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Ramen: ritorno a Edo e una ricetta

Nei miei continui e solitari studi dell’epoca Edo – la mia epoca storica giapponese preferita – mi ritrovo spesso ad affrontare argomenti legati alle abitudini alimentari del tempo. Qui, ad esempio, un mio articolo dedicato alla tempura (o tenpura, nella corretta traslitterazione).

Recentemente, infatti, ho avuto la possibilità di ripercorrere sommariamente la storia del ramen scoprendo, così, il suo indissolubile legame con l’epoca Edo.

Vorrei, quindi, raccontarvi qualcosa di questa gustosa relazione storico-culinaria e condividere con voi una veloce ricetta per preparare un ramen casalingo. Si tratta di una ricetta vegetariana che è possibile rendere vegana in un batter d’occhio cioè eliminando semplicemente l’uovo come guarnizione. È una ricetta speciale che ho tradotto per voi e che proviene dalla mia collezione privata di ricettari giapponesi.

Che cos’è il ramen?

Illustrazione di una scodella di ramen, nello specifico il classico チャーシュー麺 Chāshūmen. Più 定番 teiban di così non si può! Fonte.

Che cos’è il ramen? Forse è una domanda scontata poiché sembra che ultimamente anche questa parola sia entrata a far parte della lunga serie dei tormentoni gastro-modaioli. Pare essere ovunque ormai, spesso però nella solita salsa superficiale in cui si avverte il consueto nulla.

Questa è la mia definizione:

Il rāmen è un piatto della cucina giapponese di origine cinese. Fondamentalmente, è una zuppa a base di spaghetti di frumento serviti in un brodo di carne. Il piatto viene tradizionalmente guarnito con fette di carne di maiale, alghe, uova morbide marinate e alcune verdure quali il cipollotto, i germogli di soia, i メンマ menma (germogli di bambù bolliti, tagliati a fettine, fermentati, essiccati, conservati sotto sale e poi messi a bagno in acqua calda e sale), mais ecc.

Illustrazione di una tipica scodella giapponese da ramen, con il caratteristico decoro detto ギリシア雷文 girishia-raimon ovvero la greca, un elemento in grado di richiamare subito alla mente il mondo classico cinese.
Fonte dell’immagine.

Gustose molteplicità

Come tutti i piatti molto amati, anche il ramen si presenta in numerose versioni spesso legate a preferenze regionali. E ogni versione, a sua volta, solitamente possiede caratteristiche specifiche in merito al tipo di spaghetto, di brodo, di guarnizioni e così via.

Per avere un’idea della ricca varietà di ramen esistenti, consiglio a tutti di visitare il famoso Museo dei Ramen di Shin-Yokohama. Ho avuto modo di visitarlo in più occasioni trovandolo, ogni volta, decisamente affascinante. Qui un mio resoconto di una di queste visite.

È necessario anche specificare che si tratta di un piatto complesso e che si distingue per la sua preparazione lunga, laboriosa e notoriamente alla mercé di mille variabili. Dunque, nella sua forma classica non è un piatto di rapida esecuzione. Tutt’altro.

Basti pensare che in Giappone il ramen è una delle tante specialità avvolte nella tradizione e in saperi piuttosto articolati di cui sono depositari locande e ristoranti vari, dai più anonimi e nascosti a quelli di fama internazionale.

L’irresistibile flessibilità dei ramen

Questo però non significa che nel tempo non siano stati fatti tentativi per semplificarne la preparazione e per adattarla a varie preferenze alimentari. Al giorno d’oggi, infatti, esistono versioni di ramen vegetariane, vegane, halal (conforme ai precetti alimentari islamici), senza glutine, ecc.

Cito volentieri due esempi (tra i tantissimi a disposizione sull’attuale scena gastronomica giapponese) di realtà che offrono tipologie di ramen specifiche pensate per clienti con esigenze alimentari ben precise:

Il primo è Narita-ya 成田屋, locanda di Ōsaka specializzata in ramen halal, quindi dedicati ai clienti di fede musulmana. E poi Vegan Uzu di Kyōto (e con una sede anche a Tōkyō) che offre una curata varietà di ramen vegani.

Non mi addentro oltre nel mondo contemporaneo dei ramen. D’altra parte, vi ho detto che avremmo fatto ritorno a Edo quindi godiamoci una breve passeggiata lungo la Via del Ricordo e dell’Immaginazione.

Risalire la corrente …fino a Edo

Chi legge questo blog sa che ogni tanto mi piace giocare un po’ alla macchina del tempo con l’indicatore sempre impostato sullo stesso periodo storico! Ricordate il viaggio tra i profumi di Edo? Ecco qui l’articolo.

In giapponese esiste un verbo che mi piace moltissimo: 遡るsakanoboru. Significa risalire. Lo si può per indicare l’idea di rimettere insieme dei dati per giungere ad informazioni di cui siamo alla ricerca. Ma si usa anche per descrivere la risalita controcorrente dei salmoni quando, divenuti adulti, risalgono con immane fatica i fiumi per poter far ritorno al proprio luogo di nascita e deporre così le uova prima di morire.

Risalgo allora la corrente del tempo e dell’immaginazione e torno a Edo.

Proprio così. Perché sono da ricercare lì le origini del ramen. O più precisamente, nei meandri dei rapporti bilaterali tra Edo e Pechino, al tempo della Cina sotto la dinastia Ming (XVII secolo d.C.).

Si fa presto a dire che il ramen è un piatto iconico (che aggettivo indigesto!) della cucina giapponese.

Certamente ha assunto una sua forma e quasi identità indissolubilmente legati alla tavola giapponese ma non si possono negare le sue origini. D’altro canto, i ramen sono tra gli esponenti più celebri della cosiddetta 中華料理 chūka-ryōri ovvero la cucina di origine cinese, secondo una denominazione diffusasi a partire dal periodo Meiji (fine Ottocento) in avanti. Un altro esponente non meno celebre della chūka-ryōri sono i gyōza. A proposito di questi ultimi, ecco qui la mia ricetta: prima parte e seconda parte.

Mito Kōmon: tutto ebbe inizio con lui

徳川光圀 Tokugawa Mitsukuni conosciuto anche come 水戸黄門 Mito Kōmon.
Fonte immagine: 京都大学付属図書館所蔵品, Public domain, via Wikimedia Commons

Mito Kōmon è stato un daimyō del feudo di Mito, territorio che corrisponde all’odierna Prefettura di Ibaraki, situata nella zona nord-orientale della regione del Kantō.

Perché vi parlo di questo illustre signore? Perché si dice sia stato il primo ad assaggiare i ramen in Giappone!

Nell’antico Giappone, dal X secolo fino alla Restaurazione Meiji, i daimyō erano funzionari militari di grado elevato che avevano come compito il controllo e la difesa dei governatori delle varie province. Col tempo, tuttavia, questi funzionari acquisirono (molti direbbero usurparono) il loro potere fino a diventare dei signori feudali a tutto tondo.

Il nostro Mito Kōmon era di discendenza piuttosto importante; era, infatti, il nipote di nient’altri che Tokugawa Ieyasu, fondatore nonché primo shōgun dello shogunato Tokugawa, ultimo governo feudale del Giappone. Il periodo Edo ebbe inizio, secondo la storiografia ufficiale, nel 1603 anche se in realtà Tokugawa Ieyasu governava già da tre anni, prendendo potere all’indomani della famosa battaglia di Sekigahara.

Amore per la cultura e il buon cibo

Questo daimyō è passato alla storia per vari accadimenti ed iniziative di cui si è fatto promotore. Si dice che fosse molto colto ed un grande amante delle arti. Lo definiremmo una sorta di mecenate che amava circondarsi di letterati e artisti. Questo suo amore per il sapere lo incoraggiò a commissionare la realizzazione di un’opera piuttosto imponente, composta da ben cento volumi: 「大日本史」 Dainihonshi ovvero la Grande storia del Giappone.

L’opera Dainihonshi commissionata da Mito Kōmon. Immagine di 刀剣ワールド.

Molte notizie e curiosità sul suo conto si diffusero nel tempo e che restituiscono ai posteri l’immagine di un uomo istruito, probo, amante dei viaggi e della buona tavola. Pare che non tutto corrisponda al vero ma che alcuni aspetti siano stati romanzati grazie ad una lunghissima serie televisiva dedicata alla sua figura. La serie, intitolata appunto Mito Kōmon, fece il suo debutto sulla TV giapponese nel 1969 e si concluse nel 2011! Lo sceneggiato meritò comprensibilmente il titolo di 長寿番組 chōju-bangumi cioè programma longevo.
Insomma, finzione e realtà che ad un certo punto s’intrecciano e si confondono.
C’è chi sostiene, ad esempio, che non fosse un grande esempio di probità e rettitudine ma che in realtà conducesse una vita piuttosto sregolata e dedita all’epicureismo.

L’immagine idealizzata grazie soprattutto alla serie televisiva ci restituisce un Mito Kōmon (raffigurato al centro) accompagnato dalle sue due fedeli guardie del corpo durante i numerosi viaggi sempre teatro di mille eroiche gesta. Fonte immagine.

Da documenti storici pare, tuttavia, che l’amore per i viaggi sia un’invenzione ascritta al personaggio televisivo poiché sembra che si spingesse raramente oltre i confini del suo feudo.

Sia come sia, sappiamo però con un alto grado di certezza che amava la ricerca del sapere e i piaceri della buona tavola.

L’incontro con il ramen

Rielaborazione di fantasia di Mito Kōmon intento a divorare una scodella fumante di ramen! Fonte immagine.

ll nostro daimyō era fortemente attratto dallo studio del confucianesimo e non a caso era in contatto con 朱舜水 Shu Shunsui (il nome cinese è Zhu Zhiyu), eminente studioso della dottrina di Confucio nonché uno dei numerosi rifugiati politici che scapparono dalla Cina sotto la dinastia Ming per stabilirsi in pianta stabile in Giappone. Lo studioso, che discendeva da un’illustre famiglia di alti funzionari governativi e che avrebbe avuto spianata la via, divenne bersaglio di vere e proprie persecuzioni e accuse per via di una sua inclinazione alla ribellione; non era uno facilmente corruttibile e di certo non avrebbe acconsentito a chiudere un occhio davanti alle tante nefandezze di governo di cui era stato testimone.

Shu Shunsui. Fonte immagine.

E con l’accusa formale di essere un “tipo disobbediente” (Clement, p.599), Shu Shunsui scappò dal suo Paese nel cuore della notte e, dopo una serie infinita di rocambolesche avventure, riuscì a stabilirsi in maniera permanente in Giappone, a Nagasaki.

Siamo a metà del Seicento.

Un giorno, Mito Kōmon lo invitò a Edo. Sarebbe stata l’occasione perfetta per approfondire di più il discorso sul confucianesimo e sulla cultura e letteratura cinesi.

Ghiottonerie cinesi in dono

Lo studioso accettò e si recò a Edo con una serie di doni, incluse varie prelibatezze che era riuscito a farsi mandare dalla Cina. E con chissà quanta difficoltà!

Sappiamo, ad esempio, che tra gli alimenti che Shu Shunsui preparò per il daimyō ci furono radici di ginseng coreano, il pepe nero, spezie ed erbe medicinali varie. C’erano anche i cetrioli di mare, una determinata varietà di salamandra (che guarda caso è ancora piuttosto diffusa nei torrenti e fiumi del Giappone sud-occidentale), del miele.

C’erano anche tanti altri ingredienti che lo studioso utilizzò per preparare il necessario per il ramen!

Il ramen dell’epoca, però, si dice fosse abbastanza diverso da quello che conosciamo. Tanto per cominciare, gli spaghetti erano più spessi e somigliavano molto agli udon. Inoltre, anziché essere fatti di farina di frumento, erano preparati con farina di radice di loto.
Dai documenti storici, inoltre, apprendiamo che il brodo veniva realizzato con dello stinco di maiale e sale. Il brodo veniva poi insaporito con aglio, erba cipollina cinese, pepe di Sichuan, spezie medicinali e l’immancabile miscela delle famose cinque spezie cinesi ossia: anice stellato, chiodi di garofano, cannella, pepe di Sichuan e semi di finocchio.

La celebre miscela delle cinque spezie cinesi. In giapponese è nota col nome di 五香粉 gokōfun. Fonte immagine.

Purtroppo non abbiamo notizie della cena e di cosa ne abbia pensato il nostro Mito Kōmon di tutti i doni gastronomici ricevuti dal suo maestro nonché amico, Shu Shunsui.

Tuttavia, il ramen sarebbe rimasto dietro le quinte, appannaggio dei circoli più esclusivi fino al 1923 ovvero l’anno del Grande Terremoto del Kantō (大震災 daishinsai).

Da un ricettario della mia collezione

Come precisato all’inizio, la complessità della ricetta tradizionale (erede sicuramente di quella di Shu Shunsui) non ha però impedito a numerose versioni più avvicinabili di emergere. Tra queste, ci sono le versioni casalinghe alla mano, come ad esempio la mia dei ramen al brodo di manzo. Vi lascio la ricetta qui del mio articolo Ramen Biyori.

Tra le versioni più alla buona vanno annoverate anche quelle vegetariane e vegane che richiedono generalmente preparazioni non troppo articolate.

Ed è proprio una di queste ricette che vorrei proporvi. È una ricetta tratta da questo ricettario della mia collezione:

「おばあちゃんの精進ごはん」Obāchan no shōjin gohan. La cucina buddista della nonna.

Uno straordinario ricettario, il primo di due volumi, che trovai casualmente in una delle mie tante ricerche notturne nell’infinito ed emozionante mondo editoriale giapponese.

Le autrici (le due signore sulla copertina, Akemi e Satsuki, sono due sorelle che abitano nella cittadina di Chigasaki, nel Kanagawa. Cittadina che conosco bene perché lì insegnavo italiano a Ikuko, una misteriosa pianista. Perché misteriosa? Ve lo racconterò in seguito.
Le due signore gestiscono una sorta di agriturismo con dei prodotti della terra e un ricco calendario di attività, workshop e corsi dedicati alla cucina naturale.

La filosofia del libro si ispira alla 精進料理 shōjin-ryōri, ovvero la cucina classica buddista dei monaci zen. Tuttavia, nel titolo la parola ryōri (cucina) viene sostituita dalla parola gohan (riso e, per estensione, pasto) per distinguerla dalla cucina buddista originale che è strettamente vegana. Le due sorelle non usano né carne né pesce nelle ricette ma ogni tanto (e con grande parsimonia) compaiono alcuni ingredienti come le uova e il formaggio.

Ricetta semplice: ramen in brodo di soia (Shōyu-rāmen)

Ingredienti per 1 persona:

1 matassa di spaghetti per ramen (ma potete usare ciò che avete)
2 cucchiai di salsa di soia
1 cucchiaio di olio di sesamo tostato (mi raccomando, usate quello tostato!)
acqua calda q.b.
1 cucchiaino di brodo di alga konbu (potete usare il granulare come ho fatto io)
1 cucchiaino di zenzero tritato fresco
sale e pepe q.b.
GUARNIZIONI:
Uova marinate (facoltativo. Escluderle se si vuole fare una versione vegana)
cipollotto tritato
Spinaci bolliti e strizzati

Gli ingredienti necessari

Preparazione delle uova marinate (facoltativo)

Per le uova marinate (味付け玉子 ajitsuke-tamago) potete seguire il procedimento che trovate nella mia ricetta dei ramen alla carne oppure il metodo che riporto qui di seguito:

Ingredienti per le uova marinate

Per preparare le uova marinate, potete procedere in questo modo:

Fasi della preparazione delle uova marinate

Mettere a bollire dell’acqua a cui aggiungete un pizzico di sale e un goccio di aceto. Questi due ultimi ingredienti faciliteranno la rimozione del guscio. Quando l’acqua inizierà a bollire, versare delicatamente le uova e lasciarle bollire per 7 minuti esatti dopodiché trasferirle in acqua fredda e sgusciarle facendo attenzione a non rovinarle.
In un tegame, versare 100ml di brodo di alga konbu (se non l’avete, usate solo acqua), 1 cucchiaio di salsa di soia, 1 cucchiaino di zucchero e portare ad ebollizione. Abbassare la fiamma, aggiungere le uova sgusciate e lasciarle sobbollire per un minuto. Spegnere e lasciar raffreddare.

Conclusione ricetta

Fasi conclusive della ricetta

In un pentolino di acqua bollente, mettere a cuocere i ramen per il tempo indicato sulla confezione. In un altro tegame, mettere a bollire 300ml d’acqua circa; questi serviranno per il brodo.

Nel frattempo, in una scodella capiente versare la salsa di soia, l’olio di sesamo, il granulare di konbu (se non l’avete, usatene uno di verdure), lo zenzero grattugiato, il sale e il pepe.

Scolate i ramen e trasferiteli nella scodella col condimento. E concludete versandovi sopra i 300ml d’acqua bollente.

Mescolate delicatamente e guarnite con cipollotto, spinaci, l’uovo marinato o ciò che preferite.

Fonti: Chinese Refugees of the Seventeenth Century in Japan, Ernest W. Clement M.A., p. 599
「江戸の食卓」Edo no shokutaku. Kawade Shobo Shinsha, 2007.
「おばあちゃんの精進ごはん」Obāchan no shōjin gohan. Iori 暁美と五月. Momobook Publishing.

Onigiri di coste

Torino in uno strabiliante sabato di maggio

Siamo già nel cuore di maggio. Piogge capricciose si alternano a giorni di sole abbagliante e tutto ha già il sapore dell’estate. Imponenti cumulonembi fluttuavano su un cielo blu clematide e facevano proprio pensare a quegli sfolgoranti cieli estivi quando l’aria è rovente, il Po langue, le cicale friniscono con ardore e per un attimo si ritorna fanciulli. Ma proprio solo per una frazione di un luminoso secondo.
Poi si torna grandi e in quel dipinto maestoso nel cielo si stemperano le malinconie e i sospiri.

Fantasticheria di maggio

La superficie del fiume, come lo specchio di Alice, riflette il cielo e sembra custodire un mondo capovolto.

Il sabato, per me, è giorno di ritorno nella mia Asia torinese. Un puntuale appuntamento a cui non rinuncio spesso. Luogo vibrante ove convergono energie, speranze, sogni realizzati ed infranti. Lì vi si percepisce la disperazione, l’ingegno aguzzato dalla necessità, la lenta ed inesorabile quotidianità sempre diversa e sempre così assurdamente uguale. È lì che può capitarti di finire, in maniera del tutto fortuita (o forse no?) alla Pescheria Wang, negozio nascosto nel cuore più profondo di Porta Palazzo: Piazza Don Paolo Albera.
E allora entri e vieni immediatamente travolto dall’inconfondibile odore di Asia. Quella fragranza pungente che sa di molluschi, frutti tropicali, foglie di tè e unguenti medicinali.
Quell’odore che ti penetra nell’anima e non ti abbandona più. Quell’odore che si mescola al vivace trambusto e al vociare in un idioma di cui cogli solo un sapore di consuetudine.

Mi oriento in quel dedalo di colori, profumi e logogrammi che mi parlano attraverso il giapponese. Mi giro e vedo straordinari mangostani malesi e jackfruit tailandesi.

È un mondo così bizzarramente familiare.

Qui cercavo l’Asia quando non sapevo nemmeno cosa fosse. E poi l’avrei trovata per davvero e ritrovata mille volte ancora, nel mio punto di partenza, nella mia personalissima estremità del cerchio.

Dalle valli canavesani

Da amici con il privilegio di avere delle terre nel Canavese – storico territorio piemontese situato tra Torino, la Val d’Aosta, il Biellese e il Vercellese – ho ricevuto in dono delle verdure freschissime. Tra queste, delle meravigliose coste (o bietole da costa, che dir si voglia).

Associo, come molti forse, il profumo e il sapore delle coste a quello vigoroso del limone. Per me le coste hanno il sapore della cucina spoglia ed essenziale di mia nonna Maria Teresa che – contrariamente all’immagine idealizzata della nonna – ha sempre detestato cucinare.

Avrei potuto, quasi meccanicamente, riscoprire il sapore delle coste al limone e riassaggiare quei gusti non complicati che – al netto di tanti epicurei sofismi – riescono immancabilmente a smuovere qualcosa nel profondo.

Però ho voluto dedicare la bellezza di questi ortaggi così genuini e brillanti al mio grande amore per la cucina giapponese.

E così ho preparato i スイスチャードのおにぎり Suisuchādo no onigiri ossia onigiri di coste.

Illustrazione di deliziosi onigiri di coste. Fonte.

Gli onigiri sono uno dei tanti argomenti di cui scritto tanto negli anni. Ma così tanto da non ricordare nemmeno quanto. Tra gli scritti degli ultimi anni, vi consiglio questo. O se volete fare un bel salto indietro nel tempo, allora questo.

Gli onigiri, in poche e spoglie parole, sono delle polpette di riso che sono spesso (ma non sempre) farcite in vario modo. Rappresentano uno dei soul food giapponesi. Va assaggiato e compreso a livello quasi di anima, pena il totale fraintendimento e la sua ingiusta relegazione a cibo insulso e noioso.

Per dare il giusto risalto a queste squisite verdure canavesane, ho scelto quindi di preparare degli onigiri avvolti nelle foglie di coste anziché nel classico foglio di alga nori.

In Giappone questo ortaggio è conosciuto prevalentemente col nome europeo di スイスチャード Suisu-chādo (che all’incirca significa bietola svizzera). Sono note anche col nome cinese di フダンソウ fudansō.

Illustrazione di coste o biete svizzere, come le chiamano i giapponesi. Fonte.

Ricetta: onigiri di coste

La ricetta che condividerò è di una semplicità disarmante ma di un discreto effetto coreografico.

Questi onigiri deliziosi si prestano a molte modifiche in base ai vostri gusti e sono perfetti per un picnic, uno spuntino, un pranzo veloce oppure per riempire il vostro obentō.

Vediamo subito gli ingredienti:

Per 6 onigiri:

6 coste, ben lavate
300g di riso cotto*
sesamo nero o bianco q.b.
Furikake (facoltativo)

*Per la ricetta vi servono 300g di riso cotto che si preparano con 150g di riso giapponese crudo e circa 230ml d’acqua. Se desiderate le indicazioni per la preparazione del riso giapponese al vapore vi rimando qui. Per la spiegazione rapida: lavare il riso tre o quattro volte, metterlo in un tegame con la quantità indicata d’acqua. Chiudere il coperchio, portare ad ebollizione a fiamma alta e – non appena inizierà il bollore – abbassare la fiamma al minimo e lasciar cuocere per 15 minuti circa. Non aprire il coperchio durante la cottura.

Nei miei giri in solitaria per l’Asia torinese, ho trovato con mia somma sorpresa del riso koshihikari Wadachi, proveniente dalla prefettura di Nīgata!

Preparazione delle coste

  1. Scegliere coste con foglie integre e gambo. Lavarle molto bene e scottarle in acqua bollente salata per dieci secondi al massimo. Scolarle delicatamente e asciugarle una ad una facendo attenzione a non romperle. Tagliare i gambi e metterli da parte.

2. Disporre le foglie, che avrete precedentemente tamponato con delicatezza, sopra un piatto.
Tagliare i gambi per lungo a strisce sottili e tagliuzzarli finemente.

Preparazione del riso

3. Trasferire il riso cotto caldo in un recipiente e aggiungere i gambi tritati, del sesamo a piacere, un po’ di furikake a vostra scelta. Se non avete il furikake, potete condire con del pepe, un po’ di sale, un pizzico di peperoncino, ecc. Mescolare bene con un cucchiaio di legno facendo attenzione a non rompere i chicchi.
Dividere il riso in 6 porzioni uguali.
Potete ora formare le palline di riso con le mani oppure, se avete paura di fare pasticci, aiutandovi con della pellicola per alimenti: basterà posizionare ogni porzione di riso su un pezzo di pellicola che chiuderete fino a formare una pallina.

Preparazione degli onigiri

4. Arriviamo al momento conclusivo. Anche per questa operazione potete aiutarvi con della pellicola per alimenti se avete paura di fare guai.
Con garbo, stendere una foglia di costa per volta e posizionare al centro una pallina di riso. Con molta delicatezza, iniziare a coprire il riso piegando la foglia dall’alto, poi dal basso e infine le parti laterali.
Proseguire così con gli ingredienti restanti.

Condividere è voler bene

Sharing is caring – dicono gli inglesi. In effetti, la condivisione è un gesto di affetto verso gli altri. E vale certamente anche per gli onigiri che, secondo una curiosa teoria, sono più buoni quando sono gli altri a prepararteli. Nel Giappone orientale, quindi anche dove abitavo io, si preferisce il termine おむすび omusubi mentre おにぎり onigiri pare essere più diffuso nella parte occidentale. E non è un caso, forse, che omusubi derivi dal verbo musubu che significa legare, collegare, unire, …quasi a voler rimarcare il suggellamento di un legame di cuore.

Biscotti al matcha di Shiho Nakashima

Biscotti al matcha di Shiho Nakashima.
Biscotti al matcha secondo la ricetta di Shiho Nakashima

I biscotti al matcha sono una mia piccola passione nonché capriccio dolciario a cui ogni tanto dedico qualche esperimento. Non mi piacciono le rivisitazioni industriali, soprattutto quelle goffe che si trovano qui da noi e che spesso sono solo coreograficamente verdi ma dell’autentico sapore erboso del matcha non hanno traccia.

Tempo fa proposi questa ricetta e nel vecchio blog quest’altra. Ognuna con caratteristiche proprie ma entrambe deliziose.

Il matcha è un ingrediente che amo profondamente. Per me è una delle essenze più autentiche giapponesi. Sa inequivocabilmente di Giappone.

Al di là del fatto che ora sia ingrediente di tendenza – un po’ come le bacche di goji e l’olio di argan alcuni anni fa – e quindi sulla bocca di tutti ma nel cuore di pochi, per me è un elemento / alimento importante. Cerco sempre di averne di qualità in dispensa proprio perché amo berlo puro, senza fronzoli. Però ammetto di amarlo anche come ingrediente, soprattutto nei biscotti oppure per insaporire un prezioso sale con cui rifinire una buona tenpura.

Brividi narrativi d’antan

Audiomovie

Il Giappone che mi segue ovunque, anche nei meandri più inaspettati.

Un giorno ho scoperto, casualmente, un podcast intitolato 「夜のミステリー」Yoru no misuterī (I misteri della notte). Da grande ascoltatrice di podcast – di cui parlerò in un prossimo articolo, soprattutto in relazione al giapponese – ho voluto subito approfondire.

Questo podcast si propone di rilanciare una vecchia serie di racconti radiofonici del mistero, prodotta nel 1976 dalla TBS, importante emittente TV radio giapponese. Il 1976 corrisponde al cinquantunesimo anno dell’era Shōwa, secondo la suddivisione tradizionale del 年号 nengō che assegna all’era il nome dell’imperatore regnante. L’era Shōwa, chiamata così perché il regnante del tempo era appunto l’imperatore Shōwa conosciuto anche col suo nome personale di Hirohito, iniziò nel 1926 e si concluse nel 1989 con la sua morte.

Il rilancio, dunque, di questa storica trasmissione della TBS da parte di AudioMovie è stata rinominata 令和版 Reiwa-han ovvero edizione dell’era Reiwa che è il nome dell’epoca in cui ci troviamo ora, iniziata nel 2019 con l’ascesa al trono dell’imperatore Naruhito. Questo per distinguerla dall’edizione classica di epoca Shōwa che, ovviamente era solo radiofonica.

Era notte fonda e faticavo un po’ ad addormentarmi. Quando questo mi succede cerco di ascoltare alcuni dei miei podcast preferiti anche se questo a volte sortisce l’effetto opposto tenendo alta la mia attenzione. Però ricorro spesso ai podcast perché mi rilassano.

Ho scelto un episodio a caso di Yoru no misuterī e – subito dopo l’introduzione guidata da una voce decisamente inquietante e di una musica che lo era altrettanto – è iniziata la storia.

「雪道で」Yukimichide, In una strada innevata

Al di là di un primo brivido che provo già pregustando una storia che ne promette molti altri, ho spalancato gli occhi quando ho scoperto che la storia è ambientata nella Prefettura del Kanagawa, nella città di Atsugi! Praticamente quasi casa mia perché ad Atsugi c’era (c’è tutt’ora) la sede della mia università!

La storia, molto misteriosa e piuttosto tetra, continuava però a sapere di casa e – forse proprio per questo – mi è sembrata ancora più paurosa.

Ho trovato sorprendente questa coincidenza…anche se forse le coincidenze non esistono per davvero. Con tutte le zone del Giappone in cui avrebbe potuto essere ambientata questa storia, proprio ad Atsugi!

Ma ritorniamo al matcha…

Per questa ricetta vi servirà del buon matcha. È evidente che sia lui il protagonista indiscusso.

Potete acquistarne di ottima qualità dalla mia amica Sumie, su J-Okini usando il mio codice sconto del 15% valido solo sui tè, incluso naturalmente il matcha: Marianna15

Questo è il suo straordinario matcha che racchiude il sapore delle colline di Kyōto:

Per questa ricetta, tuttavia, ho voluto usare un matcha di un grado di qualità leggermente inferiore rispetto a quello di Sumie che invece preferisco bere. Questo:

Questo è il matcha di Uji di 菱和園 Hishiwaen, della Prefettura del…Kanagawa!

Se volete preparare questi biscotti, usate il matcha che trovate però accertatevi che sia di provenienza giapponese.

Nakashima Shiho

Chef, autrice di numerosi ricettari ed esperta a trecentosessanta gradi di arte culinaria, Nakashima Shiho è originaria della Prefettura di Nīgata. Tra i suoi tanti libri, ce n’è uno che ha riscosso particolare successo: 「まいにち食べたい”ごはんのような”クッキーとビスケットの本」Mainichi tabetai “gohan no yōna” kukkī to bisuketto no hon (Un libro di biscotti e biscottini che vorrete mangiare ogni giorno tanto quanto il riso).

Trovo delizioso – in tutti i sensi – questo titolo così simpatico e con un che di innocente e giocoso.

Ebbene, la ricetta che vi presento oggi proviene proprio da questo libro quindi è di proprietà di Nakashima-sensei.

La ricetta

Ed eccoci giunti alla ricetta, finalmente. Il libro summenzionato si fonda su una premessa: tutte le ricette proposte sono state alleggerite preferendo sostituti del burro e delle uova.
Solitamente i biscotti al matcha vengono realizzati con una pasta frolla classica, decisamente burrosa e grassa. Le due ricette che avevo pubblicato in passato (e che ho linkato più su) sono proprio a base di una pasta frolla al burro.

La ricetta si chiama 抹茶のグルグルクッキー Matcha no guruguru kukkī …quindi biscotti al matcha guruguru?!
Guruguru è una simpatica espressione onomatopeica che descrive quel disegno spiralico, a girandola, dato dai due impasti avvolti su se stessi.

A proposito di queste espressioni vi rimando al mio articolo precedente che potete trovare proprio qui.

Con questa ricetta – che traduco direttamente dal giapponese – si ottengono più o meno una ventina di biscottini. Il numero potrebbe variare in base, naturalmente, alle dimensioni che deciderete di dare all’impasto prima di tagliarlo.

Ho diviso la lista degli ingredienti in due parti: la prima per l’impasto chiaro e la seconda per l’impasto verde.

INGREDIENTI PER L’IMPASTO CHIARO

100g di farina bianca (io ho usato farina tipo 1)
20g di zucchero di canna
un pizzico di sale
2 cucchiai di olio vegetale
2 cucchiai di acqua

INGREDIENTI PER L’IMPASTO VERDE AL MATCHA

80g di farina (anche qui ho usato la farina tipo 1)
1 cucchiaio abbondante di matcha
20g di zucchero di canna
2 cucchiai di olio vegetale
1 cucchiaio e mezzo di acqua

PREPARAZIONE

Preparare subito l’impasto chiaro: in un recipiente versare la farina, lo zucchero, il pizzico di sale e mescolare con le mani. Aggiungere l’olio e mescolare, sempre con le mani, fino a quando la farina non avrà assorbito bene l’olio. Ora versare l’acqua e mescolare fino a quando non si otterrà un impasto a cui si darà la forma di una palla che andrà poi coperta con della pellicola per alimenti.

Il collage con tutti i passaggi per la preparazione dell’impasto chiaro.

PREPARAZIONE DELL’IMPASTO VERDE AL MATCHA

Per il secondo impasto, seguire la stessa procedura del primo impasto ricordandosi di aggiungere il matcha subito alla farina.

Collage con la procedura per la preparazione dell’impasto verde al matcha.

CONTINUAZIONE

Aiutandosi con della pellicola trasparente come base (o tappetini tipo Silpat, se li usate), stendere entrambi gli impasti con un matterello dando a tutti e due una forma rettangolare di circa 15cm x 20cm. Non c’è bisogno di essere precisissimi al millimetro.

Collage della preparazione dei biscotti al matcha

Ora bisognerà sovrapporre i due impasti, mettendo quello verde sopra quello chiaro. Partendo poi dal lato più corto, iniziare ad arrotolare ben stretto l’impasto su se stesso e poi tagliarlo a fette di circa 5 mm di spessore.

I biscotti prima della cottura

Disporre i biscotti su una teglia rivestita di carta da forno e infornare a 170 gradi centigradi per circa 30 minuti.

Ed ecco i biscotti appena sfornati!

Sono biscotti molto semplici sia come preparazione sia come sapore. Leggeri e con la nota inconfondibile del matcha che spicca.

E con questi biscottini al matcha di Nakashima Shiho e le coincidenze che mi inseguono, vi do appuntamento ai prossimi articoli. In base all’ispirazione, saranno in arrivo racconti, introspezioni, ricette e chissà cos’altro.

L’abbagliante bellezza del Lungo Po Antonelli, a Torino, in un giorno di aprile.

Damako-nabe e la fine dell’inverno

Foto di 住まいマガジンびお

Nijūshi-sekki: un antico strumento da riscoprire

Credo che l’antico calendario giapponese riesca con elevata precisione a descrivere le lievi (a volte impercettibili) trasformazioni della natura nell’arco dell’anno. Mi piace farvi riferimento proprio perché sa cogliere con meticolosità quelle leggere variazioni che il più delle volte sfuggono. O che forse non passano inosservate all’occhio di chi – ancora – si guarda intorno.

Si tratta del calendario cosiddetto 二十四節気 nijūshi-sekki cioè le ventiquattro ripartizioni dell’anno solare. L’intero anno solare, dunque, si divide in ventiquattro fasi principali (節気 sekki) che corrispondono ai momenti di trasformazione di maggior rilevanza climatica. Ogni fase viene poi ulteriormente suddivisa in tre microfasi chiamate 候 o stagione. In totale, si avranno quindi settantadue kō che restituiranno un quadro altamente accurato di tutto ciò che avviene a livello di temperature, di flora a fauna nell’arco di tutto l’anno.

Rappresentazione a disco del nijūshi-sekki riportante nel cerchio esterno le 24 ripartizioni, nel cerchio mezzano i 12 mesi e in quello interno le 4 stagioni. Fonte.

È un calendario di antica origine cinese, nato nel mondo contadino in cui era essenziale riconoscere il momento giusto per la semina. Introdotto in Giappone intorno al VI secolo d.C. nella sua versione originale cinese, questo calendario non mantenne la sua forma a lungo. Era necessario, infatti, che esso riflettesse le caratteristiche territoriali giapponesi. Storicamente se ne attribuisce il perfezionamento ad un grande astronomo del Periodo Edo di nome 渋川春海 Shibukawa Shunkai.

Shibukawa Shunkai, il grande astronomo del Periodo Edo, che perfezionò il nijūshi-sekki introducendo le microfasi che riflettono le caratteristiche climatiche del Giappone. Fonte immagine.

Nuovo sekki

A partire da oggi 19 febbraio ha inizio un nuovo sekki cioè la seconda ripartizione maggiore da inizio anno. Si chiama 雨水 usui e si può tradurre con acqua piovana. Questo sekki terminerà intorno al 5 di marzo. E oggi ha inizio la sua prima microfase chiamata 土脉潤起 tsuchi no shō uruoi okoru ovvero il momento in cui la pioggia inumidisce il terreno.

Secondo questo calendario, la primavera è già cominciata, precisamente il 4 febbraio con l’inizio di 立春 risshun ovvero il primo sekki dell’anno solare.

Dolce estemporaneità

In uno dei miei recenti giri solitari per la malconcia Chinatown torinese, in un giorno di Risshun, ho trovato queste caramelle:

Caramelle di Hello Kitty

Si tratta di caramelle alla frutta di Hello Kitty (ciliegia, mela e arancia) prodotte per i festeggiamenti del Nuovo Anno. La confezione molto colorata ricorda la forma del Monte Fuji e tutte le decorazioni su di essa sono chiaramente ispirate al periodo di fine anno. Incluso l’elegante kimono che Hello Kitty indossa per l’occasione.

Il sekki corrispondente è l’ultimo dell’anno ossia quello di 冬至 Tōji ovvero del solstizio d’inverno che copre il periodo dal 22 dicembre al 4 gennaio.

Ogni involucro nasconde un おみくじ omikuji, ovvero un oracolo o predizione scritta diffusi nelle credenze shintoiste e buddiste.

Omikuji nascosto

Sollevando un lembo dell’incarto sarà possibile scoprire l’omikuji che riporterà, secondo la tradizione, alcuni messaggi del tipo: 吉 kichi (fortuna) 大吉 daikichi (grande fortuna).

Su ogni involucro Hello Kitty sfoggia un kimono diverso!

Damako-nabe

Tra le specialità della cucina invernale giapponese che prediligo vi sono senz’altro i 鍋物 nabemono ovvero quelle preparazioni dove gli ingredienti si mettono a cuocere in un brodo, in una pentola (nabe), generalmente di coccio. Sono piatti che trasmettono calore e convivialità e sono, inoltre, facilmente personalizzabili in base alle proprie preferenze.

Illustrazione di una Damako-nabe. Fonte.

Anni fa ebbi la possibilità di procurarmi una 土鍋, donabe ossia la tradizionale pentola in terracotta, proveniente da Iga, nella Prefettura di Mie, grazie ai saldi di Muji qui a Torino. Da allora me ne prendo molta cura perché ogni inverno arricchisce le nostre cene con un tocco di confortante giapponesità.

Ogni inverno, tra le mie preparazioni immancabili vi è senz’altro la 石狩鍋 Ishikari-nabe a base di salmone e verdure, nonché tributo alla cucina di Hokkaidō.

Quest’anno, invece, ho voluto dare spazio ad un classico della cucina regionale giapponese, in particolare della Prefettura di Akita: だまこ鍋 Damako-nabe.

だまこ鍋 La mia Damako-nabe di Akita

Si tratta di uno stufato a base di: pollo, verdure, polpette di riso. Il tutto fatto cuocere lentamente in un brodo molto saporito.

La ricetta originale prevede alcuni ortaggi non facili, se non addirittura impossibili, da trovare qui. Ma il problema è presto risolto: è sufficiente sostituirli con le verdure a disposizione.

La particolarità della Damako-nabe è la presenza delle だまこ damako appunto, ovvero delle polpette di riso. L’idea nasce dalla necessità di evitare gli sprechi in cucina e utilizzare ogni singolo chicco di riso avanzato.

E così, in questa ultima fase d’inverno, a cavallo tra Risshun e Usui, ho preparato questo piatto infuso del tepore di casa, mentre fuori una fredda oscurità ammanta ogni cosa. In quel delicato momento di transizione in cui si avvertono ancora gli artigli del freddo ma, al contempo, si percepiscono già i primi effluvi di una primavera non poi così distante.

Riso

Servirà innanzitutto avere del riso cotto, avanzato o preparato appositamente. Nei miei consueti giri per la malconcia Chinatown torinese sono riuscita a ritrovare addirittura una vecchia conoscenza, tra gli scaffali caotici di una delle botteghe solite:

Riso Nishiki

Il celebre riso Nishiki, varietà giapponese storicamente coltivata in California. Credo sia stata una delle prime varietà a venir coltivata negli Stati Uniti guadagnandosi, così, il posto di veterano dei risi.
E avendo vissuto in California per molti anni, ricordo bene le buste di Nishiki nei market asiatici nella Convoy Street di San Diego. E ritrovarlo qui, a Torino, nel solito confortante caos degli scaffali dello Yang Guang Market è stata una sorpresa molto grande.

Non avevo del riso avanzato dunque ne ho preparato un po’ appositamente.

Dashi

Le varietà di dashi che riesco a trovare regolarmente qui a Torino. Le marche sono, partendo dall’alto a sinistra, in senso orario: Marutomo, Ajinomoto, Shimaya, Marushima.

Servirà necessariamente del dashi, ossia uno dei cardini della cucina giapponese e di cui ho scritto molto negli anni: un brodo essenzialmente a base di acqua, alga konbu e katsuobushi (scaglie di tonnetto secco). Si può preparare fresco disponendo, ovviamente, di katsuobushi di qualità. Tuttavia, la scorciatoia più comune e più economica è quella del dashi in polvere.
Nella solita malconcia Chinatown della mia città riesco, incredibilmente, a trovarne ben quattro marche diverse! Insomma, non ho che l’imbarazzo della scelta!
Addirittura, sono persino arrivate le confezioni già in tema primaverile del dashi di Shimaya adornate da romantici rametti di ciliegi in fiore.

Preparazione della Damako-nabe

Ingredienti:
400g di riso cotto
400g di pollo (cosce e petti)
Un cipollotto verde
del cavolo
Uno o due shiitake
Mezza carota
Una patata

600ml d’acqua
un pizzico di sale
due cucchiai di salsa di soia
due cucchiaini di dashi in polvere
due cucchiai di maizena o amido di mais

Per le Damako:

In un sacchetto versare il riso cotto e i due cucchiai di fecola di patate. Chiudere il sacchetto e schiacciare il tutto con le mani, delicatamente, fino a quando il composto non sarà diventato omogeneo. Si dovrà ottenere un impasto un po’ colloso. Con una bacchetta o altro, dividere l’impasto in sei parti uguali. Con le mani inumidite in acqua e sale, modellare ognuna delle sei parti dando loro la forma di una polpetta.
Mettere da parte, assieme alle verdure lavate e mondate.

Verdure e damako

Per le verdure, usate ciò che avete. Per gli shiitake secchi, ricordatevi di metterli in ammollo in acqua calda per un’oretta circa. Tagliare il resto delle verdure a pezzi non troppo piccoli.

Nella donabe (o altra pentola) versare l’acqua, il sale, la salsa di soia, il dashi. Mescolare bene e aggiungere il pollo. Far sobbollire fino a cottura quasi ultimata del pollo. Dopodiché aggiungere le verdure. Non è ancora il momento di aggiungere le damako.

Lasciar cuocere il tutto a fiamma media, fino a quando le patate o altri tuberi non saranno teneri.

La mia Donabe di Iga


Infine, calare le damako nel brodo facendo attenzione a non romperle. Chiudere il coperchio e lasciar cuocere per altri 5 minuti circa.

Un breve video realizzato da me.
Preparazione della Damako-nabe di Akita

Servire in scodelle capienti.

Dekiagari: è pronto!

E forse, chissà, con questa Damako-nabe inizio a salutare l’inverno. Ma assieme all’inverno se ne vanno anche altre cose. D’altra parte, la vita è questo: un ripetersi ma anche un rigenerarsi continuo.

Okayu

Agosto è arrivato avvolto nel suo mantello infuocato e l’estate ormai ha raggiunto il suo sfolgorante zenit.

È questo il periodo in cui – più di qualsiasi altro momento – il tempo sfodera l’illusione più sorprendente: apparenti dilatazioni che avvengono a dispetto di quanto sembri postulare la fisica.

In queste roventi giornate diluite da chimerici strascichi allunganti, riscopro sapori giapponesi radicati nel mio cuore.

Come quello dell’okayu.

Ma prima di iniziare, ho due comunicazioni importanti per tutti i miei lettori.

Corso base di giapponese

A settembre avrà inizio il mio corso base collettivo di giapponese, progettato specificatamente per chi è completamente a digiuno della lingua. Si tratta di un corso gratuito, finanziato da Formatemp.
Per chi fosse interessato ad avere maggiori informazioni e desiderasse iscriversi può consultare questa pagina. È un corso a distanza dunque siete tutti i benvenuti, a prescindere dalle vostre latitudini.

Mi raccomando, quando vi iscrivete non dimenticatevi di dire di aver saputo del corso direttamente da me!

Quindi non vi resta che iscrivervi e preparare matite e quaderni. Vi aspetto!

Sono in arrivo…

Ricette della mamma di Megumi
Lo sfondo che ho scelto è color 藤色 fuji-iro, color glicine, che ho scelto istintivamente e ho poi scoperto essere il preferito di Megumi!

Inizierà prossimamente un nuovo spazio dedicato alle preziose ricette della mamma di Megumi. Vi racconterò qualcosa di questa cara amica, della speciale amicizia che ci lega e soprattutto del dono delle preziose ricette di sua mamma. Ricette che, con il permesso di Megumi naturalmente, vorrei condividere con voi.

Sono ricette che profumano di casa, di quotidianità, di convivialità e ricordi. Sono piccoli tasselli di un vissuto inestimabile.

Ma arriviamo ora all’argomento di oggi…

Cos’è l’Okayu?

Okayu con umeboshi
Il mio Okayu

L’okayu, molto semplicemente, è una zuppa di riso stracotto. Alcuni usano il termine porridge per rendere meglio l’idea della consistenza.
È un piatto dalle origini antichissime e che ancora oggi fa parte del repertorio di ricette curative, ideali per quando non si sta molto bene. Ma l‘okayu è delizioso anche semplicemente quando si ha voglia di sapori non complicati.

Come vedremo, prepararlo non è affatto difficile e gli ingredienti sono pochissimi, tutti reperibili ovunque siate. Inoltre, è una preparazione che permette un grande margine di libertà per poterla personalizzare in base ai propri gusti e a ciò che avete in dispensa.

Per i giapponesi, l’okayu è il comfort food – o il ソウルフード sōru-fūdo (soul food) come lo chiamano loro – per eccellenza. È il cibo confortante nei momenti di malattia, di poco appetito, di malessere fisico o emotivo in generale.

L’okayu inoltre è un ottimo alimento indicato sia agli anziani sia ai bambini molto piccoli grazie alla sua consistenza morbida, il suo sapore delicato e la sua composizione leggera. Compare spesso, infatti, sulle riviste e sulle pubblicazioni rivolte alle mamme proprio perché è una preparazione ideale per aiutare i bimbi nel passaggio dai cibi liquidi od omogeneizzati ai solidi.

Ho voluto assaporarlo nuovamente dopo tanto tempo per placare un po’ i morsi della nostalgia che ogni tanto tornano ad attanagliarmi.

Illustrazione di un Okayu
illustrazione di un Okayu con umeboshi.

Che origini ha questo piatto?

Una scodella di buon Okayu. Fonte.

È un piatto con alle spalle ben seimila anni di storia! In Cina è conosciuto da millenni ma in Giappone l’okayu è stato introdotto circa mille anni fa. Comunque sia, non proprio una novità nemmeno per i giapponesi.
Tuttavia, le origini di questa zuppa non sono in Cina! Infatti, uno dei termini con cui è conosciuta in molte parti dell’Asia e anche tra le varie diaspore asiatiche nel mondo è congee. Questa parola, infatti, deriva dalla lingua Tamil parlata nel Tamil-Nadu, nel sud-est dell’India. Il termine originale è kanji (che non ha nulla a che vedere con i kanji della scrittura). In lingua Urdu questa zuppa di riso si chiama ganji mentre nella lingua Malayalam del Kerala è nota come kanni. (cit. Lisa Lim).

Insomma, una zuppa ormai diffusissima in tante versioni soprattutto nell’Asia orientale che però ha inaspettate origini dravidiche.

Okayu, invece, è il termine in uso esclusivamente in giapponese.

Date le sue origini antichissime e che toccano un territorio molto esteso, si può facilmente immaginare la varietà di versioni e metodi di preparazione. Un tempo in Cina, ad esempio, se il riso scarseggiava allora si impiegavano altri ingredienti come il miglio, l’orzo, la farina di mais, ecc. (fonte). In alcune zone al posto dell’acqua si usa il latte di cocco. La zuppa può essere servita semplice senza niente oppure con l’aggiunta di ingredienti molto saporiti che varieranno a seconda degli usi locali. In alcuni Paesi, ad esempio, si serve questa zuppa arricchendola con dell’arrosto, uova di anatra, frutti di mare, erbe assortite, pollo, ecc.

Noi però oggi vedremo come si prepara tradizionalmente in Giappone, tenendo sempre presente che le versioni sono comunque tante e ognuna rispecchierà preferenze e abitudini di famiglia.

La proporzione giapponese ideale

Questa zuppa non ha proprio una consistenza standard. Dipende da chi e dove viene preparato. La versione cantonese (chiamata jook) è particolarmente liquida: si prepara con un rapporto di 1:10 tra riso e acqua. In Giappone, invece, si preferisce che l’okayu abbia una consistenza più compatta e meno brodosa. Nella cucina giapponese esiste, infatti, una proporzione considerata ideale per l’okayu: 1:5. Quindi una parte di riso per cinque parti d’acqua. Questa proporzione ben bilanciata è frutto di molti esperimenti nei secoli e pare sia stata infine inquadrata nel Periodo Edo. Questa proporzione armoniosa si chiama 全粥 zen-gayu.

La mia ricetta dell’okayu segue naturalmente la proporzione zen-gayu.

Sentitevi, però, liberi di aumentare la dose d’acqua se lo ritenete necessario.

Okayu: ingredienti

La ricetta è per una persona e prevede la cottura in un pentolino di ghisa. Ma potete usare un pentolino qualsiasi purché dotato di coperchio.

Vediamo subito gli ingredienti per un okayu giapponese tradizionale. A questa ricetta ovviamente potrete apportare le modifiche che desiderate.

INGREDIENTI

Ingredienti per un buon okayu giapponese, per 1 persona.

50g di riso giapponese (originario)
250ml d’acqua
sesamo nero q.b.
1 umeboshi q.b.*
parte verde di un cipollotto q.b.
kizami-nori o alga nori tagliuzzata, q.b.

*Le umeboshi sono le tradizionali prugne essiccate e conservata in una salamoia a base di foglie di shiso (che dona quel colore caratteristico al frutto). Sono ingrediente importantissimo della tavola giapponese per le sue numerosissime proprietà benefiche. Dato però il loro elevato contenuto di sale, generalmente non se ne consuma più di una al giorno.
Le trovate comunemente in commercio nei negozi di alimentari macrobiotici oppure nei negozi di prodotti asiatici (sia fisici sia online).

Io ho acquistato delle ottime umeboshi provenienti dalla Prefettura di Wakayama, prodotte dall’azienda Sekimoto, una realtà molto attenta alla qualità delle materie prime.

Le deliziose umeboshi da Wakayama!

Se non vi piacciono o non le avete, potete certamente saltarle. Vi indicherò più sotto alcune aggiunte alternative. Tenete però presente che l’okayu è un piatto curativo, come si diceva, quindi la presenza dell’umeboshi è totalmente coerente con la filosofia della preparazione stessa.

Buonissime e ricche di proprietà benefiche!

Okayu: preparazione

Per prima cosa è essenziale preparare il riso. Sarà necessario risciacquarlo un paio di volte sotto acqua corrente. L’acqua dovrà risultare piuttosto limpida. Dopo aver scolato il riso, metterlo a bagno in acqua (non i 250ml che serviranno per la cottura) e lasciarlo a riposo per circa mezz’ora.

Passaggi preliminari per la preparazione del riso

Come già accennato, ho utilizzato un pentolino di ghisa ma andrà bene anche di altro materiale. Volendo, si possono usare i classici tegami di coccio o addirittura ricorrere alle cuociriso elettriche.

Il mio tegame di ghisa.

Trascorsa la mezz’ora di ammollo, scolare molto bene il riso e trasferirlo nel pentolino in cui avverrà la cottura. Aggiungere i 250ml d’acqua, coprire con un coperchio e mettere a cuocere a fiamma alta.

Cottura dell’okayu

Non appena inizierà il bollore, abbassare la fiamma al minimo. A questo punto si può aprire il coperchio per dare una mescolata veloce. Richiudere subito e proseguire la cottura a fiamma lenta. La cottura procederà per circa mezz’ora.
Consiglio di dare un’occhiata dopo circa un quarto d’ora per verificare che il riso non si stia né asciugando troppo né bruciando. Se necessario, aggiungere ancora un pochino d’acqua molto calda.
Tuttavia, non dovrebbero servire aggiunte d’acqua oltre quella prevista dalla ricetta.

Trascorsa la mezz’ora di cottura, spegnere il fuoco e lasciare riposare a coperchio chiuso per qualche minuto.

Okayu: è ora di servire!

Non resta che scegliere una bella scodella in cui servire il vostro delizioso okayu appena fatto! Riunire i condimenti: l’alga nori, l’umeboshi, il sesamo, il cipollotto verde tritato. Ci sono altre possibilità che vi elencherò a breve.

Quasi pronto!

Dopo aver versato l’okayu nella scodella, guarnite a piacere con i condimenti prescelti.
L’aggiunta dell’umeboshi al centro dell’okayu è una scelta molto tradizionale perché simboleggia la bandiera biancorossa giapponese, la Hi no Maru 日の丸!

In ricordo della Hi no Maru!

Aggiungete il resto e siete pronti per gustarvi una vera coccola delicata!

Il mio delizioso okayu!

Condimenti alternativi

Al posto dei condimenti tradizionali che vi ho consigliato nella ricetta, potete sperimentare con altre possibilità tra cui: salmone affumicato, uova, verdure a scelta. Al posto dell’acqua, se volete più sapore, potete usare del brodo di pollo, brodo vegetale oppure del miso. E se lo gradite, come tocco finale, qualche goccino di salsa di soia o dell’olio di sesamo tostato.

Okayu: una curiosità linguistica

Il kanji in utilizzo per la parola okayu è 粥 che si legge kayu. Ad essa generalmente si antepone l’onorifico o-.

Il kanji è a mio avviso molto gradevole dal punto di vista estetico. Si presenta in modo bilanciato ben strutturato.

Kanji di (o)kayu.

Il kanji presenta al centro il riso mentre gli elementi ai lati rappresentano lo yuge ossia il vapore.

Ode allo Yokan

Nella densa incandescenza di queste giornate di fine luglio scrivo un’ode allo Yokan.

Uno scritto in onore dello Yokan oppure al sapore di Yokan?

Forse entrambe le cose. Anzi sì, tutte e due.

Uno Yokan a metà tra realtà e immaginazione.

Nel ferreo rigore di questo feroce caldo le ore sembrano veramente scorrere ad una velocità diversa dal solito. Flussi di tempo saturi che fluiscono con fatica mentre con difficoltà cerco di concentrarmi sulle pagine di un libro. Ma quelle pagine sono improvvisamente più spesse, quasi umide. Mi sembra quasi di intravederne i bordi leggermente ondulati, il che provoca in me un fastidio lieve ma pungente.

Cedo alle lusinghe di un breve sonno come onirica tregua alle roventi ore di veglia. Ma poi me ne pento. Quel leggero sonno si trasforma presto in un tormentato girarsi e rigirarsi che mi catapulta in un odioso dormiveglia.

Desidero una folata di brezza anche gelida. Qualsiasi cosa purché porti sollievo.

Mi perdo allora in una fantasia. Insomma, se non posso mandare via il caldo posso però immaginarmi il fresco. Posso rievocarlo con le emozioni.

Penso allora al buio, all’oscurità, a quel territorio dove i nostri occhi s’indeboliscono e devono fidarsi di altri sensi. Quel territorio che sfugge alla luce e ai raggi irosi di questo irremovibile sole.

E penso a Tanizaki.

In’ei raisan e lo Yokan

『陰影礼賛』In’ei raisan di Jun’ichirō Tanizaki. La poca luce della foto è certamente voluta.

In’ei raisan è un saggio che io chiamo casa. Lo conosco davvero come le mie tasche. O come casa mia. È una delle mie opere letterarie preferite in assoluto. Infatti non è un caso che sia stato oggetto d’indagine della mia tesi di laurea. Attraverso l’analisi approfondita di questo libro ho avuto quasi la sensazione di aver conosciuto Tanizaki. E in un certo senso è così.
In’ei raisan è un po’ il manifesto del mio sentire giapponese più profondo.

La traduzione italiana di In’ei raisan: Libro d’ombra. Traduzione di Atsuko Ricca Suga.

In un bislacco intrecciarsi di suggestioni, penso all’esaltazione dell’oscurità di Tanizaki mentre ascolto la voce struggentemente americana di Garth Brooks nella sua The Thunder Rolls.
Giappone e America. I miei due mondi. Le mie due dimensioni dove mi sono trovata intrappolata in un ciclo di fioriture, appassimenti. E poi nuovi sbocciare.

Dalle pagine di In’ei raisan

Nel 1933, anno di pubblicazione di In’ei raisan, Tanizaki così scriveva:

“Si dice spesso che la nostra cucina non bada tanto a deliziare il palato, quanto a lusingare con le seduzioni proprie alle arti decorative. Io penso che le sue composizioni mirino anche più in alto. Si direbbe che intendano sprofondarci in meditazioni silenziose. Nel suo romanzo Il guanciale d’erba, Natsume Sōseki lodò, per il colore, quel dolce di pasta di fagioli e zucchero che chiamiamo yōkan. Che cosa più dello yōkan, e della sua tonalità, possono indurre alle meditazione? Solo a metà trasparente, e come rannuvolata, la pasta somiglia alla giada. Dall’interno si sprigiona un chiarore di sogno, quasi una sorgente di luce solare, che la liscia superficie abbia risucchiata e inabissata nel centro del dessert. Quale, fra i dolci occidentali, potrebbe rivaleggiare con questo impasto, e con il suo sapore così complesso? Non certo la panna montata, infantile, superficiale, esuberante. Nella penombra di una stanza, disponete i blocchi dello yōkan in un recipiente di legno laccato: il suo fascino misterioso aumenterà; il suo colore delicato e indefinibile si sposerà perfettamente con le tonalità della lacca. Sulla punta della lingua, il liscio, il compatto e il freddo dello yōkan si combineranno armoniosamente, come se tutta la tenebra circostante si fosse fusa in un’unica massa.” (tratto da Libro d’ombra, pagine 25 e 26).

Il mio Yokan, assaporato in una semi-penombra. Accompagnato da un matcha nella mia solita tazza da Nodate, coi bordi dipinti di cielo. Ho seguito il consiglio estetico di Tanizaki servendo lo Yokan su un vassoio hangetsu (cioè a forma di mezza luna) di lacca.

Cos’è lo Yokan?

Proprio come ha spiegato Tanizaki, lo Yokan (o yōkan, nella traslitterazione corretta, quindi con l’allungamento vocalico sulla o), è un dolce di pasta di fagioli e zucchero. Si presenta come un blocchetto di consistenza gelatinosa.
È un wagashi ossia uno dei dolci tradizionali della pasticceria giapponese classica. La sua composizione è semplice.
Esistono diverse versioni di questo dolce dove l’elemento differenziante sono le proporzioni degli ingredienti:
練り羊羹 neri-yōkan contiene più gelificante e quindi ha una consistenza più soda;
水羊羹 mizu-yōkan contiene più acqua il che contribuisce a renderlo più fresco e dunque adatto all’estate;
蒸し羊羹 mushi-yōkan preparato senza gelificante. Al suo posto si usano alcuni amidi come quello di arrowroot. Il tutto viene poi cotto al vapore.

Illustrazione di un classico mizu-yōkan estivo.

Quali sono le sue origini?

Lo Yokan è uno dei dolci giapponesi più antichi. Si dice, infatti, sia stato introdotto in Giappone nel periodo Kamakura-Muromachi (1185-1573). Quello fu un periodo caratterizzato da enormi instabilità interne e conflitti. Fu però anche il periodo in cui fiorì la cultura sotto l’influenza del buddismo Zen. Molte delle arti classiche conosciute in tutto il mondo sono nate in questo tumultuoso ed effervescente periodo della storia giapponese. Si pensi al teatro Nō, all’ikebana, alla cerimonia del tè.

In quel periodo i rapporti con la Cina erano all’apice dell’intensità, in un rapporto di massima ammirazione del Giappone verso il millenario Regno di Mezzo. Erano gli anni dei grandi viaggi dal Giappone verso la Cina, alla ricerca del sapere. La grande Cina era modello di civilizzazione e di saperi avanzati in tutti i campi conosciuti dell’epoca.

Studiosi, avventurieri ma soprattutto i monaci erano i protagonisti indiscussi di quei leggendari viaggi. Si sapeva quando si partiva ma non quando si sarebbe potuti ritornare in patria. Alcune volte i viaggiatori ci impiegavano anni a ritornare. Altre volte, invece, il ritorno non sarebbe mai avvenuto.

Fu proprio un monaco di ritorno dalla Cina ad introdurre questa specialità in Giappone.

Ma c’è una curiosità piuttosto affascinante.

Un dolce che non era un dolce

I bellissimi caratteri che compongono il nome Yokan sono questi: 羊羹.

I caratteri non hanno bisogno di essere interrogati. Basta osservarli. Sono loro a raccontarci storie che a volte sembrano dissoltesi via da un sogno verso la dimensione di veglia.

I due caratteri, infatti, ci restituiscono due vocaboli curiosi: pecora e brodo caldo.

Nell’antica Cina si consumavano abitualmente solo due pasti al giorno: uno al mattino e uno alla sera. Però capitava che magari durante il giorno le persone trovassero ristoro in un piccolo spuntino leggero. Questi intermezzi gastronomici si diffusero soprattutto tra i viaggiatori della Via della Seta che, come si può immaginare, avevano bisogno di fermarsi spesso durante il tragitto per rifocillarsi.

Ebbene, al tempo del monaco che importò la ricetta in Giappone, i cinesi erano ancora abituati a questi due pasti principali inframezzati ogni tanto da spuntini che chiamavano 点心 tenshin (ovvero quelli che ora conosciamo col vocabolo cantonese Dim Sum). I tenshin erano e sono tradizionalmente accompagnati dal tè. Il nome in cinese indica qualcosa che tocca il cuore, che conforta, che ristora.

Tra i tenshin in voga all’epoca ce n’era uno a base di una leggera gelatina prodotta dalla bollitura di un brodo di montone.

Il monaco portò con sé la ricetta della preparazione di questo particolare tenshin ma, ovviamente, la riadattò perché fosse in linea coi precetti alimentari del buddismo zen che vietavano il consumo di ingredienti di origine animale.

Il riadattamento prevedeva l’uso di fagioli dolci, il che generò proprio lo Yokan come lo conosciamo noi oggi.

La ricetta

La ricetta dello Yokan è sorprendentemente semplice. Si tratta, in fondo, di un composto che viene unito ad un gelificante vegetale.

La difficoltà, tuttavia, sta nella realizzazione della marmellata di azuki che è molto più complessa e insidiosa di quanto non sembri.
E una buona marmellata di azuki realizzata correttamente richiede una certa esperienza ma è un qualcosa che sa regalare ricordi indelebili.

Marmellata di azuki e varie

In Giappone ho mangiato molte marmellate di azuki artigianali e casalinghe. Era un dono piuttosto comune e mi capitava abbastanza spesso di riceverne dei vasetti da amiche e conoscenti.

Erano tutte diverse, ognuna col tocco personale di chi l’aveva preparata. Alcune erano più dolci e spesse mentre altre viravano verso una dolcezza più sobria, più contenuta, quasi educatrice.

La migliore era la marmellata di azuki della signora Fusae. Me ne portava spesso dei piccoli vasetti, a volte come ringraziamento per le nostre indimenticabili lezioni pomeridiane d’italiano. La sua era veramente straordinaria: perfettamente equilibrata nella dolcezza e nella cremosità che a volte tendeva ad una leggera cristallizzazione.

Insomma, ho pensato che la via migliore per invitarvi a preparare il vostro primo Yokan senza impelagarvi nelle insidie della marmellata di azuki artigianale fosse quella di iniziare usando degli azuki bolliti.

Ossia questi:

Yude-azuki o azuki bolliti.

Gli azuki bolliti si trovano molto facilmente nei negozi di alimentari asiatici qui da noi. Li ho visti veramente ovunque, addirittura nel reparto etnico di qualche grande supermercato!

Quasi sicuramente troverete proprio questi della marca Imuraya.

Yude-azuki di Imuraya.

Gli yude-azuki sono azuki già bolliti al punto giusto. Sono già zuccherati e pronti da consumare. Sono la base ideale per preparare una buona marmellata di azuki senza sbagliare.

Della marmellata di azuki esistono due tipi principalmente: la 粒あん tsubuan e la こしあん koshian. La prima è la più rustica e grossolana avendo pezzi visibili di fagioli al suo interno. La koshian, invece, è la versione più raffinata in quanto liscia e priva di bucce. Quest’ultima è molto indicata per farcire dolci oppure per uno Yokan elegante.

Yokan: finalmente la ricetta

Con questa ricetta si realizza un blocchetto di Yokan adatto ad una pausa tè per due o tre persone.

La ricetta si divide in tre fasi: la preparazione della koshian, dello Yokan e dello stampo.

Preparazione della koshian:

Preparazione Koshian

Servirà una lattina di Yude-azuki da 200g (questo è il formato standard che si trova qui da noi). Aprirla e versarne il contenuto nella coppa di un frullatore ad immersione. Frullare fino ad ottenere una crema omogenea. Trasferire la crema in un tegame e far cuocere a fiamma bassa per circa dieci minuti. La crema si asciugherà parecchio. Attenzione a non bruciarla. Otterrete così circa 100g di koshian.

Preparazione dello Yokan:

Servono i seguenti ingredienti:

Ingredienti

100g di koshian
63ml d’acqua
4g di agar-agar in polvere

La procedura è semplice e veloce.

Preparazione Yokan

In un pentolino versare l’acqua e l’agar-agar. Mescolare bene con una frusta. Mettere a cuocere a fiamma media e portare ad ebollizione. Far bollire per due minuti. A questo punto stemperare all’interno la koshian. Mescolare bene e far cuocere per circa un minuto. Il composto ricorderà molto come consistenza la cioccolata calda.

Preparazione dello stampo:

Per lo Yokan servirebbe uno stampo apposito in metallo ma non è obbligatorio. Possiamo fare altrimenti.
È sufficiente un contenitore quadrato o rettangolare di vetro che rivestirete di pellicola per alimenti. È importante che la pellicola aderisca bene alla superficie interna del contenitore. Inumidire l’interno con acqua.

Preparazione stampo

Quando il composto dello Yokan sarà pronto, lasciarlo raffreddare per un paio di minuti dopodiché versarlo nello stampo rivestito di pellicola inumidita. Coprire e riporre in frigorifero per almeno un’ora.

Trascorso questo tempo, lo Yokan si presenterà come un blocchetto sodo. Tagliarlo nella forma che si preferisce e servirlo accompagnato da matcha, sencha o dalla bevanda che preferite.

Il mio Yokan pronto da tagliare.

In conclusione

Il mio Yokan è un mizu-yōkan quindi adatto proprio a queste temperature infuocate di questo periodo. In esso c’è tutta la magia estetica di Tanizaki nonché la struggente malinconia dell’estate giapponese con i suoi matsuri, i canti delle sue cicale, la prepotenza di quell’afa che sembra penetrare fin negli abissi dello spirito. E lo Yokan sembra proprio che risucchi la luce, come scriveva Tanizaki, per custodirla al suo interno.

E allora pare prender forma l’illusione di oscurità, di penombra, di tregua dal caldo. Di ristoro fisico e mentale.

Il mio Yokan casalingo, assaporato nell’illusione della frescura di una penombra piuttosto immaginaria.

Kohi-zeri

Le giornate roventi che già ci accompagnano da qualche settimana mi hanno lentamente inghiottita in un vortice di ispirazione e spossatezza. Questa insolita miscela ha generato un alternarsi di sonnolenza da 夏バテ natsubate (ve ne parlai qui) e sprazzi di idee.


Questi sono gli effetti su di me dell’estate. Una sorta di valzer tra emozioni e stati contrastanti.

Natsubate

Nell’incandescenza di queste abbaglianti giornate torinesi penso, onestamente, a tante cose. Nella mia mente si ripete quel ciclico valzer che ora mi culla nel torpore di una malìa canicolare e ora mi porta le idee più svariate.

Osservo intensamente un ritaglio di cielo tersissimo adornato da nuvole bianche che sembrano la soffice essenza della spensieratezza di un tempo.

Retro-fantasticherie

I miei pomeriggi d’estate in Giappone scorrevano con particolare lentezza. Spesso andavo in esplorazione di posti a caso, rinfrancandomi nella frescura dei treni o dei grandi magazzini. Altre volte, invece, mi rifugiavo nel refrigerio della mia casa blu coi suoi condizionatori in ogni stanza. E in quei torridi pomeriggi a casa mi lasciavo ogni tanto incantare dalle proposte cinematografiche di un canale di cui ricordo ancora il jingle.

Kayama Yūzō in una foto del 2021. Foto di proprietà di Ikehata Naoaki.
文部科学省ホームページ, CC BY 4.0,

Fu proprio in uno di quei pomeriggi di sole cocente, di quell’afa indimenticabile scandita dal canto incessante delle cicale e del refrigerio del mio salotto che rimasi incantata per la prima volta dai film di 加山雄三 Kayama Yūzō.
Kayama Yūzō, famoso cantante, cantautore e attore originario di Yokohama, negli anni Sessanta ottenne grandissimo successo con una serie di film conosciuti come 若大将シリーズ Wakadaishō-shirīzu.
In questi film Kayama interpreta il giovane Tanuma Yuichi, conosciuto da tutti però col soprannome di Wakadaishō che significa giovane leader ma può anche indicare un brillante giovane di talento. E in questo caso il giovane Yuichi dà prova delle sue invidiabili capacità soprattutto in ambito sportivo suscitando così l’ammirazione delle ragazze ma anche l’invidia dei suoi rivali. In particolare, Wakadaishō ha un antagonista, Ishiyama Shinjirō, soprannominato non a caso 青大将 Aodaishō che è un particolare tipo di serpente nativo del Giappone.

Ecco lo splendente e fiero Wakadaishō puntualmente attorniato da fanciulle innamorate. E l’immancabile ed invidioso Aodaishō. Questa è la copertina di un volume della raccolta dei film della serie, intitolato: 日本一の若大将 Nippon ichi no wakadaishō.

Tuttavia, Kayama non è solo un attore ma anche un bravissimo cantautore che ha saputo dare un prezioso contributo al panorama musicale giapponese di quegli anni. Nei film, infatti, non è un caso che il Wakadaishō non fosse solo un prodigio dello sport ma anche un cantante molto apprezzato. Insomma, un vero giovane leader a trecentosessanta gradi. Il povero Aodaishō non avrebbe mai potuto superarlo.

Qui una scena di uno dei film della serie in cui vedrete il nostro Wakadaishō mentre suona e canta un brano intitolato 夜空の星 Yozora no hoshi (Stella del cielo notturno). E vedrete anche Aodaishō alle prese con i suoi soliti tentativi di far sfigurare il suo acerrimo rivale.

Altre fantasticherie d’antan

In questo giocherellare con le nostalgiche suggestioni che zampillano nei bollenti pomeriggi di questo giugno ormai alla fine, ripenso al mondo spensierato del Wakadaishō e alle sue luccicanti melodie. E ripenso a quel mondo di cui arrivavano già assaggi e sprazzi anche attraverso la nostra stampa.

E senza nemmeno farlo apposta, fu proprio in un pomeriggio d’estate di quel tormentato 2011. Non era passato molto dal mio ritorno dal Giappone. Ero qui a Torino, nel mio quartiere di nascita, a passeggiare per le sonnacchiose vie che conosco come le mie tasche. Entrai in un negozio ormai scomparso. Era uno di quei rigattieri che cercava di ridare vita – o quantomeno lustro – a oggetti rimasti orfani.

Pochi euro in tasca, il volto accaldato, lacrime trattenute a forza e dentro di me la desolazione della solitudine.

Decisi di perdermi per qualche istante in quel mondo di oggetti appartenuti a chissà chi e con chissà quale storia da raccontare. In quel luogo semi-illuminato e impregnato dell’odore caratteristico delle cose usate: la fragranza dolciastra della carta mescolata a vaghi residui di candeggina impigliata nelle fibre di abiti smessi. Poi un richiamo persistente di polvere e tracce di muffa di qualche cantina.

In un enorme scatolone traboccante di carta ingiallita ecco una pila di vecchie riviste italiane. E da lì spuntò questa:

Rivista Epoca del 23 novembre 1958

Sfogliare questa vecchia rivista grandissima e dalla carta liscia e spessa è un vero viaggio proustiano. E da pagina 72 ecco un ritratto di un Giappone di fine anni Cinquanta, firmato da Alfredo Panicucci. Uno sguardo sulla Tokyo di quegli anni e alle abitudini dei giapponesi in fatto di intrattenimenti. E penso a quanto informazioni di questo tipo debbano aver sorpreso i lettori italiani di certo non abituati ad un flusso bombardante e continuo di notizie da ogni dove.

Straordinaria veduta notturna di una Tokyo perlopiù scomparsa.

Una delle foto dell’articolo ritrae dei pasticceri di un laboratorio dell’immensa capitale. La descrizione non specifica in maniera esatta ma a giudicare dal tipo di pastella e di stampo utilizzato sembra proprio che i due uomini siano impegnati nella preparazione dei deliziosi 今川焼き Imagawayaki, dei piccoli pancake spessi ripieni di marmellata di azuki o crema pasticciera, serviti caldissimi.
La didascalia, però, arricchisce l’esperienza immaginifica rivelando che “l’odore di Tokio è un misto di profumo dolciastro di biscotti, di pesce crudo, di pepe, di acqua stagnante nei canali scoperti”.

Collage con una selezione dell’articolo di Epoca dedicato a Tokyo.

Kohi-zeri: qualche curiosità storica

In questa atmosfera dal profumo di tempi andati, sulle note delle melodie di Kayama Yūzō e di Wakadaishō penso che non ci possa essere ricetta migliore per addolcire questi bollenti pomeriggi d’estate se non la コーヒーゼリー kōhī-zerī.
Potreste ascoltare, ad esempio, 夕陽は赤く Yūhi wa akaku (Il tramonto è rosso) proprio qui. Oppure 旅人よ Tabibito yo (Il viaggiatore) qua.

La mia kōhī-zerī

La ricetta di oggi, dunque, ha origini decisamente recenti. Questa volta nessun collegamento, dunque, col mio amato Periodo Edo. Infatti, siamo storicamente in pieno Periodo Shōwa (1926-1989). Quindi, per rintracciare le radici di questo dolce non dobbiamo andare troppo indietro nel tempo. E comunque non sarà difficile farlo perché ci siamo già immersi in quel bouquet di sensazioni e suggestioni del Giappone di fine anni Cinquanta, inizi anni Sessanta.

Perché è quella l’epoca.

La kōhī-zerī – o gelatina al caffè – (adattamento del termine inglese coffee jelly) è un dolce arrivato in Giappone non si sa esattamente in quale anno ma suppergiù siamo nell’epoca rievocata dal Wakadaishō e da Panicucci.

Questo per quel che riguarda il Giappone. Eh sì, perché questa gelatina al caffè pare sia emersa da un vecchio ricettario inglese dei primi dell’Ottocento per poi riaffiorare circa un secolo dopo in America, nello stato del New England.

E dal New England al Giappone. Come sia avvenuto questo salto resta un mistero. Vi sono teorie su teorie inframezzate da notizie sospese tra immaginazione e realtà. C’è chi sostiene che la ricetta fece ingresso in Giappone in seguito ad un contributo pubblicato nel 1914 sullo Yomiuri Shinbun in una rubrica di una studentessa giapponese che aveva studiato economia domestica in America. Tuttavia, sembrano non esserci tracce di questa rubrica. Continuerò a cercarle.

Un’altra teoria invece fa risalire l’origine ad un tempo ben più recente quando la Mikado, azienda di torrefazione con sede a Nakano (Tokyo), lanciò nel 1963 un prodotto astutamente chiamato 食べるコーヒ Taberu-kōhī (caffè da mangiare). Questo nome molto accattivante servì a far conoscere questa gelatina di caffè servita, come vedremo, con panna.

Al giorno d’oggi la gelatina al caffè in America è un dolce ormai dimenticato. Ne sopravvive il ricordo solo nel New England dove comunque è legato ai sapori d’antan.

Illustrazione della nostalgica gelatina giapponese al caffè. Fonte.

In Giappone continua ad essere un dolce apprezzato, soprattutto in estate, pur mantenendo un’aura retrò che però contribuisce a renderlo intramontabile. Lo si trova soprattutto nelle vecchie caffetterie 喫茶店 kissaten ma anche nei コンビニ konbini aperti 24 ore su 24.

La realizzazione di questo dolce è semplice e richiede pochi minuti.

Vediamo la ricetta.

Ricetta: Kōhī-zerī

Gli ingredienti necessari

INGREDIENTI PER 2 PERSONE
300ml d’acqua
6g di agar-agar (o kanten – gelatina vegetale)*
2 cucchiai di zucchero
1 cucchiaio di caffè solubile**
Panna liquida (o montata)***

Serve anche: una piccola pirofila di vetro o ceramica o altri contenitore squadrato.

*L’agar-agar è una gelatina vegetale ricavata da alcune varietà di alghe. La ricetta originale inglese della kohi-zeri prevedeva la gelatina bovina. In Giappone al giorno d’oggi si usa anche la gelatina animale ma la versione a base di agar-agar è ugualmente molto diffusa perché quest’ultimo è un ingrediente della tradizione nonché essenziale nella pasticceria giapponese classica.
In commercio vi sono vari tipi di agar-agar e ognuna ha caratteristiche, preparazioni e dosaggi propri quindi fate attenzione. Io ho usato un agar-agar comunemente in commercio nella grande distribuzione italiana e di cui vi metto la foto. Mi raccomando, attenetevi alle dosi indicate dal produttore. In linea di massima, tra gli agar-agar in polvere, quelli italiani sono più blandi e richiedono un dosaggio maggiore rispetto a quelli di produzione giapponese o tailandese. Ecco spiegati i 6g a fronte di soli 300ml di liquido.

Agar-agar in polvere, acquistato in un supermercato a Torino.

**Per quanto riguarda il caffè solubile, usate quello che avete. Preferibilmente però scegliete versioni non zuccherate. Io uso abitualmente questo:

Caffè solubile tedesco del marchio DM. Senza zucchero.

***Per la panna: tradizionalmente nella kohi-zeri si mette la panna liquida. Potete però optare per della panna montata. Se preferite, sperimentate pure con panne vegetali.

PREPARAZIONE

Preparazione della kohi-zeri

In un pentolino versare i 300ml d’acqua e unire i 6g di agar-agar. Mescolare bene e portare ad ebollizione a fiamma media. Far bollire per circa un minuto, continuando a mescolare di tanto in tanto.

Passaggi rimanenti nella preparazione della kohi-zeri.

Trascorso il minuto di ebollizione, spegnere la fiamma e versare il caffè solubile e lo zucchero. Mescolare il composto molto bene. Versare il tutto in una pirofila di vetro o di ceramica o qualsiasi altro contenitore possibilmente squadrato.
Lasciar raffreddare un po’ dopodiché riporre in frigorifero.
La gelatina inizierà a formarsi nell’arco di circa un’ora.

Tagliare a cubetti e trasferirli in coppette. Non preoccupatevi se alcuni si rompono o se sono irregolari.

I miei cubetti di kohi-zeri poco regolari ma molto wabi-sabi!

Io ho usato quegli scodellini di panna per caffè perché sono della dose adatta. Inoltre, il sapore è pressoché identico a quello che ricordo del Giappone quando assaporavo la gelatina al caffè.

Versare quindi la panna direttamente sui cubetti di gelatina e …servire subito!

Se preferite, potete versare il composto liquido in coppette separate e servirle con la panna una volta raffreddatesi, senza bisogno così di tagliare la gelatina a cubetti.

La mia squisita coppetta di kōhī-zerī abbellita con il sottobicchiere di Megumi! Ahhh, vi parlerò di Megumi prossimamente.

Provatela anche voi. Sono sicura che vi piacerà.

Concludo questo viaggio Shōwa-retro con due domande: da dove mi seguite? E perché mi leggete?
Sono curiosa. Le statistiche mi restituiscono una situazione di lettori sparpagliati un po’ ovunque ma ovviamente concentrati nella nostra splendida Penisola. E però vorrei sapere chi siete e conoscervi.
Se avete piacere, lasciatemi un commento.

Zaru-soba

Un mazzetto di soba. Questi mazzetti si chiamano  一束 hitotaba. Si usa questa parola per riferirsi ad un mazzetto. Taba è il classificatore per i mazzetti di qualcosa (tipo soba, fiori ecc.). いらすとや

Ho pensato molte volte a quale sia il mio piatto giapponese preferito in assoluto e – devo confessarlo – non è mai stato semplice individuarne solo uno. La cucina giapponese tutta mi ha conquistata giorno dopo giorno, lasciando dietro sé ogni volta il desiderio crescente di continuare a scoprirla.

Tuttavia, seppur con notevole difficoltà, posso annoverare due specialità tra i miei piatti prediletti: il 鉄火丼 tekkadon e la ざる蕎麦 zaru-soba. Il primo è uno dei donburi (scodelle di riso al vapore guarnite con ingredienti vari) più noti dove l’ingrediente principe è sashimi di tonno marinato. Della seconda, beh, vi racconto qualcosa oggi.

Illustrazione di un invitante 鉄火丼 tekkadon.

Per quanto la cucina giapponese sia ricchissima di specialità forse più vicine come sapori e consistenze alle nostre cucine occidentali, mi sento molto attratta dai sapori più lontani.

Sarà la mia insaziabile passione per il periodo Edo ma a me sembra proprio di rintracciare in questi due piatti degli indizi olfattivi e papillari di un’epoca che amo profondamente.

Soba: precisazioni linguistiche

Nei tanti scritti che ho pubblicato negli anni ho dedicato molti pensieri sparpagliati a questo alimento che amo così tanto.

Hitotaba di soba di Kumamoto. In particolare, questa è soba stile inaka ossia di campagna.

Innanzitutto, bisogna subito fare una precisazione linguistica: il termine giapponese soba (in hiragana: そば e in kanji: 蕎麦) si può riferire sia al grano saraceno come pianta sia agli spaghetti preparati con la farina da esso ricavata.

A voler essere precisi, c’è un terzo significato: il termine soba può riferirsi anche ad alcuni spaghetti che però non contengono grano saraceno. Si pensi, ad esempio, agli spaghettini di grano tenero in stile cinese usati per la yakisoba. Ecco, il nome stesso contiene il termine soba che però verrà sempre scritto in hiragana e non kanji proprio per sottolineare l’assenza di grano saraceno.

Tipica confezione di spaghettini cinesi usati per la yakisoba.

Un altro esempio di soba non soba è una delle specialità della magnifica Okinawa: la Okinawa-soba 沖縄そば chiamata anche sōki ソーキ. O suba (soba) nel dialetto locale. Un piatto di chiare origini cinesi a base di spaghetti di grano tenero in brodo con costolette di maiale in agrodolce.

Illustrazione di una scodella di Okinawa-soba o Sōki-soba.

Soba: assaggi storici

La storia del grano saraceno in Giappone vanta origini antiche che però, come spesso accade con le cose dei tempi andati, sono avvolte in una coltre di dubbi e divergenze teoriche.

Si dice che sia stato introdotto in Giappone dalla Cina verso la fine del remotissimo periodo Jōmon 縄文時代 (10.000 a.C. – 300 a.C.) e abbia mantenuto una discreta popolarità ancora fino al periodo Nara 奈良時代 (710 d.C. – 794 d.C.) grazie alla capacità di questa pianta di attecchire anche in terreni particolarmente aridi. La coltivazione del grano saraceno serviva soprattutto come alternativa di emergenza nei periodi di raccolti scarsi di riso. Per questa ragione, si diffuse particolarmente tra i contadini, soprattutto nelle zone più montagnose.

Questo legame con il mondo contadino avrebbe assegnato alla soba (sia la pianta prima sia gli spaghetti poi), secondo alcuni, una sorta di aura spirituale: la sua provenienza da una realtà frugale ed essenziale per definizione li ha resi il pasto ideale per molti monaci zen che in essa vedevano la quintessenza di una dignitosa umiltà. Il legame tra la soba e lo zen si rafforzò poi soprattutto nel periodo Edo quando nei templi iniziarono a svolgersi le operazioni di macinatura del grano saraceno e la preparazione stessa degli spaghettini di soba (sobakiri). Queste erano operazioni che richiedevano grande concentrazione, disciplina, rigore e silenzio.

Sembra, comunque, che nel periodo Nara il grano saraceno non venisse usato ancora per la produzione degli spaghetti che conosciamo. Pare, infatti, che della pianta si consumassero i chicchi bolliti mentre con la farina si preparassero delle specie di gnocchetti.
Il concetto di spaghetto fu introdotto, sempre dalla Cina, tra i periodi Nara e Kamakura 鎌倉時代 (1185 d.C. -1333 d.C.) ma la novità gastronomica ci mise del tempo a diffondersi forse anche a causa delle forti instabilità politiche tipiche di quell’epoca. La soba spaghetto, infatti, rimase piuttosto dietro le quinte almeno fino alla fine del periodo Muromachi 室町時代 (1336/38 d.C. – 1573 d.C.).

Soba nel Periodo Edo

Gli spaghetti di grano saraceno avrebbero ricevuto la notorietà che meritano solo nell’arco del mio amato periodo Edo 江戸時代 (1603-1868 circa). Questi spaghetti – noti al tempo anche col termine di 蕎麦切り sobakiri – diventarono uno dei piatti più diffusi. Edo (l’antica Tokyo), dopo l’unificazione del Giappone sotto lo shogunato Tokugawa nel 1603, divenne la capitale del Paese. Era una città effervescente e in pieno sviluppo. Essa accoglieva persone da ogni parte del Giappone che qui si stabilivano per ragioni principalmente di lavoro. Si dice che la maggior parte dei ristoranti dell’epoca chiudesse intorno alle 22 (ossia intorno all’ora del Cane, secondo l’antico orologio Edo) e che da quell’ora in avanti ci fossero perlopiù venditori ambulanti di soba che divennero sempre più numerosi.

Questi banchetti ambulanti si chiamavano yotaka-soba 夜鷹蕎麦: il termine yotaka in origine indicava una prostituta illegale cioè operante al di fuori del quartiere dei piaceri di Yoshiwara. Inizialmente, infatti, queste attività di soba notturna non erano autorizzate. Alcuni studiosi sottolineano però che il termine fa riferimento anche all’abitudine di queste prostitute non di Yoshiwara di fermarsi a mangiare la soba a notte fonda.

Ukiyo-e di Utagawa Kunisada raffigurante delle yotaka che acquistano della soba calda, in una fredda notte d’inverno. L’artista sembra aver voluto raffigurare queste donne con particolare attenzione e forse compassione vista la loro indigenza (alcune di loro sono scalze). Forse sono solo i miei occhi a vedere questo ma mi sembra proprio di percepire un riguardo dell’artista nei confronti di queste donne in fondo costrette a vendere la primavera per vivere (espressione giapponese che significa, appunto, prostituirsi). 春を鬻ぐ

I venditori ambulanti di soba si riconoscevano anche grazie a dei banchetti che questi trasportavano direttamente in spalla. Questi banchetti si chiamavano yatai 屋台.

Ultimi cenni storici

Venditore di soba con la tipica bancarella trasportabile in spalla. Fonte.

In breve tempo, la soba divenne davvero uno dei piatti più gettonati di tutta Edo perché era gustosa, economica e poi la preparazione del piatto era piuttosto veloce. Questa rapidità nella preparazione si adattava bene – si dice – agli Edokko 江戸っ子 ossia i nativi di Edo, noti per essere poco pazienti e piuttosto iracondi.

Non mi soffermerò sulle tipologie di soba del tempo o sulle differenze enormi tra l’interpretazione di questo piatto secondo la cucina di Edo e quella del Kansai. Sottolineo, però, che ora come allora la soba si consumava sia fredda sia in brodo.

In un futuro – spero non troppo lontano – potrei pensare ad una raccolta di aneddoti gastronomici della bella e spumeggiante Edo.

Ma…chi lo leggerebbe?

Zaru-soba: la ricetta

Dopo questo lungo prologo profumato di storia, arriviamo finalmente alla ricetta.

Condivido con voi la ricetta per la soba fredda, particolarmente amata in estate. Una preparazione analoga vede gli udon, sempre serviti freddi. Scrissi qui a tal proposito.

La ricetta di oggi è semplice, senza troppe pretese. È dunque realizzabile da chiunque.

Prima di iniziare, però, serve una precisazione: la tsuyu, ossia la salsa che accompagna la soba fredda, si prepara generalmente con una base di brodo di pesce. Questa à la versione più comune ed è così che la preparo io. Tuttavia, se non consumate ingredienti di origine animale, tenete presente la possibilità di realizzare la salsa con brodo di funghi (shiitakedashi) o di alghe (konbudashi).
Per la tsuyu ho utilizzato la ricetta dell’amica Risa, autrice dello splendido blog Piece of Oishi.

INGREDIENTI per 2 persone

Ingredienti essenziali per la zaru-soba

circa 200g di soba

Per la tsuyu:
150ml d’acqua
2 cucchiai di salsa di soia
1 cucchiaio di zucchero di canna
1/2 cucchiaino di dashi granulare*

Per gli yakumi o condimenti extra da mettere nella salsa:
1 cipollotto affettato finemente

*Tutte le varietà di dashi giapponese di pesce che incredibilmente trovo nella mia amata Chinatown malconcia torinese: marchi Marutomo, Marushima, Shimaya.

Preparare la tsuyu: unire tutti gli ingredienti necessari (acqua, salsa di soia, zucchero di canna e dashi) in un pentolino. Portare delicatamente ed ebollizione a fiamma dolce e cuocere per un minuto circa. Accertarsi che lo zucchero sia totalmente dissolto. Spegnere la fiamma e conservare in un luogo tiepido.

Prepare gli yakumi: affettare finemente il cipollotto. Ci vorrebbero anche dei buoni myōga o zenzero giapponese ma sono introvabili. Io ho grattugiato del semplice zenzero cinese o shōga.

Per la soba: riempire una pentola d’acqua e portarla ad ebollizione. Non aggiungere il sale poiché questo è già contenuto generalmente nell’impasto della soba.

Cottura della soba

Quando l’acqua bolle, versare la soba e girare con delicatezza. Lasciare cuocere per circa 5-6 minuti o per il tempo indicato sulla confezione. Trascorso il tempo di cottura, scolare e risciacquare immediatamente sotto un getto di acqua fredda. Mi raccomando, non saltate questo passaggio!

Se fa molto caldo, potete servire la soba con qualche cubetto di ghiaccio. Io non ne avevo e quindi ho aumentato i risciacqui (ne ho fatti circa quattro o cinque).

Scolare bene la soba e disporla sui piatti. Versare la tsuyu in bicchierini o coppette (i caratteristici bicchieri da soba si chiamano そば猪口 soba-choko) e disporre gli yakumi su un piattino. Servire subito.

La soba-choko che ho usato per la ricetta. Se non avete le soba-choko usate scodellini, tazze, insomma quello che avete.

Come precisato più su, se avete del ghiaccio servitene qualche cubetto insieme alla soba. Altrimenti accertatevi che sia ben fredda dopo averla risciacquata più volte. Se gradite, potete guarnire la vostra zaru-soba con qualche strisciolina di alga nori, proprio come ho fatto io.

Pura gioia gastronomica: zaru-soba in un giorno rovente qualunque.

Per gustare la vostra soba non dovrete fare altro che intingerne un po’ nella tsuyu dentro cui avrete già messo qualche yakumi a piacimento.

La mia zaru-soba.

Chiudo gli occhi e sono a Edo. Non chiedetemi come. Sono lì.

soba

Moyashi no namuru

Molto della cultura giapponese rispecchia la lodevole capacità di questo popolo di accogliere elementi esterni e integrarli nel proprio modo di vivere. E in cucina questa caratteristica è particolarmente evidente.

Qui su Biancorosso Giappone trovate vari esempi di ricette nate proprio da questi incontri. Penso al recente Mame-gohan, il cliccatissimo Karee-raisu, l’Hayashi-raisu di qualche tempo fa, gli stessi gyōza (parte 1 e parte 2). Ma la lista dovrebbe andare avanti per molto. Basti pensare solo al repertorio di cucina 洋食 Yōshoku, ossia una cucina d’ispirazione occidentale nata intorno al Periodo Meiji.

La ricetta di oggi è un amorevole riadattamento nipponico di una preparazione tipica coreana.

I miei primi assaggi di cucina coreana sono stati durante i miei anni californiani quando vivevo nella magnifica San Diego. Fino a quel momento, lo confesso, non avevo nemmeno idea di cosa mangiassero i coreani. Fondamentali sono stati sia i ristoranti sia i negozi di alimentari coreani sulla Convoy Street.
In Giappone, poi, avrei riscoperto quei sapori andando alla Little Korea, nel quartiere di 新大久保 Shin-Ōkubo a Tokyo, una stazione dopo Shinjuku.

Scattai questa foto proprio dalla stazione di Shin-Ōkubo:

Un pezzetto di Corea nella grande Tokyo!

Se avete piacere di leggere l’articolo che scrissi allora descrivendo un po’ la mia esperienza nella Little Korea vi rimando qui.

Ai miei anni californiani risale l’inizio della mia amicizia storica con Mia, una ragazza di Seoul con cui – pensate – non ho mai perso i contatti! Mi ricordo quanto cercò di invogliarmi a studiare il coreano: mi mandava libri, CD, di tutto! Un po’ invano perché non avrei mai imparato il coreano ma – e chi mi conosce lo può attestare – se voglio fare una cosa riesco a raggiungere livelli di perseveranza simil-ascetici!

Erano tempi ancora non tanto sospetti ed evidentemente percepivo che la mia passione fervida mi avrebbe attesa in un Paese vicino!

Grazie a Mia però mi affezionai al caffè Maxim che sarebbe diventato il mio chiodo fisso per molti anni. Fino a quando, per irreperibilità del prodotto, fui costretta a dimenticarmelo.

Ma la mia amata seppur malconcia Chinatown torinese riserva alla sottoscritta sempre le sorprese più incredibili…

Ebbene sì!

Un tempo me li facevo spedire da Mia ma dopo l’ultima legnata secca di ben settanta euro di imposte doganali per un pacchetto piccolissimo dalla Corea, avevo posto fine alla mia Maxim-mania.

In Giappone avrei incrociato il cammino di un’altra amica coreana con cui, però e con grande rammarico, a differenza di Mia non avrei più rivisto né sentito: Kelly.
Di lei parlerò, un giorno.

Straordinaria Kelly.

Dovrei raccontarvi delle tante persone che hanno incrociato il mio cammino in quei luccicanti anni di Giappone. A molti ho dedicato già ritratti di parole ma non a tutti.
Recentemente ho ripensato ai miei compagni di università: Tecchan, Brandon-san, Shōta-san, e l’incredibile Kelly.

E un implacabile nodo alla gola mi ha sfidata impunemente a trattenere le lacrime. E ho fallito miseramente.

Ricetta: Moyashi no namuru

Arriviamo finalmente a questa ricetta che profuma inconfondibilmente di sesamo e dunque di cucina coreana.

Si tratta di un Namul (giapponesizzato in namuru) cioè di una tipica preparazione coreana a base di una verdura sbollentata e condita in un determinato modo che ora vedremo.
I namul si possono preparare con spinaci, varie verdure in foglia oppure con germogli di soia. Ed è proprio con questi ultimi che ho preparato il mio gustosissimo namuru.
Moyashi, infatti, è il termine giapponese che indica i germogli di soia mentre la parola no è traducibile con la preposizione di. Insomma: namul di germogli di soia.

Illustrazione di una tipica confezione giapponese di moyashi.

Per abitudine mia userò però solo il termine giapponesizzato namuru d’ora in avanti.

Esistono naturalmente molte versioni di namuru ma quella che vi faccio vedere io è forse la più semplice in assoluto.

INGREDIENTI per 2/3 persone (anche di più se lo preparate per il bentō oppure se lo servite in piccole porzioni di contorno)

Ingredienti per un namuru indimenticabile!

250-300g di germogli di soia freschi
2 cucchiai di salsa di soia
2 cucchiai di olio di sesamo*
1 spicchio d’aglio grattugiato o tritato finissimo
un pizzico di sale
pepe nero q.b.

*Qui l’ingrediente principe per davvero è il profumatissimo olio di sesamo che – non posso sottolinearlo abbastanza- è l’elemento coreanizzante del piatto. Senza questo ingrediente, purtroppo, non sarà un namuru.
Attenzione però: serve l’olio di sesamo tostato! Non usate quindi l’olio di sesamo classico che trovate al supermercato perché è praticamente insapore. Quello tostato, invece, è tutta un’altra musica.

Cercate nei vostri negozi di alimentari asiatici di fiducia.

Io uso abitualmente questo, di una marca giapponese:

Un magnifico olio di sesamo tostato giapponese!

La preparazione è talmente semplice da risultare quasi imbarazzante la spiegazione. Ma procediamo.

Iniziamo subito con lo sbollentare i nostri germogli di soia precedentemente lavati e scolati. Tra l’altro, mi sono accorta che quelli che ho acquistato io vengono commercializzati col termine giapponese di Moyashi!

Cottura dei germogli di soia

Portare dell’acqua ad ebollizione in una pentola, aggiungere un pizzico di sale e versare delicatamente i germogli e girarli con garbo. Lasciarli cuocere per quaranta secondi, massimo un minuto! Non di più.
Scolarli e lasciarli raffreddare un po’.

Condimento del namuru

Unire la salsa di soia, l’olio di sesamo, l’aglio grattugiato e il pepe. Mischiare bene il tutto.

Un delizioso namuru pronto in un batter d’occhio!

Versare il condimento sopra i germogli che avrete precedentemente sbollentato e scolato. Va bene anche se sono ancora un po’ tiepidi. Mescolare con cura il vostro namuru e…servire!

Potete guarnire con del sesamo bianco oppure del peperoncino. Oppure ancora del cipollotto verde. Potete sostituire i germogli con una verdura in foglia di vostra preferenza e seguire il resto della ricetta così com’è.

La mia mentore Kyōko-san mi insegnava sempre che i piatti giapponesi non vanno mai riempiti completamente. Bisogna sempre lasciar scoperta una parte del piatto in modo da vederne il colore ed eventuali decori.
Nel caso dei namuru, per esempio, è consigliato sistemare le verdure a mo’ di montagnola.

Ecco il namuru pronto per essere divorato!

Scegliete sempre scodelle e piattini che in qualche modo vi parlino.

Per questo namuru, senza nemmeno farlo apposta – credetemi – ho scelto questa scodellina di ceramica Celadon coreana.

Provate anche voi questo namuru. Vedrete, è particolarmente gradevole soprattutto in estate.

Se vi piacciono i germogli di soia, vi consiglio di dare un’occhiata ad una delle primissime ricette apparse qui su Biancorosso Giappone: il のり酢あえ Norizuae.

Moyashi no namuru

Curry ai gamberi: Ebi-karee

Uno degli articoli di Biancorosso Giappone più letti in assoluto è quello che scrissi nel 2017, dedicato alla preparazione casalinga del celebre カレーライス karee-raisu (riso al curry). Lo potete trovare qui.

Quella ricetta fu il risultato di esperimenti – a volte piuttosto impegnativi – finalizzati a trovare la giusta quadra. Cercavo il sapore autentico del curry giapponese. E come è risaputo, il curry non è una spezia. Il termine può riferirsi sia a delle foglie da noi ancora poco conosciute (le trovate qui!) sia ad una miscela molto profumata, declinata in innumerevoli versioni.

Ebi-karee

Venni a conoscenza per la prima volta dell’esistenza delle foglie di curry grazie a questo magnifico libro di Mukōyama Masako, intitolato 『アジアへごはんを食べに行こう』(Andiamo in Asia a mangiare). La scrittrice, appassionata delle cucine asiatiche, in questo libro raccoglie a mo’ di diario le sue esperienze gastronomiche in giro per l’immensa Asia. Dall’India alla Tailandia, dal Vietnam alla Malesia. Una strabiliante carrellata di esperienze culinarie raccontate attraverso la sensibilità umoristica dell’autrice.

Quando sentì nominare questa pianta, la scrittrice – che nella vita è una copywriter – pensò si trattasse di un intrigante nome adatto a diventare un marchio esclusivo! Il suo stupore, invece, nello scoprire che la pianta esiste per davvero è stato parallelo al mio.

Libro di Mukōyama Masako…palesemente vissuto!

Ma torniamo al curry miscela. Ho notato che in seguito al mio articolo molto gettonato in cui racconto del legame tra il curry e la marina militare giapponese, anche Wikipedia in italiano ha recepito questa sfaccettatura.

L’ingrediente segreto

Nei miei esperimenti alla ricerca del curry casalingo perfetto c’era però un aspetto che un po’ mi intristiva. Semplicemente sapevo di potermi avvicinare al sapore del vero curry giapponese ma di non poterlo probabilmente riprodurre con fedeltà.
Perché mancava la giusta miscela.

Non mi addentrerò nei dedalici meandri delle aromatiche miscele, ognuna impegnata a rivendicare una qualche forma di autenticità.

Tuttavia, le miscele sono tantissime e quindi diverse fra loro. Per realizzare il mio karee-raisu casalingo in passato usavo ciò che trovavo in città, ossia miscele di curry indiane oppure a volte anche di realizzazione italiana. Ogni volta il risultato variava. E anche di molto.

Nel ricco panorama di offerte alimentari – come si usa dire – etniche, non riuscivo però mai a trovare lei.

La leggendaria miscela di curry giapponese S&B

A risolvere l’aromatico dilemma mi è venuta in aiuto la mia straordinaria amica vietnamita Nu, del negozio di alimentari asiatici Tan Thanh di Via delle Orfane, Torino. È proprio Nu che spesso mi chiede di suggerirle prodotti giapponesi per il suo negozio. E così, un giorno, le ho timidamente proposto di cercare il famoso curry della S&B di Nihonbashi, nella caratteristica lattina di metallo rossa.

Trascorsero pochi giorni dalla mia richiesta quando, con mia somma sorpresa, Nu mi mandò un messaggio con questa foto:

Le mitiche lattine di curry S&B di Nihonbashi nel negozio di Nu!

Un’ora dopo circa ed ero da lei.

Questa storica miscela è l’ingrediente segreto.

Essa si distingue per la sua dolcezza punteggiata da un lieve piccante aromatico. E quando impiegata nella preparazione di piatti il tutto concorre a riportare in casa la fragranza della quotidianità giapponese. Quella quotidianità fatta di giorni che s’inseguono fino quasi a fondersi in un continuum quasi inscindibile.

Insomma, sa di Giappone.

S&B Curry

L’iconica lattina di metallo del curry giapponese S&B.

La storica azienda S&B lanciò il famoso curry in polvere nel 1923! La miscela fu creata da un giovane buongustaio giapponese di nome Yamazaki Minejirō 山崎峯次郎 il quale sperimentò moltissimo per arrivare al giusto equilibrio che, secondo lui, avrebbe soddisfatto i palati giapponesi. La sua leggendaria miscela, infatti, divenne ufficialmente il primo curry giapponese!

Una storica miscela che ci può ricordare l’India ma che in realtà è squisitamente giapponese!

Dal 1923 la miscela è ancora la stessa. Stesse spezie tostate e mescolate sapientemente ancora secondo la ricetta del signor Yamazaki. 
Curcuma, coriandolo, fieno greco, cumino, scorza d’arancia, pepe nero, peperoncino, cannella, finocchio, zenzero e molti altri ingredienti profumatissimi. 
E il tutto ancora racchiuso nell’inconfondibile lattina rossa.

Ricetta del curry di gamberi

Arriviamo finalmente alla ricetta. Un piatto semplicissimo da preparare che richiederà ancora meno tempo del karee-raisu classico. Molto meno!

PRECISAZIONE: Per questa ricetta non è naturalmente obbligatorio usare questo curry in polvere specifico. Usate ciò che avete!

Vediamo subito gli ingredienti per due persone.

Ingredienti principali. Vedi lista.

INGREDIENTI

200g di gamberi (anche surgelati vanno bene)
un pizzico di sale
1 cipolla media (io ho usato due scalogni)
1 spicchio d’aglio tritato
1 pezzetto di zenzero fresco tritato
olio di oliva q.b.
1 latta di polpa di pomodoro
mezzo cucchiaio di salsa di ostriche*

Per il roux
2 cucchiai e mezzo di olio vegetale
4 cucchiai di farina
2 cucchiai di curry in polvere

Per il riso al vapore, potete seguire le mie indicazioni qua.

Ingredienti per il roux. Vedi lista.

*La salsa di ostriche è un condimento molto usato nella cucina asiatica e si trova facilmente nei negozi di alimentari orientali. Se amate cimentarvi con le cucine dell’Asia, vi consiglio di procurarvene una bottiglia che – come vedrete – dura tantissimo.

La mia salsa di ostriche preferita è la tailandese Mae Krua. Oppure, come la chiamo informalmente io: la salsa della signora!

Procedimento

Per seguire il procedimento della ricetta vedrete dei collage fotografici raffiguranti i vari passaggi. Troverete, naturalmente, i passaggi scritti sotto ogni foto.

PRIMA FASE: Preparazione del roux

Le fasi della preparazione del roux.

In un pentolino mettere a scaldare l’olio vegetale, aggiungere la farina e mescolare bene aiutandosi con un cucchiaio di legno. Far cuocere il composto a fiamma bassa per alcuni minuti dopodiché unire il curry in polvere. Mescolare molto bene il composto. Si otterrà una pasta spessa. Questo è il roux. Mettere da parte.

SECONDA FASE: Preparazione gamberi e salsa di pomodoro

Preparazione dei gamberi e del sugo di pomodoro

Sciacquare e asciugare i gamberi dopodiché metterli a rosolare brevemente in un tegame con un po’ di olio di oliva, fino a quando saranno quasi cotti. Basteranno pochi istanti. Trasferire i gamberi in un piatto. Nello stesso tegame versare l’aglio, lo zenzero e la cipolla tritati. Far rosolare a fiamma dolce fino a quando la quantità non si sarà dimezzata. Come forse ricorderete dalla ricetta originale del karee-raisu, la cipolla VA necessariamente cotta piuttosto a lungo. Questo serve a conferire maggiore dolcezza al piatto oltre a renderlo meno indigesto.
Aggiungere la polpa di pomodoro, regolare di sale, mescolare e far cuocere per circa cinque minuti.

TERZA FASE: Step finale

Abbiamo quasi finito! Apparecchiate la tavola!

Aggiungere ora la salsa di ostriche e stemperare nel sugo il roux preparato in precedenza. Amalgamare bene il tutto. Il composto a questo punto si addenserà grazie alla farina contenuta nel roux.
Unire ora i gamberi precedentemente rosolati, mescolare con delicatezza e servire con riso al vapore.

エビカレー Ebi-karee

Itadakimasu! いただきます!

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