovunque. E sebbene continuino ad essere considerati alimento di origine occidentale, sono talmente diffusi da essere ormai parte integrante dell’alimentazione contemporanea.

Tuttavia, non è sempre stato così. I giapponesi, infatti, hanno preso confidenza con questo saporito frutto (secondo la classificazione botanica, si tratta infatti di un frutto!) solo in tempi molto recenti!

Nonostante alcune divergenze nelle ricostruzioni storiche, c’è abbastanza unanimità nel ritenere che i pomodori siano stati introdotti nell’Asia sud orientale e in Cina tramite i portoghesi e gli olandesi, due popolazioni europee attivamente presenti in Asia tra il XV e il XVII secolo.

I pomodori nell’arte

Non sembrano esserci informazioni precise più circoscritte con cui collocare l’introduzione del pomodoro in Giappone. Sappiamo, però, che il suo ingresso è avvenuto nel lasso di tempo citato poc’anzi. Si potrebbe azzardare un’ipotesi, tuttavia: è risaputo che una delle prime opere artistiche giapponesi raffiguranti dei pomodori è un dipinto del pittore 狩野探幽 Kanō Tanyū, artista nato e vissuto nel primo Periodo Edo.

Il dipinto, intitolato 「唐柿」Tōgaki (il vecchio nome del pomodoro e che letteralmente significa caco cinese, proveniente dalla Cina sotto la dinastia Tang o comunque dall’estero), è il primo esemplare artistico giapponese conosciuto, raffigurante l’amato ingrediente. Il pittore nacque e visse nel XVII secolo quindi si può immaginare che il pomodoro sia stato introdotto in quel periodo. Chissà.

Negli anni e secoli successivi, sappiamo che la pianta del pomodoro mise le sue radici in Giappone, botanicamente e culturalmente parlando. Si sperimentò molto con la coltivazione di tante varietà di pomodoro provenienti anche dal Nord America e Messico ma la pianta, almeno per quel periodo, aveva valore unicamente ornamentale.

Il caso di Yoshida Aigorō

In un periodo in cui il pomodoro in Giappone era solo un bell’elemento decorativo, deve essere stato curioso dunque per il signor Yoshida scoprire che c’erano persone che invece si cibavano di quei bizzarri frutti rossi.

Uno studioso e agronomo giapponese, originario della città di Nagano, di nome 青木恵一郎 Aoki Keichirō (1905-1988) scoprì, attraverso le sue minuziose ricerche, che nel 1864, su ordine di un giudice del Kanagawa, un tale Yoshida Aigorō prestò un suo terreno a degli stranieri (non è nota la nazionalità) affinché vi coltivassero ortaggi occidentali, inclusi naturalmente i pomodori.

Le melanzane rosse: l’inizio di una gustosa amicizia

Dal Periodo Meiji (1868-1912), che coincide con la fine dell’ultimo shogunato dei Tokugawa e l’inizio dell’era dell’Imperatore Meiji (primo imperatore giapponese a detenere potere politico), iniziarono le importazioni di varietà di pomodoro anche dall’Inghilterra e Francia, oltre alle varietà nordamericane di cui i giapponesi erano già a conoscenza.

Nel Periodo Meiji i pomodori erano ancora una pianta decorativa ma non si usava più il nome tōgaki che ormai era caduto decisamente in disuso. Li si chiamava 赤茄子 akanasu ovvero melanzane rosse.

Sebbene nel nome ci fosse un rimando gastronomico alla melanzana già ampiamente nota e acclamata sulla tavola nipponica (lo Yamagata-dashi ne è un tributo), pare che i giapponesi, soprattutto nella capitale, iniziassero a superare timidamente le loro diffidenze nei confronti del pomodoro come alimento solo a partire dal primo decennio del XX secolo. La coltivazione su più larga scala per scopi alimentari ebbe inizio intorno agli anni Venti; il culmine si raggiunse negli anni Sessanta, in prima battuta con l’inarrestabile cambiamento delle abitudini alimentari dei giapponesi (ricordiamo il processo di occidentalizzazione in atto da tempo e l’occupazione americana del ’45) e poi con una crescente domanda di mercato che diede avvio alla lavorazione industriale del pomodoro.

Ben presto, però, il pomodoro cambiò nuovamente nome assumendone uno di chiara origine anglosassone: トマト tomato. I pomodori non erano più le melanzane rosse ma i tomato, nome con cui sono noti ancora oggi.

Il caso Kagome

La lavorazione industriale su larga scala del pomodoro in Giappone conobbe il suo massimo splendore intorno agli anni Sessanta grazie anche all’importante contributo di un’azienda storica : la カゴメ株式会社 Kagome Kabushiki-gaisha, impresa cardine nel panorama imprenditoriale giapponese nonché – ancora oggi – numero uno nella coltivazione e lavorazione dei pomodori. Secondo la storia ufficiale dell’azienda, la Kagome venne fondata nel 1899 per poi diventare una società per azioni (incorporated) nel 1949. Tra i suoi prodotti più famosi – e che ritengo giusto ricordare – vi sono il suo storico ketchup, la polpa di pomodoro a pezzi e il suo celebre succo di pomodoro.

Tomatomiso

Tomatomiso

Questo lungo prologo botanico-storico ci darà la giusta prospettiva in cui collocare la ricetta di oggi nonché sufficiente consapevolezza per poterla assaporare al meglio.

Si tratta di una ricetta certamente contemporanea che però potremmo anche definire in parte moderna poiché, secondo la periodizzazione storica giapponese, l’epoca moderna ha inizio con l’era Meiji.

La presenza del pomodoro e quella del miso ci restituiscono un’immagine armoniosa dell’incontro tra Occidente e Oriente. Un vero abbraccio fraterno in cui si annullano le distanze e si evidenziano solo i pregi, dell’uno e dell’altro.

Il tomatomiso, come vedrete, è una sorta di salsa che può essere utilizzata in tanti modi. Viene infatti definita una 万能ソース bannō-sōsu ossia una salsa multiuso (letteralmente, dai diecimila talenti).

Naturalmente, non rientra nella cucina tradizionale giapponese proprio per la presenza del pomodoro. Tuttavia, rientra a pieno titolo in quel grande repertorio di specialità moderne e contemporanee che hanno saputo coniugare i punti di forza e le virtù di ingredienti provenienti da ogni parte del globo con quegli ingredienti già noti alla popolazione locale da secoli.

La fonte della ricetta è un vecchio numero di agosto di una famosissima rivista di cucina giapponese molto amata che si chiama オレンジページ Orenji-pēji.

Il numero in questione propone idee molto allettanti in cui preparare in tanti modi tre ortaggi: le melanzane, i cetrioli e i pomodori.

E per il pomodoro, tra i tanti suggerimenti, vi è il Tomatomiso.

La sua preparazione è di una semplicità estrema poiché servono solo due ingredienti e una pentola.

Vediamo nello specifico come procedere.

Ricetta del Tomatomiso

Vediamo subito gli ingredienti che, come già precisato, sono solo due.

500g di pomodori freschi maturi (scegliete la varietà che preferite)
75g di miso

Lavare bene i pomodori e asciugarli. Tagliarli a pezzetti avendo cura, nel frattempo, di eliminare i semi il più possibile.

Trasferirli in un tegame assieme al miso. Mescolare e mettere a cuocere a fiamma media.

Non appena il tutto inizierà a sobbollire dolcemente, abbassare la fiamma al minimo e far proseguire la cottura per 20/25 minuti, mescolando di tanto in tanto.

Se il composto dovesse asciugarsi troppo, aggiungere due cucchiai d’acqua.

Il Tomatomiso sarà pronto quando i pomodori si saranno quasi completamente disfatti e si sarà formato un sugo spesso e cremoso (v. ultima foto in basso a destra del collage). La consistenza sarà molto simile a quella di un ragù.

Riporre il Tomatomiso in un contenitore per alimenti, lasciarlo raffreddare dopodiché chiudere il coperchio e conservarlo in frigorifero.

E il vostro Tomatomiso è pronto per essere utilizzato in tantissimi modi. Ve ne suggerirò uno.

Un saporito Tomatomiso casalingo.

Precisazione

Una peculiarità della ricetta del Tomatomiso è la cottura del miso. Si tratta di una pratica insolita poiché il miso è un alimento vivo con proprietà probiotiche. Per questa ragione, generalmente, se ne sconsiglia la cottura. Ad esempio, quando si prepara la zuppa di miso, esso viene aggiunto al brodo solo nella fase conclusiva proprio per ridurre al minimo il contatto col calore diretto della fiamma.

A tal proposito, vi rimando al mio video dedicato alla preparazione della zuppa di miso.

Tuttavia, nel Tomatomiso si fa un eccezione. È una salsa di cui apprezziamo il gusto reso particolarmente intenso e strutturato grazie alla doppia presenza di umami. Esso, infatti, è presente in modo naturale in tanti alimenti, tra cui il miso e i pomodori.
Per l’apporto probiotico, sarà sufficiente continuare a consumare il miso come zuppa.

Un’idea: Tomatomiso-udon

Il Tomatomiso vi sorprenderà per la sua bontà. Quando lo assaggerete, sono sicura che vi verranno molte idee per poterlo utilizzare.
In estate, si presta molto bene per condire del tōfu freddo, verdure al vapore, pesce, carni, uova sode. Immaginatelo anche spalmato sul pane o come salsa per hamburger. Davvero, non ci sono limiti.
Io vi suggerisco di utilizzarlo per condire gli udon freddi.

I miei Tomatomiso-udon.

Sarà sufficiente sbollentare una confezione di udon e nel frattempo stemperare un cucchiaio di Tomatomiso con un cucchiaino di olio di sesamo e qualche goccia di succo di limone.

Scolare gli udon, sciacquarli velocemente, disporli in un piatto e condirli con il Tomatomiso stemperato. con olio di sesamo e limone.

Guarnire con qualche erbetta di vostra scelta e servire.

Per concludere

Restano ancora due ricette della rubrica estiva: una ricetta di provenienza buddista e un dolce. Vedremo quale sarà la prossima nonché penultima ricetta del periodo.

Fonti

Andoh, E. , A Taste of Culture Culinary Arts Program, Setagaya-ku, Tōkyō,
https://japanlivingarts.com/elizabeth-andoh-a-taste-of-culture-tomatoes/?doing_wp_cron=1690990757.8236260414123535156250
Aoki, K. , 1974. 作物紳士録. Sakumotsu Shinshiroku. Chūōkōronsha. Tōkyō.
Kamimura, S. (1980). HISTORY OF THE PRODUCTION OF TOMATOES FOR PROCESSING IN JAPAN. Acta Hortic. 100, 75-86

Shiratama del Periodo Edo

Verso la fine di giugno ho inaugurato uno spazio dedicato alla cucina estiva giapponese e che ho intitolato 「夏の味」Natsu no aji ovvero Sapori d’estate. Trovate il post introduttivo proprio qui. Questo spazio speciale estivo prevede cinque ricette. Ne ho già pubblicata una ed è dedicata ad una specialità regionale: 山形だし Yamagata Dashi e che trovate qui.

Oggi vorrei proseguire e condividere con voi la seconda ricetta che è piuttosto speciale, a mio parere. Non tanto per una sua complessità di esecuzione o di sapori (si tratta infatti di una preparazione estremamente semplice, quasi elementare) ma per il suo bagaglio storico.

La ricetta di oggi sono le Shiratama del Periodo Edo o 江戸時代の白玉.

Prima di iniziare…

Prima di iniziare, però, permettetemi una breve digressione.

Fantasticherie lugline ispirate dalle melodie senza tempo di Sam Cooke e dalla mia passione per il periodo Edo.

Le eteree melodie R&B / Soul di Sam Cooke e il caldo in una domenica di luglio sono corresponsabili di queste considerazioni ma mi domando quale via intraprendere con tutto ciò che scrivo. Continuo a scrivere, scovando periodicamente argomenti insoliti e che mirano sempre a staccarsi dai soliti intrugli stereotipati, avvitati su se stessi in rimescolamenti e pedisseque ripetizioni.

Quindi mi e vi domando: cosa devo fare di ciò che scrivo?

Forse è una domanda un po’ bizzarra.

Curiose visite

La seconda parte della divagazione è strettamente – anche se contraddittoriamente – legata alla prima: i grafici di analisi del traffico su questo mio spazio mi presentano settimanalmente un quadro in parte bizzarro, soprattutto dato il mio innegabile legame anche con gli States.

Oltre ad una comprensibile percentuale di lettori italiani dall’Italia (da tutte le latitudini dello Stivale), osservo con curiosità da alcuni mesi un incremento notevole di visite dagli Stati Uniti, in particolar modo da una zona specifica della California centrale. Visite non poi così sporadiche anche dalla zona atlantica, soprattutto dalla Virginia. Ecco, sono presenti questi due poli statunitensi nelle mie statistiche, col piatto della bilancia che però pende inequivocabilmente verso la costa pacifica.

Dunque, chiedo: chi mi segue da lì con così tanta assiduità? Coraggio, palesatevi e soddisfate la mia curiosità!

Ovviamente, l’invito a palesarsi è rivolto anche a chi mi segue silenziosamente da ogni angolo del Belpaese!

Un salto nel Periodo Edo

Illustrazione di un venditore ambulante di verdure, del Periodo Edo. Fonte immagine.

Per potervi spiegare la ricetta degli Shiratama del Periodo Edo, è doveroso contestualizzare il tutto in un’ottica puramente storica.

Nelle grandi città giapponesi durante il Periodo Edo (1600-1868), da Ōsaka a Edo, la capitale shogunale, erano diffusi venditori ambulanti chiamati 棒手振り bōtefuri. Il nome descrive la caratteristica principale di questi commercianti itineranti: il bastone ricurvo (棒 bō) alle cui estremità essi agganciavano delle ceste contenenti le merci da vendere. Questa specie di bastone – che in italiano è noto col termine più preciso di bicollo – veniva portato a spalle e naturalmente tenuto fermo con le mani (手 te).
Il resto del vocabolo – 振り furi – fa riferimento al moto oscillatorio di questo genere di trasporto.

Shun no tabemono: alimenti di stagione

Al tempo era possibile acquistare pressoché qualsiasi cosa grazie alle attività dei bōtefuri, specialmente generi alimentari ma anche masserizie varie. Ogni stagione, inoltre, era caratterizzata da alimenti particolarmente richiesti e di cui questi mercanti ambulanti erano i principali distributori. Prodotti stagionali che erano importanti allora come ora: i cosiddetti 旬の食べ物 Shun no tabemono (alimenti di stagione).

Carrellata di verdure estive giapponesi. Fonte immagine.

Ad esempio, in primavera si aspetta ancora adesso l’arrivo degli 初鰹 hatsu-gatsuo, ovvero il primo pesce bonito della stagione, per il periodo che generalmente va da aprile a giugno. Non dimentichiamo i germogli di bambù che in primavera raggiungono il livello più alto di gustosità.

In estate, invece, si aspettano con trepidazione prodotti come le fave fresche, le pesche, l’anguria, i cetrioli, il pesce hokke (una sorta di sgombro), le ostriche Iwagaki, il grongo (una specie di anguilla che vive in acque salate).

Nella stagione autunnale si attendevano e si attendono con appetito prelibatezze quali il salmone, l’uva, i pregiati funghi matsutake.

Nei mesi invernali, le patate dolci, i mandarini e il merluzzo erano (e sono) tra i prodotti più gettonati.

Sequenza di attività quotidiane di vendita di un bōtefuri di pesce.

I bōtefuri d’estate

Anche in estate i venditori ambulanti del Periodo Edo rispondevano alle richieste della popolazione fornendo ciò che la gente desiderava di più.

Molti si spostavano dalle zone più rurali per trasferirsi nelle grandi città, soprattutto a Edo, in cerca di fortuna. Iniziare come bōtefuri non era una cattiva idea poiché i costi iniziali erano irrisori e di conseguenza anche i rischi. Bisognava solo trovare qualcuno disposto a prestare all’aspirante bōtefuri il bicollo, le ceste e un quantitativo di partenza della merce prescelta.

A volte bastava poco per ingegnarsi e individuare il tipo di prodotto da proporre.

Uno di questi prodotti era la cosiddetta 冷水 Hiyamizu ovvero acqua fredda. Con le temperature roventi delle umide estati giapponesi, chi potrebbe rifiutare una bella scodella di acqua ghiacciata?

Piccole curiosità da Edo

Si dice che l’acqua a Edo non fosse particolarmente potabile perché contaminata da scarichi indiscriminati di rifiuti di qualsiasi genere, gettati direttamente nel fiume. Nello specifico, l’acqua del fiume Sumida che attraversa Edo (l’attuale Tōkyō).

All’epoca, proprio per questa ragione, si credeva che solo prelevando l’acqua dalla parte centrale di un fiume la si riuscisse ad attingere pulita e limpida.

Forse è anche da questo che deriva un detto molto curioso:

「年おりの冷水」

Toshiori no hiyamizu.

Acqua fredda per gli anziani.

Questa espressione starebbe ad indicare cose avventate che un uomo di una certa età decide di fare, pur sapendo che andrà incontro a dei rischi.

Il riferimento sarebbe direttamente legato all’acqua in vendita dei bōtefuri che proveniva dal fiume e che uno stomaco non più giovane non avrebbe retto facilmente.

Sappiamo anche, tuttavia, che molti venditori d’acqua fredda si servivano al mattino presto da pozzi che fornivano acqua bevibile. Probabilmente i meno onesti si rifornivano direttamente dalle sponde del Sumida!

Nella storia e nella letteratura abbiamo molte testimonianze di questi mercanti di strada e delle loro attività commerciali.

Ihara Saikaku

Ihara Saikaku. Fonte immagine.

Gli appassionati di letteratura giapponese staranno sicuramente già pensando al grande 井原西鶴 Ihara Saikaku (1642-1693), celebre scrittore del Periodo Edo che così tanto ci ha raccontato della sua epoca. Nelle sue opere, Ihara Saikaku ci racconta dei quartieri dei piaceri, dei samurai e dei mercanti. Quest’ultimo filone, in particolare, chiamato 町人物 chōninmono, è interamente dedicato a storie di cittadini e mercanti del tempo e alle loro vicissitudini.

In una sua opera pubblicata postuma e intitolata 「万の文反古」Yorozu no fumihōgu, ossia Miscellanea di vecchie lettere, Ihara Saikaku racconta alcune storie del filone dei mercanti però sotto forma di lettere. Una di queste storie narra di un uomo di Ōsaka che lascia la famiglia per andare a Edo, in cerca di fortuna. Non riuscendo subito a trovare un impiego soddisfacente, si unisce alla folta schiera di bōtefuri della capitale scegliendo di vendere appunto acqua fredda.

冷水 Hiyamizu. Fonte immagine.

Nelle sue missive al figlio, tuttavia, lamenta le sue condizioni economiche disastrose e esprime il suo rammarico per aver lasciato la famiglia, abbagliato dalle possibilità di ricchi guadagni nella capitale.

Shiratama e acqua fredda

Il prologo contestualizzante è stato necessario per poter finalmente introdurre la nostra ricetta di oggi.

Infatti, i bōtefuri di acqua fredda spesso arricchivano un po’ le loro scodelle di hiyamizu aggiungendo delle shiratama 白玉.
Le shiratama sono delle piccole palline preparate con acqua e farina di riso e poi bollite rapidamente.

Questa aggiunta rendeva più soddisfacente il sorso d’acqua fredda trasformando un momento di ristoro dall’arsura in una breve merenda al volo.

Venditori ambulanti di acqua fredda, shiratama e zucchero. Fonte immagine.

I venditori ambulanti di acqua fredda del Periodo Edo erano soliti aggiungere queste palline all’acqua e il più delle volte erano semplicemente bianche. Capitava, però, a volte che qualche bōtefuri più creativo ne proponesse anche di colorate come a voler dare un tocco di brio ad una giornata già sufficientemente pesante.

In cambio di un modesto supplemento, il bōtefuri aggiungeva anche una spolverizzata di zucchero di canna agli shiratama e acqua.

Mostra a Roppongi Hills

A Roppongi Hills, enorme complesso urbano di classe, nel quartiere omonimo di Roppongi a Tōkyō, nel luglio del 2020 è stata inaugurata una mostra speciale. Qui di seguito la locandina:

La mostra s’intitolava: 「おいしい浮世絵展」Oishī ukiyo-e ten. Mostra dei deliziosi ukiyo-e. Fonte immagine.

L’obiettivo della mostra era quello di mettere in evidenza il legame tra gli ukiyo-e (lett. immagini del mondo fluttuante, cioè stampe artistiche giapponesi nate e sviluppatesi durante tutto il Periodo Edo) e la cucina.
Queste stampe, conosciute ed apprezzate in tutto il mondo per la tecnica ed innegabile bellezza, sono un’importante finestra sulla vita quotidiana del Periodo Edo. Anche a tavola.
La mostra fu ideata sull’onda del comprensibile entusiasmo in seguito al riconoscimento della cucina giapponese di patrimonio intangibile dell’UNESCO.

Per la mostra, è stato anche realizzato un libro con ricettario di piatti autentici del Periodo Edo e che spesso compaiono nelle stampe.

Ricetta autentica: Shiratama del Periodo Edo

Vediamo finalmente come preparare questa rinfrescante merenda che ci riporta, seppur solo con l’immaginazione, per le strade di Edo con i suoi venditori ambulanti.

Ingredienti per 3 persone circa:

100g di farina di riso glutinosa
100ml d’acqua
colorante alimentare naturale rosso*
zucchero di canna a piacere

*Ho volutamente evitato un colorante di sintesi perché non avrebbe avuto senso. Nel Periodo Edo usavano il cosiddetto 紅 beni, ricavato dai fiori di cartamo. Non avevo questo colorante nello specifico ma mi sono comunque orientata verso ingredienti naturali e ho scelto il colorante rosso vegetale dei Fratelli Rebecchi.

  1. Unire l’acqua alla farina di riso un po’ per volta. Mescolare con le mani fino ad ottenere un composto morbido e liscio. Dare al composto la forma di un salsicciotto che dividerete in tre parti uguali.

2. Da uno dei pezzi di impasto, prelevare un quarto circa. In uno scodellino, versare circa mezzo cucchiaino (regolatevi in base all’intensità del colore che desiderate) di colorante in polvere e stemperarlo in un goccino d’acqua calda. Usate pochissima acqua calda.

3. Con le mani, lavorare il pezzettino di pasta col colorante fino ad ottenere una pallina omogenea.
Questo colorante ha dato un risultato più vicino al rosa intenso che al rosso. Comunque, ho trovato molto gradevole esteticamente il risultato.

4. Dividere tutto l’impasto bianco restante in pezzi più o meno della stessa misura e dar loro la forma di una pallina.

5. A questo punto, attaccare su ognuna di essa un pezzo dell’impasto colorato e continuare a modellare con le mani fino a quando i due colori non si saranno uniti. Qui ci si può divertire ad ottenere disegni ed effetti vari.
A me è venuto fuori anche un cuoricino!

6. Mettere a bollire dell’acqua in un pentolino. Quando l’acqua inizierà a bollire, versare delicatamente gli shiratama e lasciar cuocere delicatamente. Con un cucchiaino o delle bacchette, smuoverli dolcemente per evitare che si attacchino sul fondo. Quando gli shiratama affioreranno in superficie, lasciarli ancora bollire per esattamente due minuti.

7. Trascorsi i due minuti, trasferire con cura gli shiratama in un piatto pieno d’acqua fredda e lasciarli riposare per qualche minuto, cambiando l’acqua se necessario.

A questo punto non ci resta che servirli!

Dekiagari! È pronto!

8. Ora possiamo immaginare di essere a passeggio per una delle strade di Edo, in una rovente giornata di luglio, e di esserci fermati da un bōtefuri per una scodella di acqua fredda e shiratama. E immaginiamo che oggi siamo stati fortunati nel trovare quel venditore che ha le shiratama colorate!
Qualche shiratama in una scodella di vetro (materiale prediletto solitamente in estate assieme al metallo), un po’ d’acqua fredda e qualche bel pizzico generoso di zucchero di canna.

Proprio alla moda di Edo!

Ukiyo-e dello straordinario 歌川国芳 Utagawa Kuniyoshi, grande artista e illustratore del tardo Periodo Edo. La stampa qui riportata raffigura proprio una donna mentre serve una refrigerante scodella di shiratama colorati e acqua fredda.

Se volete deliziarvi con alcuni ukiyo-e a tema gastronomico, vi invito a fare un giro qui.

Yamagata-dashi

A fine giugno ho inaugurato una rubrica speciale dedicata all nuova stagione in cui siamo: 夏の味 Natsu no aji. Ovvero, sapori d’estate.

Arriva, dunque, la prima ricetta programmata per questo spazio stagionale: lo 山形だし Yamagata-dashi. Sebbene un po’ in ritardo rispetto al previsto.

Chissà che quest’attesa non sia servita a stuzzicare la vostra curiosità e – perché no – il vostro appetito!

Lo Yamagata-dashi (chiamato anche Yamagata no dashi) è un piatto che risponde alla perfezione ai quattro criteri che ho selezionato per questa rubrica:

1. è un piatto estivo;
2. è una specialità regionale;
3. è una ricetta poco conosciuta da noi;
4. è di facile ed economica realizzazione e si presta a mille adattamenti.

Sono certa vi piacerà per la sua semplicità, versatilità e freschezza.

Prima di vederne la preparazione, però, vediamo un po’ più da vicino di che si tratta.

Che cos’è lo Yamagata-dashi?

Illustrazione dello Yamagata-dashi. Fonte immagine.

Lo Yamagata-dashi è un piatto originario della Prefettura di Yamagata, nella regione del Tōhoku. La Prefettura di Yamagata si affaccia sulla costa occidentale del Mare del Giappone ed è un territorio prevalentemente montuoso. La sua popolazione, infatti, risiede perlopiù nella pianeggiante zona centrale.

Cartina della Prefettura di Yamagata. Sembra raffigurare il volto di una persona intenta a parlare…o forse a gustare un bel boccone di Yamagata-dashi! Fonte immagine.

L’estate in Giappone, e chi ci è stato lo sa, è pesante. I livelli di umidità sono inenarrabili e anche una semplice passeggiata si rivela un’impresa. Per me l’estate in Giappone fu un vero trauma perché arrivai a Tōkyō i primi di agosto. Ricordo ancora lo sconcerto che provai uscendo dai locali con aria condizionata dell’aeroporto di Narita per affacciarmi, per la prima volta, all’esterno. L’aria calda e soffocante mi investì all’istante.

Col tempo mi sarei abituata a quelle temperature ma in quel momento non lo sapevo e pensai di essere atterrata all’interno di un’immensa sauna. Non posso negare che provai un certo sconforto.

Intermezzo: Il mio incontro con gli hankachi

L’aver conosciuto il Giappone per la prima volta in estate ha fatto sì che uno dei miei primi incontri fosse quello con gli hankachi.

Notai da subito un’abitudine diffusa in quella terra, soprattutto in questa stagione: l’avere sempre con sé gli hankachi, ossia i fazzoletti. Certo, anche noi li conosciamo e li usiamo ma mi colpì in particolar modo l’utilizzo diffuso degli hankachi di spugna: dei veri e propri asciugamani rettangolari molto piccoli, usati in estate per tamponare il sudore della fronte.
Alcune illustrazioni di tipici hankachi giapponesi:

Questi piccoli panni si rivelano utili in tante occasioni quando si è fuori casa ma, in quelle prime settimane di scoperta, mi sorprese il loro uso così frequente nel tenere a bada fronti imperlate di sudore. Un gesto di per sé non eclatante ma di connaturata e sobria eleganza rispetto all’uso della mano, dell’avambraccio o di un fazzoletto di carta usa e getta qualsiasi.

Negli anni avrei acquisito poi anch’io quest’abitudine tanto da conservarla ancora oggi.

Nel mio cassetto della biancheria, infatti, ho i miei hankachi giapponesi che ad ogni estate riscopro e porto con me in giro per Torino.

Questi sono due degli hankachi che sto utilizzando in questo periodo: quello classico di spugna a quadretti è di Muji mentre l’altro – più giocoso e tradizionale con coniglietti e daruma – è in mussola garzata ed è di Sawa-san (che ringrazio!) di Giappop.

I miei hankachi

Chiudo l’intermezzo dedicato agli hankachi e ritorniamo sul nostro Yamagata-dashi.

Dicevamo…

Ebbene, pare che le estati a Yamagata siano ancora più afose del solito proprio a causa della conformazione geografica di quel territorio che trasforma le montagne in un’invalicabile barriera contro cui i venti poco possono.

In estate, dunque, a Yamagata è necessario ingegnarsi più del solito per combattere la 夏バテ natsubate ossia quella spossatezza causata proprio dal calore eccessivo.

Lo Yamagata-dashi, in poche parole, è un’insalata mista caratterizzata da alcuni ingredienti che la rendono speciale.

Qualcuno, anziché chiamarla insalata, preferisce definirla molto elegantemente una tartare vegetale.

Sia come sia, la ricetta per sua natura si presta a molteplici interpretazioni. Si dice, infatti, che non esista una ricetta unica per preparare questa specialità poiché ogni famiglia ha la propria.

Un po’ come per il nostro minestrone.

Perché si chiama così?

Il mio Yamagata-dashi

Il nome suscita curiosità, soprattutto se studiate il giapponese. Ciò che incuriosisce particolarmente è la parola だし dashi che richiama subito alla mente il celebre brodo (spesso a base di tonnetto essiccato), nonché ingrediente quasi onnipresente nella cucina giapponese. Verrebbe, quindi, da pensare che il brodo sia uno degli ingredienti principe del piatto.

E invece no. Del brodo nessuna traccia.

Il dashi dello Yamagata-dashi non ha alcun legame col famoso brodo.

Come spesso accade in queste questioni etimologiche, anche qui vi sono varie teorie. La più accreditata sostiene che l’origine sia da rintracciare nei ritmi della vita agreste di Yamagata, in estate. I contadini, impegnati nei raccolti in balìa dell’indomabile caldo umido, tornavano a casa esausti e affamati e di certo non si cimentavano in preparazioni lunghe e laboriose. Le verdure fresche e saporite non mancavano quindi perché non tagliarle finemente e farne un’insalata da condire velocemente e con cui accompagnare del riso, dei sōmen o del tōfu? Verdure che, in questo modo, venivano servite subito, senza attese.

Ecco, la parola だし dashi deriva dal verbo 出す dasu che – tra le tante accezioni al suo attivo – significa anche servire del cibo a tavola.

Un inaspettato ambasciatore: Daniel Kahl

La popolarità dello Yamagata-dashi nel resto del Giappone (ricordo che, infatti, si tratta di un’umile specialità regionale) è nata grazie all’impegno di un inaspettato ambasciatore: Daniel Kahl.

Daniel Kahl.
Fonte immagine.

Daniel Kahl è un personaggio televisivo statunitense (californiano, per la precisione), molto noto però in Giappone dove infatti risiede da molti anni. Kahl, conosciuto ed apprezzato per i suoi servizi televisivi dedicati a temi leggeri di società, parla fluentemente lo 山形弁 Yamagata-ben, ovvero la parlata locale dello Yamagata. E grazie a questa sua profonda conoscenza di quel particolare territorio e delle sue caratteristiche che lo rendono unico, è riuscito a portare lo Yamagata-dashi come piatto di rappresentanza addirittura sugli schermi della NHK (la TV nazionale giapponese), negli studi della storica trasmissione di cucina 「きょうの料理」Kyō no ryōri (trad. Il menù di oggi), in onda dal 1957!

La fama indiscussa di questo programma ha permesso allo Yamagata-dashi di varcare i confini del suo territorio di origine per arrivare nelle case dei giapponesi di tutto l’arcipelago, acquisendo così una notorietà che forse nessuno si sarebbe mai aspettato.

Questa vicenda mi ha ricordato un po’ ciò che successe al ゴヤ goya, l’ortaggio dal caratteristico sapore amaro, tipico della cucina di Okinawa. Anche il goya, come lo Yamagata-dashi, trovò fama e successo grazie all’intervento della TV: fu proprio una serie televisiva del 2001 ambientata ad Okinawa, intitolata 「ちゅらさん」Chura-san, ad incuriosire il resto del Paese e a diffonderne usi e proprietà.

Due parole sugli ingredienti classici

La semplicità dello Yamagata-dashi – sia come ingredienti sia come preparazione – è una caratteristica che stupisce tanto da farla sembrare quasi una ricetta non ricetta.

Come ho scritto poco più su, il piatto in realtà viene declinato in mille versioni diverse tanto da essere molto difficile riuscire ad individuare la ricetta originale. Forse lo sono tutte.

Tuttavia, è possibile restringere un po’ il campo e individuare alcuni degli ortaggi più rappresentativi che sembrano comparire nelle versioni più antiche:

Melanzane, cetrioli, foglie di shiso, myōga, okra, peperoncini shishitō.

Di questi ingredienti, forse i più complicati da trovare e da sostituire degnamente sono lo shiso verde e il myōga. Il primo sembra impossibile da trovare se non nella sua versione viola, dal sapore decisamente troppo pungente per i miei gusti. Pare, infatti, che lo shiso verde mal attecchisca dalle nostre parti. Il myōga, parimenti, è introvabile.

L’okra ed io

L’okra, conosciuto anche come gombo, è originario dell’Africa tropicale e quindi molto diffuso in varie cucine africane ma anche mediorientali. Curiosamente, ma neanche poi tanto se si guardano le ragioni storiche, è un ingrediente molto utilizzato nella straordinaria cucina cajun tipica della Louisiana e parte del Texas.

Assaggiai per la prima volta l’okra proprio in Texas, in quel mio lungo, lunghissimo anno e mezzo in un sobborgo rurale nella contea di Dallas. Lo odiai al primo istante. Forse proprio perché detestavo quel luogo.

Mi innamorai della cucina cajun ma non dell’okra e di quel suo interno mucillaginoso e viscido.

Avrei capito col tempo che si trattava di un acquired taste, come lo definiscono gli americani. Un gusto che si impara ad apprezzare col tempo.

Superati i confini dell’immenso Texas, non avrei mai immaginato di ritrovarlo un giorno in Giappone dov’è arrivato probabilmente grazie ai portoghesi.

In Italia, quantomeno nelle grandi città, non è affatto complicato trovare l’okra. Curiosate nei negozi di alimentari etnici, provenienti prevalentemente dal nord Africa e Medio Oriente.

Condimento

Sorprendentemente, il condimento tradizionale dello Yamagata-dashi è solo uno: la salsa di soia.

Salsa di soia. Fonte immagine.

Nelle tante versioni in circolazione, tuttavia, troverete ricette che prevedono anche altri ingredienti liquidi come base del condimento. Onestamente, però, in base alle mie ricerche, ho capito che su questo non ci sono troppi dubbi: la salsa di soia regna sovrana in questo piatto e fa da amorevole abbraccio al tripudio di verdure fresche

Riadattamenti

Possiamo proprio parlare di riadattamenti? Non ne sono ancora sicura dato che le versioni di Yamagata-dashi sono tante quante le famiglie che lì risiedono, ognuna con combinazioni diverse di ortaggi.

La flessibilità di questo piatto rende la sua preparazione possibile ovunque al mondo.

La ricetta che vi propongo, dunque, è perfettamente autentica. Le sostituzioni rientrano tra quelle possibili e che sono addirittura consigliate da un’esperta indiscussa in materia: Elizabeth Andoh.

Yamagata-dashi: la ricetta

Passiamo dalle parole ai fatti.

Vediamo quali sono gli ingredienti per uno Yamagata-dashi sufficiente per due o tre persone (se servito in porzioni giapponesi!).

Ecco le verdure necessarie per il mio Yamagata-dashi.

Ho cercato di non allontanarmi troppo seguendo vie eccessivamente fantasiose. Ho voluto rimanere fedele allo Yamagata-dashi tenendo però conto degli ortaggi difficili da trovare qui da noi e della mia scarsa simpatia per l’okra.

1 melanzana piccola
1 cetriolo
4/5 foglie di basilico
1 pezzetto di zenzero
1 peperone verde piccolo
un po’ della parte verde del cipollotto

E naturalmente non può mancare la salsa di soia di cui servirà una quantità che andrà misurata ad occhio. Diciamo, all’incirca, 2 cucchiai.

La salsa di soia giapponese che uso in questo periodo.

Preparazione

La parte più impegnativa di questa ricetta è la preparazione delle verdure. Niente di difficile. Bisogna solo avere un po’ di pazienza col taglio degli ortaggi.

Vediamo come procedere.

Preparazione della melanzana

Per la melanzana procedere così: lavare e tagliare l’ortaggio a cubetti molto molto piccoli. È importante. Dopodiché immergerli in un contenitore di acqua salata. Io ho messo circa un cucchiaino di sale grosso. Lasciare a mollo per una mezz’oretta circa.

Preparazione del cetriolo

Per il cetriolo, invece, fare in questo modo: lavare bene il cetriolo e tagliarne le estremità e sfregarli contro la superficie di taglio. In questo modo, il cetriolo produrrà una schiuma bianca. Quest’operazione serve ad eliminare il sapore amaro che a volte ha questa verdura (lo so, in realtà sarebbe un frutto).
Tagliare il cetriolo a metà per lungo e rimuovere i semini aiutandosi con un cucchiaino. Poi tagliare a cubetti piccolissimi, cospargere con un po’ di sale e lasciar riposare per una mezz’oretta.

Taglio del peperone e zenzero

Sbucciare lo zenzero ed eliminare i semini del peperone verde. Dopodiché, affettare finemente entrambi. Se si desidera la parte verde del cipollotto, tagliarla a rondelle sottili.

Foglie di basilico

Sfruttiamo la maestosità fragrante del nostro basilico al posto dell’aromaticità dell’introvabile shiso verde.

Lavare ed asciugare bene le foglie, arrotolarle e tagliarle finemente.

È ora di unire gli ingredienti

Sciacquare e strizzare i cubetti di melanzana. Fare lo stesso con il cetriolo. Unire il tutto in una terrina a cui aggiungerete le altre verdure: il peperone, lo zenzero, il cipollotto, il basilico.

La freschezza dello Yamagata-dashi.

Aggiungere la salsa di soia, mescolare e servire.

Lo Yamagata-dashi si può servire così oppure per accompagnare il riso. Nelle giornate più calde, è particolarmente gradito con del tōfu freddo in un piatto chiamato だし奴 Dashi-yakko. Oppure per guarnire dei delicati sōmen freddi.

A me piace servirlo con una generosa spolverata di katsuo-bushi. Ma evitatelo se non vi piace oppure se volete che il piatto rimanga vegano.

Da inguaribile golosa di katsuo-bushi, come potrei resistere a questo abbinamento?

Vi invito a provare questa prima ricetta della rubrica estiva e nel frattempo vi do appuntamento alla prossima che, come già detto, sarà una sorpresa.

Natsu no aji: i sapori d’estate

Natsu no aji: lo speciale estate di Biancorosso Giappone

「夏の味」Natsu no aji. Ovvero, i sapori d’estate. Questo è il nome che ho scelto per questo nuovo spazio che nasce oggi qui su Biancorosso Giappone.

Si tratta di una piccola rubrica stagionale che vi terrà un po’ compagnia in questa parentesi rovente dell’anno.

Nel tentativo di addolcire la presenza della stagione che preferisco di meno, ho pensato di inaugurare quindi questo angolo saporito e dal taglio leggermente inusuale – o forse perfettamente in armonia con la mia consueta linea editoriale.

Da dove nasce l’idea?

L’idea è nata in seguito al suggerimento di una ricetta da parte di Andrea, un affezionato lettore di Biancorosso Giappone. La magnifica ricetta proposta da Andrea è stata una sorta di trampolino metaforico da cui mi sono tuffata in un oceano di idee e ispirazioni.

E così ho progettato 「夏の味」Natsu no aji, ovvero uno speciale estivo che si propone un obiettivo semplice ma con alcune caratteristiche che – spero – lo renderanno intrigante.

Non si tratterà, infatti, di una mera raccolta delle classiche ricette giapponesi estive di cui è stracolmo il web. Ossia, le celebri ricette giapponesi della stagione non saranno contemplate in Natsu no aji. Questo non significa che non siano importanti. Tutt’altro. Significa semplicemente che vorrei proporre l’argomento della cucina estiva giapponese secondo criteri non banali e poco prevedibili.

Tuttavia, ecco qualche rimando ad alcune delle ricette estive più famose che ho trattato in precedenza. Ne ho trattate molte altre ma per adesso ecco alcune tra le più recenti:

In cosa consisterà questa rubrica estiva?

Per Natsu no aji ho scelto cinque ricette, ognuna rispondente ad un criterio ben preciso. Naturalmente, come potrete ben immaginare se mi leggete da un po’, non mi limiterò solo a riportare la ricetta ma l’accompagnerò da sprazzi di viaggi nel tempo, bizzarrie storiche, aneddoti assortiti. Insomma, i miei abituali mélange.

Non posso ancora svelare quali saranno le ricette di Natsu no aji ma posso darvi qualche piccolissimo indizio.

Ecco a voi un’anteprima:

Anteprima di Natsu no aji.

Cinque ricette che presenterò non necessariamente nell’ordine in cui appaiono nell’anteprima.

Si tratterà, in tutti i casi, di ricette particolari e che probabilmente la maggior parte delle persone non conosce (a meno che non siate degli appassionati fissati come me!).

Quindi, sì, ci saranno dei sapori del mio amato periodo Edo ma non solo. Ho voluto dare spazio anche ad una squisitezza regionale decisamente estiva e perfetta per contrastare la svogliatezza causata dal caldo.
La ricetta buddista darà una pennellata di tradizione e antichità mentre la ricetta contemporanea farà da sapido contraltare.

E non mancherà un dolce.

Ci sarà qualcosa per tutti: onnivori e non. Inoltre, saranno ricette sempre semplici e realizzabili senza difficoltà anche in Italia.

Quando verranno pubblicate le ricette?

Ecco il mio tasto dolente. Anni fa mi venne suggerito di mantenere un calendario editoriale: strabuzzai gli occhi e, sorpresa, risposi che l’imponderabilità dell’ispirazione non è compatibile coi rigidi requisiti di una programmazione così strutturata.

So perfettamente che queste sono chiacchiere idealiste di chi evidentemente non vive di ciò che scrive (umm, forse dovrei iniziare a pensarci però!). Tuttavia, l’ispirazione è il propulsore che anima tutto ciò che pubblico e purtroppo non riesco a incasellarla in una pianificazione calendarizzata.
Probabilmente dovrei trovare la maniera di progettare in anticipo quando sono ispirata e prestabilire delle date di pubblicazione.

Se avete dritte in merito, per favore condividetele. Vi leggerò con attenzione.

Torniamo al tasto dolente.

Le ricette sono cinque. Natsu no aji è una rubrica estiva quindi il tempo a disposizione è ben preciso.

Una ricetta a settimana.

Salvo imprevisti.

Mi leggerete?

Inari-zushi

I miei inari-zushi casalinghi

In questo secondo giorno di giugno, ho scelto di cimentarmi nella preparazione degli いなり寿司 inari-zushi, specialità della tradizione classica e con una storia ricca di aneddoti.

L’ispirazione è arrivata al ritorno, dopo tanto tempo, da Kokoro-ya. Per chi non lo conoscesse, si tratta di un piccolissimo negozio e tavola calda qui a Torino specializzato unicamente in piatti e prodotti tipici dal Giappone. In città è l’unico negozio di questo tipo. Sì, certo, abbiamo molta scelta come negozietti asiatici sparpagliati un po’ ovunque, soprattutto in quella che io chiamo affettuosamente la malconcia Chinatown torinese. Ma questi, a differenza di Kokoro-ya, generalmente propongono tutti un potpourri di sapori provenienti da varie latitudini della grande Asia: Cina continentale in pole position (priorità utilitaristica al servizio dell’enorme diaspora cinese a Torino) seguita dalle provenienze che vanno di moda: Giappone e Corea.

Mi irrita il discorso moda ma tant’è.

Ampli margini, inoltre, dedicati a Taiwan (da cui riceviamo molti alimentari d’ispirazione giapponese come gli onnipresenti mochi della marca Q) e al Borneo. Un discreto margine di spazio è dedicato anche al resto del Sud-est asiatico tra cui Tailandia, Vietnam, Cambogia, India e Pakistan.

Ma solo Kokoro-ya è l’unico ad occuparsi ancora esclusivamente di Giappone.

Kokoro-ya, in Via Piave 9/A, Torino.

Complessivamente è piuttosto costoso (motivo per cui non ci vado tanto spesso quanto vorrei) ma merita, a mio modesto parere, una visita per due ragioni:

  1. Per gli straordinari onigiri che prepara la signora Ogawa e che hanno quel sapore unico ed inconfondibile a cui il mal di Giappone inevitabilmente porta ad anelare;
  2. per l’aburaage 油揚げ ovvero il tofu fritto.
Aburaage

Incredibilmente, penso che l’aburaage a Torino si trovi unicamente da Kokoro-ya. Anzi, ne sono quasi certa.

E l’aburaage è ingrediente principe per preparare dei buoni inari-zushi.

Ci tengo a precisare che, nonostante la mia testardaggine, non sono ancora riuscita con successo a prepare un buon aburaage casalingo. Ho fatto svariati tentativi, tutti con epiloghi tra il terribile e il disastroso. Sarà mia cura riportare qui il procedimento corretto non appena lo avrò individuato.

Inari-zushi: una retromarcia nel tempo

Tipico chiosco di sushi del periodo Edo. Notare la presenza del cane. Illustrazione tratta dal libro 「江戸の食卓」Edo no shokutaku. pg. 69

Impostiamo nuovamente la macchina del tempo e facciamo un salto indietro nel passato di qualche secolo.

Nel risalire alle origini di piatti antichi ci si imbatte spesso nel grande numero di leggende e aneddoti non raramente in conflitto fra loro. Riuscire ad attribuire la paternità di un piatto ad una determinata città o persona è sempre un compito piuttosto arduo che potrebbe trasformarsi in una perdita di tempo oppure alimentare ingarbugliate diatribe già esistenti tra fazioni rivali.

Inari-zushi e la volpe, figura chiave. Fonte immagine.

Innanzitutto, cominciamo col dare una descrizione breve del piatto protagonista di oggi.

L’inari-zushi è un particolare tipo di sushi molto semplice composto da piccole polpette di riso condito (normalmente con aceto di riso e zucchero) ricoperte da un involucro di tofu fritto (aburaage), anch’esso precedentemente insaporito in un brodo molto gustoso.

Secondo alcuni storici della gastronomia giapponese, le sue origini sarebbero da rintracciare nell’antico distretto di Owari, a Nagoya, nel Giappone occidentale, nel XVIII secolo.
Ci sono varie teorie che tentano di spiegare il perché del nome. Si ritiene comunemente che ci sia un chiaro riferimento ai santuari dedicati a Inari che, nelle antiche credenze del mondo agricolo giapponese, rappresentava la divinità del florido raccolto, del grano e della fertilità. Col tempo, tuttavia, il suo culto iniziò ad essere associato all’idea di prosperità negli affari assumendo un ruolo di rilevanza nella sfera spirituale degli abitanti di Edo, luogo di crescente importanza economica.

Elementi associati ai santuari shintoisti, maschere di volpe ed illustrazione di inari-zushi. Fonte immagine.

Nel culto shintoista, l’animale che rappresenta Inari è la volpe. Le leggende del folklore giapponese narrano della passione che le volpi avrebbero per l’aburaage, alimento che proprio per questa ragione veniva comunemente lasciato come offerta votiva nei santuari.
Secondo una teoria molto diffusa, l’aggiunta del riso all’aburaage diede origine a una specialità che – proprio per l’unione che rappresenta – non avrebbe potuto non portare il nome di Inari-zushi.

Altri, invece, sostengono che il legame tra questi squisiti bocconcini e la volpe sia un fatto puramente cromatico in quanto il colore del tofu fritto ricorderebbe quello della pelliccia di questi astuti animali.

A Edo si diceva che…

Dalla nostra macchina del tempo e dell’immaginazione: veduta di una strada di Edo. Fonte immagine.

Avverto che non è molto elegante ciò che sto per riferirvi ma fa parte anche questo della quotidianità di Edo.
Ai tempi si diceva che:

「江戸名物、伊勢屋、稲荷に犬の糞」
Edo meibutsu, iseya, inari ni inu no kuso.

Secondo questo modo di dire estremamente diffuso all’epoca, era impossibile percorrere le strade di Edo senza incontrare le seguenti tre cose:

Le locande di Iseya.
Iseya era inizialmente il nome di un gruppo di botteghe (al giorno d’oggi la chiameremmo catena) appartenente ad una famiglia di Ise (Prefettura di Mie). Con l’instaurazione dello shogunato a Edo, molti commercianti provenienti dal Giappone occidentali si trasferirono nella capitale per incrementare i propri guadagni. Era consuetudine tra questi commercianti migranti del tempo dare al proprio negozio il nome della zona da cui provenivano. E tra questi nomi, Iseya (nome della città di Ise più il suffisso -ya usato per indicare le botteghe) era uno dei più famosi.
Pare, inoltre, che la maggioranza delle Iseya a Edo commerciassero in cotone, carta, olio di camelia, olio di colza.

Ancora oggi in Giappone, soprattutto a Tōkyō (così si chiama la moderna Edo) vi sono ancora molte attività con questo nome. Tra le tante, ricordo le pasticcerie tradizionali Iseya il cui sito potete visitare qui.

I santuari dedicati a Inari.
Come già precisato poc’anzi, nel pantheon shintoista Inari rappresentava inizialmente la divinità del grano, dell’agricoltura e dei raccolti abbondanti. Con lo sviluppo dell’industria e dell’economia, questa venerazione a Inari assorbì le speranze e ambizioni della nuova società feudale emergente. Il culto di Inari come divinità della fortuna negli affari, dunque, si diffuse a macchia d’olio, in particolar modo a Edo che era (ed è ancora) letteralmente tempestata dei caratteristici santuari preceduti dai torii color vermiglio.

Deiezioni canine
Il lato decisamente meno poetico ma necessario per aggiungere un tassello alla nostra comprensione di quel mondo.
Edo aveva una popolazione numerosissima di cani randagi che vagavano per la città e che, come si può ben immaginare, sporcavano le strade. Si dice che la situazione a tratti fosse così drammatica da rendere irrespirabile l’aria.
Ricordo, a tal proposito, la figura di Tokugawa Tsunayoshi, quinto shogun dello shogunato Tokugawa, passato alla storia per la sua radicale politica animalista a tutela di tutti gli esseri viventi, in particolar modo dei cani a cui era chiaramente molto affezionato. Si dice che questo suo attaccamento fosse dovuto al fatto che lui stesso era nato nell’anno del Cane e provasse, per questo motivo, una devozione quasi viscerale per questi animali.
Lo shogun Tsunayoshi (malignamente soprannominato il “regnante cane”) tentò d’intervenire sul problema dei cani randagi già a partire dagli ultimi anni del XVII secolo promulgando un editto che prevedeva una lunga serie di provvedimenti atti a proteggere questi animali e punire severamente (anche con la morte) chiunque avesse arrecato loro dolore.

Un piccolo corollario

Sul mio amatissimo libro 「江戸の食卓」Edo no shokutaku, ho trovato una sorta di corollario al tagliente modo di dire relativo alle specialità di Edo. Questa estensione ci racconta che a Edo vi fosse tre tipi di cattivi odori:
– la puzza di bruciato dovuta ai frequentissimi incendi che spesso flagellavano la capitale;
– il cattivo odore (o meglio, cattivo gusto) delle costanti risse;
– le esalazioni canine di cui sopra.

Pausa pranzo a Edo con la consueta presenza di cani randagi affamati. Tratto da (『東京名所三十六戯撰 目黒』昇斎一景 画) Thirty-six Amusing Views of Famous Places in Tokyo di Ikkei Shosai. 1872.

Differenze tra Kansai e Kantō

Anche in questo caso troviamo importanti differenze nel modo di preparare gli inari-zushi nel Giappone occidentale e in quello orientale.

Nel Kansai, ovvero nel Giappone occidentale, questi deliziosi fagotti hanno una forma triangolare e un sapore con una nota più marcata di dashi. Inoltre, tendono ad avere un colore più chiaro.
Nel Kantō, invece, hanno una forma quasi rettangolare (c’è chi dice che assomigliano ai sacchi di riso), con un sapore più marcatamente salato e dolce ed un colore più scuro.

Inari-zushi alla maniera del Kansai. Fonte immagine.
Inari-zushi alla maniera del Kantō. Fonte immagine.

Si dice che gli angoli degli inari-zushi alla maniera del Kantō ricordino le orecchie delle volpi!

Prima di passare alla ricetta, però, credo valga la pena menzionare una delle botteghe di inari-zushi più famosa di tutta Edo: Inariya di proprietà di un tale di nome 次郎右衛門 Jirō Emon, nel quartiere di Nihonbashi. Si dice che questo Jirō Emon fosse un gran chiacchierone ma anche un abile venditore tanto da riuscire a vendere quasi diecimila pezzi di inari-zushi al giorno!
Un aspetto interessante, però, dei suoi inari-zushi era il ripieno che – anziché essere di riso – era di okara ossia quella polpa bianca farinosa che è ciò che avanza dalla produzione e filtraggio del latte di soia.

Inari-zushi: la ricetta semplice di Akemi e Satsuki (stile Kantō)

Ho scelto di proporvi la ricetta degli inari-zushi di Akemi e Satsuki, le due sorelle di Chigasaki di cui vi ho parlato nell’articolo scorso, qui.

Il meraviglioso libro delle sorelle Akemi e Satsuki

Ho scelto la versione proposta dalle sue sorelle perché, come tutte le loro ricette, mira alla semplicità e alla genuinità. E per noi questo aspetto è un vantaggio perché ci permette di realizzarle senza ricorrere a ingredienti difficili da trovare.

L’unico ingrediente che purtroppo risulterà un po’ complicato da procurarsi è l’aburaage ma vi consiglio di chiedere ai negozi asiatici più forniti della vostra città oppure di acquistarlo online. Date un’occhiata al sito di Oriental Italia (ringrazio Nebayume per la segnalazione!).

Ingredienti per 4 inari-zushi:

1 porzione di riso cotto al vapore (preparatelo con 150g di riso crudo e 200ml di acqua)
1 cucchiaio di aceto di riso per sushi (è importante che sia per sushi per la nota dolce)
2 panetti di aburaage
3 cucchiai di acqua
3 cucchiai di salsa di soia
3 cucchiai di zucchero di canna

Preparazione del riso

Per il riso potete seguire tutte le istruzioni dettagliate qui. Oppure: risciacquare 150g di riso giapponese per due o tre volte e metterlo in una pentola con 200ml d’acqua fredda. Lasciarlo a bagno per almeno un quarto d’ora dopodiché metterlo a cuocere a fiamma alta mettendo il coperchio e portare ad ebollizione. Non appena sarà raggiunta l’ebollizione, abbassare la fiamma al minimo e lasciare cuocere per quindici minuti.

Preparazione del riso giapponese in pentola

Trasferire il riso cotto in un piatto largo e stenderlo delicatamente per poterlo raffreddare. Aggiungervi un cucchiaio di aceto di riso per sushi e mescolare con cura facendo attenzione a non rompere i chicchi. Fare aria con un ventaglio per aiutare il riso a raffreddarsi più velocemente.

Riso e aceto di riso per sushi

È il momento dell’aburaage

I panetti di aburaage sono piuttosto unti trattandosi, appunto, di tofu fritto. È necessario quindi sbollentarli un po’ per poter eliminare parte dell’olio in superficie.

Taglio e bollitura veloce dell’aburaage

Tagliare ogni panetto in tre come nelle foto e sbollentare i pezzi in acqua bollente per pochi secondi per lato. Ripetere l’operazione due o tre volte cambiando, ogni volta, l’acqua.

Strizzare delicatamente con le mani i pezzi di aburaage sbollentato. In un tegame mettere la salsa di soia, l’acqua e lo zucchero (tre cucchiai per ingrediente), scaldare a fiamma lenta ed immergervi l’aburaage avendo cura di lasciarli insaporire su entrambi i lati. Dopodiché trasferirli su un piatto, lasciarli raffreddare e strizzarli nuovamente facendo attenzione a non romperli.

Le estremità serviranno a creare i fagotti mentre le due parti centrali andranno tritate finemente e aggiunte al riso condito.

Tritare le due porzioni centrali di aburaage e aggiungerle al riso cotto.

Riempire le quattro estremità con abbondante riso condito e servire guarnendo, se lo si desidera, con dei semi di sesamo nero.

Ramen: ritorno a Edo e una ricetta

Nei miei continui e solitari studi dell’epoca Edo – la mia epoca storica giapponese preferita – mi ritrovo spesso ad affrontare argomenti legati alle abitudini alimentari del tempo. Qui, ad esempio, un mio articolo dedicato alla tempura (o tenpura, nella corretta traslitterazione).

Recentemente, infatti, ho avuto la possibilità di ripercorrere sommariamente la storia del ramen scoprendo, così, il suo indissolubile legame con l’epoca Edo.

Vorrei, quindi, raccontarvi qualcosa di questa gustosa relazione storico-culinaria e condividere con voi una veloce ricetta per preparare un ramen casalingo. Si tratta di una ricetta vegetariana che è possibile rendere vegana in un batter d’occhio cioè eliminando semplicemente l’uovo come guarnizione. È una ricetta speciale che ho tradotto per voi e che proviene dalla mia collezione privata di ricettari giapponesi.

Che cos’è il ramen?

Illustrazione di una scodella di ramen, nello specifico il classico チャーシュー麺 Chāshūmen. Più 定番 teiban di così non si può! Fonte.

Che cos’è il ramen? Forse è una domanda scontata poiché sembra che ultimamente anche questa parola sia entrata a far parte della lunga serie dei tormentoni gastro-modaioli. Pare essere ovunque ormai, spesso però nella solita salsa superficiale in cui si avverte il consueto nulla.

Questa è la mia definizione:

Il rāmen è un piatto della cucina giapponese di origine cinese. Fondamentalmente, è una zuppa a base di spaghetti di frumento serviti in un brodo di carne. Il piatto viene tradizionalmente guarnito con fette di carne di maiale, alghe, uova morbide marinate e alcune verdure quali il cipollotto, i germogli di soia, i メンマ menma (germogli di bambù bolliti, tagliati a fettine, fermentati, essiccati, conservati sotto sale e poi messi a bagno in acqua calda e sale), mais ecc.

Illustrazione di una tipica scodella giapponese da ramen, con il caratteristico decoro detto ギリシア雷文 girishia-raimon ovvero la greca, un elemento in grado di richiamare subito alla mente il mondo classico cinese.
Fonte dell’immagine.

Gustose molteplicità

Come tutti i piatti molto amati, anche il ramen si presenta in numerose versioni spesso legate a preferenze regionali. E ogni versione, a sua volta, solitamente possiede caratteristiche specifiche in merito al tipo di spaghetto, di brodo, di guarnizioni e così via.

Per avere un’idea della ricca varietà di ramen esistenti, consiglio a tutti di visitare il famoso Museo dei Ramen di Shin-Yokohama. Ho avuto modo di visitarlo in più occasioni trovandolo, ogni volta, decisamente affascinante. Qui un mio resoconto di una di queste visite.

È necessario anche specificare che si tratta di un piatto complesso e che si distingue per la sua preparazione lunga, laboriosa e notoriamente alla mercé di mille variabili. Dunque, nella sua forma classica non è un piatto di rapida esecuzione. Tutt’altro.

Basti pensare che in Giappone il ramen è una delle tante specialità avvolte nella tradizione e in saperi piuttosto articolati di cui sono depositari locande e ristoranti vari, dai più anonimi e nascosti a quelli di fama internazionale.

L’irresistibile flessibilità dei ramen

Questo però non significa che nel tempo non siano stati fatti tentativi per semplificarne la preparazione e per adattarla a varie preferenze alimentari. Al giorno d’oggi, infatti, esistono versioni di ramen vegetariane, vegane, halal (conforme ai precetti alimentari islamici), senza glutine, ecc.

Cito volentieri due esempi (tra i tantissimi a disposizione sull’attuale scena gastronomica giapponese) di realtà che offrono tipologie di ramen specifiche pensate per clienti con esigenze alimentari ben precise:

Il primo è Narita-ya 成田屋, locanda di Ōsaka specializzata in ramen halal, quindi dedicati ai clienti di fede musulmana. E poi Vegan Uzu di Kyōto (e con una sede anche a Tōkyō) che offre una curata varietà di ramen vegani.

Non mi addentro oltre nel mondo contemporaneo dei ramen. D’altra parte, vi ho detto che avremmo fatto ritorno a Edo quindi godiamoci una breve passeggiata lungo la Via del Ricordo e dell’Immaginazione.

Risalire la corrente …fino a Edo

Chi legge questo blog sa che ogni tanto mi piace giocare un po’ alla macchina del tempo con l’indicatore sempre impostato sullo stesso periodo storico! Ricordate il viaggio tra i profumi di Edo? Ecco qui l’articolo.

In giapponese esiste un verbo che mi piace moltissimo: 遡るsakanoboru. Significa risalire. Lo si può per indicare l’idea di rimettere insieme dei dati per giungere ad informazioni di cui siamo alla ricerca. Ma si usa anche per descrivere la risalita controcorrente dei salmoni quando, divenuti adulti, risalgono con immane fatica i fiumi per poter far ritorno al proprio luogo di nascita e deporre così le uova prima di morire.

Risalgo allora la corrente del tempo e dell’immaginazione e torno a Edo.

Proprio così. Perché sono da ricercare lì le origini del ramen. O più precisamente, nei meandri dei rapporti bilaterali tra Edo e Pechino, al tempo della Cina sotto la dinastia Ming (XVII secolo d.C.).

Si fa presto a dire che il ramen è un piatto iconico (che aggettivo indigesto!) della cucina giapponese.

Certamente ha assunto una sua forma e quasi identità indissolubilmente legati alla tavola giapponese ma non si possono negare le sue origini. D’altro canto, i ramen sono tra gli esponenti più celebri della cosiddetta 中華料理 chūka-ryōri ovvero la cucina di origine cinese, secondo una denominazione diffusasi a partire dal periodo Meiji (fine Ottocento) in avanti. Un altro esponente non meno celebre della chūka-ryōri sono i gyōza. A proposito di questi ultimi, ecco qui la mia ricetta: prima parte e seconda parte.

Mito Kōmon: tutto ebbe inizio con lui

徳川光圀 Tokugawa Mitsukuni conosciuto anche come 水戸黄門 Mito Kōmon.
Fonte immagine: 京都大学付属図書館所蔵品, Public domain, via Wikimedia Commons

Mito Kōmon è stato un daimyō del feudo di Mito, territorio che corrisponde all’odierna Prefettura di Ibaraki, situata nella zona nord-orientale della regione del Kantō.

Perché vi parlo di questo illustre signore? Perché si dice sia stato il primo ad assaggiare i ramen in Giappone!

Nell’antico Giappone, dal X secolo fino alla Restaurazione Meiji, i daimyō erano funzionari militari di grado elevato che avevano come compito il controllo e la difesa dei governatori delle varie province. Col tempo, tuttavia, questi funzionari acquisirono (molti direbbero usurparono) il loro potere fino a diventare dei signori feudali a tutto tondo.

Il nostro Mito Kōmon era di discendenza piuttosto importante; era, infatti, il nipote di nient’altri che Tokugawa Ieyasu, fondatore nonché primo shōgun dello shogunato Tokugawa, ultimo governo feudale del Giappone. Il periodo Edo ebbe inizio, secondo la storiografia ufficiale, nel 1603 anche se in realtà Tokugawa Ieyasu governava già da tre anni, prendendo potere all’indomani della famosa battaglia di Sekigahara.

Amore per la cultura e il buon cibo

Questo daimyō è passato alla storia per vari accadimenti ed iniziative di cui si è fatto promotore. Si dice che fosse molto colto ed un grande amante delle arti. Lo definiremmo una sorta di mecenate che amava circondarsi di letterati e artisti. Questo suo amore per il sapere lo incoraggiò a commissionare la realizzazione di un’opera piuttosto imponente, composta da ben cento volumi: 「大日本史」 Dainihonshi ovvero la Grande storia del Giappone.

L’opera Dainihonshi commissionata da Mito Kōmon. Immagine di 刀剣ワールド.

Molte notizie e curiosità sul suo conto si diffusero nel tempo e che restituiscono ai posteri l’immagine di un uomo istruito, probo, amante dei viaggi e della buona tavola. Pare che non tutto corrisponda al vero ma che alcuni aspetti siano stati romanzati grazie ad una lunghissima serie televisiva dedicata alla sua figura. La serie, intitolata appunto Mito Kōmon, fece il suo debutto sulla TV giapponese nel 1969 e si concluse nel 2011! Lo sceneggiato meritò comprensibilmente il titolo di 長寿番組 chōju-bangumi cioè programma longevo.
Insomma, finzione e realtà che ad un certo punto s’intrecciano e si confondono.
C’è chi sostiene, ad esempio, che non fosse un grande esempio di probità e rettitudine ma che in realtà conducesse una vita piuttosto sregolata e dedita all’epicureismo.

L’immagine idealizzata grazie soprattutto alla serie televisiva ci restituisce un Mito Kōmon (raffigurato al centro) accompagnato dalle sue due fedeli guardie del corpo durante i numerosi viaggi sempre teatro di mille eroiche gesta. Fonte immagine.

Da documenti storici pare, tuttavia, che l’amore per i viaggi sia un’invenzione ascritta al personaggio televisivo poiché sembra che si spingesse raramente oltre i confini del suo feudo.

Sia come sia, sappiamo però con un alto grado di certezza che amava la ricerca del sapere e i piaceri della buona tavola.

L’incontro con il ramen

Rielaborazione di fantasia di Mito Kōmon intento a divorare una scodella fumante di ramen! Fonte immagine.

ll nostro daimyō era fortemente attratto dallo studio del confucianesimo e non a caso era in contatto con 朱舜水 Shu Shunsui (il nome cinese è Zhu Zhiyu), eminente studioso della dottrina di Confucio nonché uno dei numerosi rifugiati politici che scapparono dalla Cina sotto la dinastia Ming per stabilirsi in pianta stabile in Giappone. Lo studioso, che discendeva da un’illustre famiglia di alti funzionari governativi e che avrebbe avuto spianata la via, divenne bersaglio di vere e proprie persecuzioni e accuse per via di una sua inclinazione alla ribellione; non era uno facilmente corruttibile e di certo non avrebbe acconsentito a chiudere un occhio davanti alle tante nefandezze di governo di cui era stato testimone.

Shu Shunsui. Fonte immagine.

E con l’accusa formale di essere un “tipo disobbediente” (Clement, p.599), Shu Shunsui scappò dal suo Paese nel cuore della notte e, dopo una serie infinita di rocambolesche avventure, riuscì a stabilirsi in maniera permanente in Giappone, a Nagasaki.

Siamo a metà del Seicento.

Un giorno, Mito Kōmon lo invitò a Edo. Sarebbe stata l’occasione perfetta per approfondire di più il discorso sul confucianesimo e sulla cultura e letteratura cinesi.

Ghiottonerie cinesi in dono

Lo studioso accettò e si recò a Edo con una serie di doni, incluse varie prelibatezze che era riuscito a farsi mandare dalla Cina. E con chissà quanta difficoltà!

Sappiamo, ad esempio, che tra gli alimenti che Shu Shunsui preparò per il daimyō ci furono radici di ginseng coreano, il pepe nero, spezie ed erbe medicinali varie. C’erano anche i cetrioli di mare, una determinata varietà di salamandra (che guarda caso è ancora piuttosto diffusa nei torrenti e fiumi del Giappone sud-occidentale), del miele.

C’erano anche tanti altri ingredienti che lo studioso utilizzò per preparare il necessario per il ramen!

Il ramen dell’epoca, però, si dice fosse abbastanza diverso da quello che conosciamo. Tanto per cominciare, gli spaghetti erano più spessi e somigliavano molto agli udon. Inoltre, anziché essere fatti di farina di frumento, erano preparati con farina di radice di loto.
Dai documenti storici, inoltre, apprendiamo che il brodo veniva realizzato con dello stinco di maiale e sale. Il brodo veniva poi insaporito con aglio, erba cipollina cinese, pepe di Sichuan, spezie medicinali e l’immancabile miscela delle famose cinque spezie cinesi ossia: anice stellato, chiodi di garofano, cannella, pepe di Sichuan e semi di finocchio.

La celebre miscela delle cinque spezie cinesi. In giapponese è nota col nome di 五香粉 gokōfun. Fonte immagine.

Purtroppo non abbiamo notizie della cena e di cosa ne abbia pensato il nostro Mito Kōmon di tutti i doni gastronomici ricevuti dal suo maestro nonché amico, Shu Shunsui.

Tuttavia, il ramen sarebbe rimasto dietro le quinte, appannaggio dei circoli più esclusivi fino al 1923 ovvero l’anno del Grande Terremoto del Kantō (大震災 daishinsai).

Da un ricettario della mia collezione

Come precisato all’inizio, la complessità della ricetta tradizionale (erede sicuramente di quella di Shu Shunsui) non ha però impedito a numerose versioni più avvicinabili di emergere. Tra queste, ci sono le versioni casalinghe alla mano, come ad esempio la mia dei ramen al brodo di manzo. Vi lascio la ricetta qui del mio articolo Ramen Biyori.

Tra le versioni più alla buona vanno annoverate anche quelle vegetariane e vegane che richiedono generalmente preparazioni non troppo articolate.

Ed è proprio una di queste ricette che vorrei proporvi. È una ricetta tratta da questo ricettario della mia collezione:

「おばあちゃんの精進ごはん」Obāchan no shōjin gohan. La cucina buddista della nonna.

Uno straordinario ricettario, il primo di due volumi, che trovai casualmente in una delle mie tante ricerche notturne nell’infinito ed emozionante mondo editoriale giapponese.

Le autrici (le due signore sulla copertina, Akemi e Satsuki, sono due sorelle che abitano nella cittadina di Chigasaki, nel Kanagawa. Cittadina che conosco bene perché lì insegnavo italiano a Ikuko, una misteriosa pianista. Perché misteriosa? Ve lo racconterò in seguito.
Le due signore gestiscono una sorta di agriturismo con dei prodotti della terra e un ricco calendario di attività, workshop e corsi dedicati alla cucina naturale.

La filosofia del libro si ispira alla 精進料理 shōjin-ryōri, ovvero la cucina classica buddista dei monaci zen. Tuttavia, nel titolo la parola ryōri (cucina) viene sostituita dalla parola gohan (riso e, per estensione, pasto) per distinguerla dalla cucina buddista originale che è strettamente vegana. Le due sorelle non usano né carne né pesce nelle ricette ma ogni tanto (e con grande parsimonia) compaiono alcuni ingredienti come le uova e il formaggio.

Ricetta semplice: ramen in brodo di soia (Shōyu-rāmen)

Ingredienti per 1 persona:

1 matassa di spaghetti per ramen (ma potete usare ciò che avete)
2 cucchiai di salsa di soia
1 cucchiaio di olio di sesamo tostato (mi raccomando, usate quello tostato!)
acqua calda q.b.
1 cucchiaino di brodo di alga konbu (potete usare il granulare come ho fatto io)
1 cucchiaino di zenzero tritato fresco
sale e pepe q.b.
GUARNIZIONI:
Uova marinate (facoltativo. Escluderle se si vuole fare una versione vegana)
cipollotto tritato
Spinaci bolliti e strizzati

Gli ingredienti necessari

Preparazione delle uova marinate (facoltativo)

Per le uova marinate (味付け玉子 ajitsuke-tamago) potete seguire il procedimento che trovate nella mia ricetta dei ramen alla carne oppure il metodo che riporto qui di seguito:

Ingredienti per le uova marinate

Per preparare le uova marinate, potete procedere in questo modo:

Fasi della preparazione delle uova marinate

Mettere a bollire dell’acqua a cui aggiungete un pizzico di sale e un goccio di aceto. Questi due ultimi ingredienti faciliteranno la rimozione del guscio. Quando l’acqua inizierà a bollire, versare delicatamente le uova e lasciarle bollire per 7 minuti esatti dopodiché trasferirle in acqua fredda e sgusciarle facendo attenzione a non rovinarle.
In un tegame, versare 100ml di brodo di alga konbu (se non l’avete, usate solo acqua), 1 cucchiaio di salsa di soia, 1 cucchiaino di zucchero e portare ad ebollizione. Abbassare la fiamma, aggiungere le uova sgusciate e lasciarle sobbollire per un minuto. Spegnere e lasciar raffreddare.

Conclusione ricetta

Fasi conclusive della ricetta

In un pentolino di acqua bollente, mettere a cuocere i ramen per il tempo indicato sulla confezione. In un altro tegame, mettere a bollire 300ml d’acqua circa; questi serviranno per il brodo.

Nel frattempo, in una scodella capiente versare la salsa di soia, l’olio di sesamo, il granulare di konbu (se non l’avete, usatene uno di verdure), lo zenzero grattugiato, il sale e il pepe.

Scolate i ramen e trasferiteli nella scodella col condimento. E concludete versandovi sopra i 300ml d’acqua bollente.

Mescolate delicatamente e guarnite con cipollotto, spinaci, l’uovo marinato o ciò che preferite.

Fonti: Chinese Refugees of the Seventeenth Century in Japan, Ernest W. Clement M.A., p. 599
「江戸の食卓」Edo no shokutaku. Kawade Shobo Shinsha, 2007.
「おばあちゃんの精進ごはん」Obāchan no shōjin gohan. Iori 暁美と五月. Momobook Publishing.

Onigiri di coste

Torino in uno strabiliante sabato di maggio

Siamo già nel cuore di maggio. Piogge capricciose si alternano a giorni di sole abbagliante e tutto ha già il sapore dell’estate. Imponenti cumulonembi fluttuavano su un cielo blu clematide e facevano proprio pensare a quegli sfolgoranti cieli estivi quando l’aria è rovente, il Po langue, le cicale friniscono con ardore e per un attimo si ritorna fanciulli. Ma proprio solo per una frazione di un luminoso secondo.
Poi si torna grandi e in quel dipinto maestoso nel cielo si stemperano le malinconie e i sospiri.

Fantasticheria di maggio

La superficie del fiume, come lo specchio di Alice, riflette il cielo e sembra custodire un mondo capovolto.

Il sabato, per me, è giorno di ritorno nella mia Asia torinese. Un puntuale appuntamento a cui non rinuncio spesso. Luogo vibrante ove convergono energie, speranze, sogni realizzati ed infranti. Lì vi si percepisce la disperazione, l’ingegno aguzzato dalla necessità, la lenta ed inesorabile quotidianità sempre diversa e sempre così assurdamente uguale. È lì che può capitarti di finire, in maniera del tutto fortuita (o forse no?) alla Pescheria Wang, negozio nascosto nel cuore più profondo di Porta Palazzo: Piazza Don Paolo Albera.
E allora entri e vieni immediatamente travolto dall’inconfondibile odore di Asia. Quella fragranza pungente che sa di molluschi, frutti tropicali, foglie di tè e unguenti medicinali.
Quell’odore che ti penetra nell’anima e non ti abbandona più. Quell’odore che si mescola al vivace trambusto e al vociare in un idioma di cui cogli solo un sapore di consuetudine.

Mi oriento in quel dedalo di colori, profumi e logogrammi che mi parlano attraverso il giapponese. Mi giro e vedo straordinari mangostani malesi e jackfruit tailandesi.

È un mondo così bizzarramente familiare.

Qui cercavo l’Asia quando non sapevo nemmeno cosa fosse. E poi l’avrei trovata per davvero e ritrovata mille volte ancora, nel mio punto di partenza, nella mia personalissima estremità del cerchio.

Dalle valli canavesani

Da amici con il privilegio di avere delle terre nel Canavese – storico territorio piemontese situato tra Torino, la Val d’Aosta, il Biellese e il Vercellese – ho ricevuto in dono delle verdure freschissime. Tra queste, delle meravigliose coste (o bietole da costa, che dir si voglia).

Associo, come molti forse, il profumo e il sapore delle coste a quello vigoroso del limone. Per me le coste hanno il sapore della cucina spoglia ed essenziale di mia nonna Maria Teresa che – contrariamente all’immagine idealizzata della nonna – ha sempre detestato cucinare.

Avrei potuto, quasi meccanicamente, riscoprire il sapore delle coste al limone e riassaggiare quei gusti non complicati che – al netto di tanti epicurei sofismi – riescono immancabilmente a smuovere qualcosa nel profondo.

Però ho voluto dedicare la bellezza di questi ortaggi così genuini e brillanti al mio grande amore per la cucina giapponese.

E così ho preparato i スイスチャードのおにぎり Suisuchādo no onigiri ossia onigiri di coste.

Illustrazione di deliziosi onigiri di coste. Fonte.

Gli onigiri sono uno dei tanti argomenti di cui scritto tanto negli anni. Ma così tanto da non ricordare nemmeno quanto. Tra gli scritti degli ultimi anni, vi consiglio questo. O se volete fare un bel salto indietro nel tempo, allora questo.

Gli onigiri, in poche e spoglie parole, sono delle polpette di riso che sono spesso (ma non sempre) farcite in vario modo. Rappresentano uno dei soul food giapponesi. Va assaggiato e compreso a livello quasi di anima, pena il totale fraintendimento e la sua ingiusta relegazione a cibo insulso e noioso.

Per dare il giusto risalto a queste squisite verdure canavesane, ho scelto quindi di preparare degli onigiri avvolti nelle foglie di coste anziché nel classico foglio di alga nori.

In Giappone questo ortaggio è conosciuto prevalentemente col nome europeo di スイスチャード Suisu-chādo (che all’incirca significa bietola svizzera). Sono note anche col nome cinese di フダンソウ fudansō.

Illustrazione di coste o biete svizzere, come le chiamano i giapponesi. Fonte.

Ricetta: onigiri di coste

La ricetta che condividerò è di una semplicità disarmante ma di un discreto effetto coreografico.

Questi onigiri deliziosi si prestano a molte modifiche in base ai vostri gusti e sono perfetti per un picnic, uno spuntino, un pranzo veloce oppure per riempire il vostro obentō.

Vediamo subito gli ingredienti:

Per 6 onigiri:

6 coste, ben lavate
300g di riso cotto*
sesamo nero o bianco q.b.
Furikake (facoltativo)

*Per la ricetta vi servono 300g di riso cotto che si preparano con 150g di riso giapponese crudo e circa 230ml d’acqua. Se desiderate le indicazioni per la preparazione del riso giapponese al vapore vi rimando qui. Per la spiegazione rapida: lavare il riso tre o quattro volte, metterlo in un tegame con la quantità indicata d’acqua. Chiudere il coperchio, portare ad ebollizione a fiamma alta e – non appena inizierà il bollore – abbassare la fiamma al minimo e lasciar cuocere per 15 minuti circa. Non aprire il coperchio durante la cottura.

Nei miei giri in solitaria per l’Asia torinese, ho trovato con mia somma sorpresa del riso koshihikari Wadachi, proveniente dalla prefettura di Nīgata!

Preparazione delle coste

  1. Scegliere coste con foglie integre e gambo. Lavarle molto bene e scottarle in acqua bollente salata per dieci secondi al massimo. Scolarle delicatamente e asciugarle una ad una facendo attenzione a non romperle. Tagliare i gambi e metterli da parte.

2. Disporre le foglie, che avrete precedentemente tamponato con delicatezza, sopra un piatto.
Tagliare i gambi per lungo a strisce sottili e tagliuzzarli finemente.

Preparazione del riso

3. Trasferire il riso cotto caldo in un recipiente e aggiungere i gambi tritati, del sesamo a piacere, un po’ di furikake a vostra scelta. Se non avete il furikake, potete condire con del pepe, un po’ di sale, un pizzico di peperoncino, ecc. Mescolare bene con un cucchiaio di legno facendo attenzione a non rompere i chicchi.
Dividere il riso in 6 porzioni uguali.
Potete ora formare le palline di riso con le mani oppure, se avete paura di fare pasticci, aiutandovi con della pellicola per alimenti: basterà posizionare ogni porzione di riso su un pezzo di pellicola che chiuderete fino a formare una pallina.

Preparazione degli onigiri

4. Arriviamo al momento conclusivo. Anche per questa operazione potete aiutarvi con della pellicola per alimenti se avete paura di fare guai.
Con garbo, stendere una foglia di costa per volta e posizionare al centro una pallina di riso. Con molta delicatezza, iniziare a coprire il riso piegando la foglia dall’alto, poi dal basso e infine le parti laterali.
Proseguire così con gli ingredienti restanti.

Condividere è voler bene

Sharing is caring – dicono gli inglesi. In effetti, la condivisione è un gesto di affetto verso gli altri. E vale certamente anche per gli onigiri che, secondo una curiosa teoria, sono più buoni quando sono gli altri a prepararteli. Nel Giappone orientale, quindi anche dove abitavo io, si preferisce il termine おむすび omusubi mentre おにぎり onigiri pare essere più diffuso nella parte occidentale. E non è un caso, forse, che omusubi derivi dal verbo musubu che significa legare, collegare, unire, …quasi a voler rimarcare il suggellamento di un legame di cuore.

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