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I 28 giorni di Asabuki Tomiko

Foto scattata qualche tardo pomeriggio fa, a Torino.

Comunicazione di servizio: Mi scuso coi lettori che, cercando di leggermi nelle scorse settimane, hanno riscontrato difficoltà ad accedere al blog. Purtroppo il sito ha avuto delle difficoltà tecniche dovute agli aggiornamenti di WordPress. Ringrazio pubblicamente Ivan M. del team americano di supporto Siteground per avermi aiutata in maniera precisa e veloce.

Diluizioni di pensieri

In queste settimane dolorose in cui assistiamo sgomenti a crescenti spirali di violenza nel mondo, è molto difficile scrivere. I miei pensieri sono diluiti perché appuntati qui con ritmi singhiozzanti. Non so dunque con quale data apparirà l’articolo: uno scritto, questo, che come l’abito di Arlecchino, pare composto da mille toppe romboidali, ognuna raffigurante un momento di aggiunta tra i problemi tecnici e la difficoltà emotiva del riuscire a scrivere in questo periodo umanamente doloroso.

Eccomi nuovamente qui a scrivere in questa ultima domenica di ottobre. Abbiamo superato da poco l’ennesimo cambio d’ora che sembra segnare quasi ufficialmente il passaggio netto – e senza fasi intermedie – dall’estate all’inverno.

Piccoli garbi sino-torinesi

Ieri pomeriggio ho avuto la possibilità di incontrare per la prima volta Daniela, un’amica che conoscevo da anni soltanto virtualmente e che invece ieri ho potuto abbracciare per davvero. La sua visita a Torino, durata poche ore, si è conclusa in mia compagnia. Non potevo non portarla a respirare un po’ dell’aria della mia personalissima malconcia Chinatown cittadina, condita dalle malinconie dei giochi di luce della Galleria Umberto I e della sospensione del tempo e cristallizzazione di epoche passate, alla Cineseria Ming. Le sue vetrine, i suoi oggetti – alcuni rarissimi e preziosi – ornati dai racconti del signor Livio, figlio dello stimato dottor Lee, uno tra i primissimi residenti cinesi a Torino, e di cui sento nel mio piccolo molto la mancanza. Racconti della Cina del ricordo, della Cina che non c’è più.

Così tanto savoir faire e signorilità nelle parole del signor Livio. Un garbo squisitamente torinese – quasi gozzaniano – ma dalle tinte verde giada.

Tra le sue parole ieri, un piccolo cameo ricamato che raccontava del tè verde che amava bere suo padre quotidianamente. E del tè al gelsomino come delicato divertissement degustativo della domenica.

E proprio negli ultimi momenti di luce prima del tramonto, ho trovato casualmente – con mia grande sorpresa – i dolcini vietnamiti del Drago Giallo, preparati con farina di fagioli verdi e cocco. Piccini e fragili parallelepipedi di un dolce impasto dal sapore di cocco tostato e Asia.
Ho voluto così ricordare il dottor Lee con la mia tazza domenicale di prediletto tè al gelsomino accompagnato dai dolcini del Drago Giallo.

Oggi è domenica ed è il giorno della settimana che, più di tutti gli altri sei restanti, ha un sapore e addirittura un odore caratteristici. Forse ha anche un proprio repertorio di suoni e sensazioni che sembrano ripetersi, a prescindere dalle latitudini in cui ci si trova.

Almeno, per me è sempre stato così. Non ho la pretesa di aspettarmi questa stessa percezione di domenicalità da tutti. Ma per me è un giorno che ha sempre mantenuto una sua identità ben distinta. Sia che mi trovassi a Torino, a San Diego in California oppure a Sagamihara.

È un miscuglio di sollievo, dolce ozio e una quantità variabile di angoscia per la settimana che a breve avrà inizio. Per alcuni quest’ultimo ingrediente sovrasta gli altri.

A Torino è un giorno lento che sa di sugo di pomodoro e di acqua di colonia mentre a San Diego profumava di grigliate, di salsedine e dell’odore delle palme che scuotevano le loro viride chiome folte. A Sagamihara, invece, aveva la fragranza dolciastra della salsa di soia e dei tatami, note che erano presenti sempre ma che in certi momenti si accentuavano ad esempio in estate. Oppure, di domenica.

Letture riprese

Il libro di cui vorrei condividere alcune considerazioni mi è capitato tra le mani alla fine di agosto, in quei giorni di calore feroce che ben ricordiamo.

Il libro in questione, e che definisco particolare per svariate ragioni, è questo:

Vingt-huit jours au Japon aver Jean-Paul Sartre et Simone de Beauvoir.
サルトル、ボーヴォワールとの28日間 – 日本 (Sarutoru, Bōvowāru to no nijūhachi-nichikan – Nihon)
Ventotto giorni in Giappone con Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir.

Di Asabuki Tomiko

L’opera, scritta originariamente in giapponese, è accessibile in traduzione soltanto attraverso la versione in francese pubblicata dalla casa editrice L’Asiathéque di Rue Deguerry, a Parigi.
Ho cercato di procurarmi l’edizione originale in giapponese ma pare essere fuori stampa da molto tempo e non più di facile reperibilità.

Copertina dell’opera originale in giapponese la cui copertina ha ispirato la realizzazione dell’edizione francese.

Il mio livello di francese è piuttosto scolastico, motivo per cui ho esitato molto prima di acquistare l’edizione de L’Asiathéque. Tuttavia, non avendo quindi molta altra scelta, mi sono fatta coraggio e ho ordinato il libro. Anche se, fino al giorno della consegna, ho temuto di aver fatto un acquisto inutile.

E invece, nonostante tutto, sono riuscita a leggere tutta l’opera senza grosse difficoltà. A parte alcuni vocaboli ed espressioni che non conoscevo, la lettura è stata scorrevole e molto gradevole.

Asabuki Tomiko

Asabuki Tomiko. Fonte immagine.

Asabuki Tomiko 朝吹登水子 è stata un’importante francesista, traduttrice e scrittrice giapponese. Nata a Tokyo nel 1917, discendeva da una famiglia che svolse un ruolo chiave nella nascita del Giappone moderno durante la Restaurazione Meiji. Non è un caso, dunque, che avesse sin da piccola grande curiosità nei confronti dell’Occidente e di tutto il suo bagaglio socio-culturale. Da ragazza, si trasferì in Francia per studio per poi ritornare in Giappone negli anni Cinquanta dove, per tutto il resto della sua vita, avrebbe coltivato profonda ammirazione per la letteratura francese, veicolandone i suoi messaggi attraverso traduzioni qualitativamente elevate.

Sartre disse di lei che era “la Francia da occhi giapponesi e il Giappone da occhi francesi”.

Anche Asabuki Sankichi, fratello di Tomiko, è stato un francesista e traduttore stimato nonché professore di letteratura francese.

Asabuki Tomiko e suo fratello tradussero in giapponese varie opere di Simone de Beauvoir e ben prima di conoscerla personalmente. Si può facilmente immaginare, quindi, la gioia che devono aver provato quando si presentò loro l’occasione di stringere finalmente la mano dell’autrice che aveva segnato la loro carriera accademica in maniera così incisiva.

Nella prefazione del libro di cui scrivo, Tomiko racconta dettagliatamente e con affetto come e quando avvenne questo primo incontro. Fu lei per prima a conoscere di persona de Beauvoir, nel 1963. A presentargliela fu Hélène de Beauvoir, sorella della scrittrice.

Poco dopo anche Sankichi, grazie a sua sorella, avrebbe conosciuto la de Beauvoir in un elegante ristorante cinese del quartiere parigino di Saint-Sulpice.

L’incontro con Sartre

Nell’estate del 1966, Sartre fu invitato a recarsi ufficialmente in Giappone nell’autunno di quello stesso anno. Era da una vita che il filosofo sognava di visitare il Paese del Sol Levante tanto da far domanda, all’età di ventiquattro anni, per un posto come professore di francese presso l’Istituto franco-giapponese di Kyōto. Tuttavia, con suo grande dispiacere, non venne selezionato. Trentasette anni più tardi poté realizzare questo suo sogno grazie alla prestigiosa Università Keio che lo invitò a prendere parte ad un ciclo di tre conferenze.

Alcuni mesi prima della partenza, Simone de Beauvoir invitò Tomiko a pranzo per presentarle Sartre. L’appuntamento era presso l’appartamento della filosofa, al civico 11 bis della rue Victor-Schœlcher, a Parigi.
Fu in quell’occasione che i due filosofi chiesero a Tomiko di accompagnarli in questo viaggio che avrebbe avuto inizio il 18 settembre e si sarebbe concluso il 16 ottobre 1966.

Cinquantasette anni fa.

Fotografia tratta dal libro. Simone de Beauvoir, Jean-Paul Sartre e Asabuki Tomiko al Museo Nazionale di Tokyo, a Ueno.

Perplessità e decisioni

Qualcosa mi attirava verso questo libro, tanto da trovare il modo di superare l’iniziale barriera linguistica. Forse era l’idea di accompagnare Tomiko in questo suo personalissimo viaggio che in fondo è stato un po’ l’apogeo della sua carriera nonché il coronamento di un sogno su cui, chissà, forse non aveva mai neppure osato fantasticare.

Tuttavia, la presenza dei due filosofi, per quanto celebri e stimati probabilmente ancora adesso, non mi entusiasmava particolarmente. Sebbene apprezzi alcune loro considerazioni (od un’opera, come nel caso dello struggente diario Una morte dolcissima in cui de Beauvoir racconta l’esperienza di un mese in ospedale, attraverso la malattia e poi la morte di sua madre), non condivido la loro teoria esistenzialista né tutta la loro visione filosofica nel complesso. Non potrei essere più distante dalle idee di cui si sono fatti portavoce e rappresentanti in prima persona.

Impacci di pensiero

Ma ciò che trovo riprovevole è che, nel 1977, i due filosofi furono tra i firmatari di una petizione al parlamento francese con cui richiedevano l’abbassamento dell’età del consenso e decriminalizzazione dei reati sessuali commessi con persone al di sotto dei quindici anni di età. Esperienze personali in questo senso, in particolar modo di de Beauvoir, chiariscono il perché del loro coinvolgimento in questo genere di vicende.
Lo so, certi personaggi sono figli del proprio tempo e come tali andrebbero visti però mi riesce difficilissimo far finta di nulla; con le loro idee hanno contribuito a plasmare alcuni pensieri e atteggiamenti che generano conseguenze ancora oggi. Le parole hanno un peso e noi siamo responsabili di quelle che scegliamo di proferire e diffondere.

Al di là di ciò, inoltre, mi deluse profondamente il Sartre politico che, nonostante avesse sempre contestato le guerre difendendo il diritto inalienabile di ogni popolo all’esistenza, seppe mostrare un’indifferenza sconvolgente proprio laddove sarebbe servita la sua voce.
Nel libro si racconta del loro arrivo al campus della Keio dove i due filosofi furono accolti da studenti molto emozionati. I ragazzi mostravano cartelloni con messaggi di protesta alla guerra in Vietnam e l’arrivo dei due beniamini da oltreoceano rappresentava un momento di ufficialità di queste voci sonore e inarrestabili.

Studenti di Keio che accolgono la coppia di filosofi, con striscioni di protesta contro il conflitto in Vietnam. Foto tratta dal libro.

In quest’occasione, uno studente della Keio, in preda ad un intenso trasporto, afferrò Simone de Beauvoir per un braccio. Molto probabilmente voleva solo toccarla ma il gesto sconvolse la donna che fu, da quel momento, scortata dal fratello di Tomiko e che in foto vediamo alla sua destra.

Incongruenze di pensiero

Sartre era al fianco dei rivoluzionari, da Che Guevara a Ho Chi Minh, venendo anche nominato presidente esecutivo nel cosiddetto Tribunale Russell nel 1973 per indagare in merito ai crimini di guerra commessi dagli statunitensi in Vietnam. Il filosofo era molto apprezzato anche nel mondo arabo, venendo considerato come un pensatore in grado di riconoscere le ingiustizie e di saperle esprimere in maniera eloquente ed incisiva.

Fino a quando, verso la fine degli anni Sessanta, Sartre seraficamente dichiarò di non riconoscere il popolo palestinese e il suo inalienabile diritto di esistere e di continuare a risiedere sui propri territori. Tentò tempo dopo di aggiustare il tiro sapendo di aver esagerato. Tuttavia, non sarebbe mai più riuscito a salvare la sua reputazione di anticolonialista dalla parte degli oppressi. Quella vistosa incoerenza e quell’inspiegabile freddezza nei confronti della Palestina, dettate entrambe da chissà quali interessi, avrebbero gettato un’ombra indelebile su tutto l’impegno profuso a favore dei popoli in lotta.

E alla luce di ciò che sta avvenendo in queste laceranti settimane, col beneplacito e l’indifferenza della comunità internazionale, le contraddittorietà di Sartre lasciano ancora una volta esterrefatti.

Momenti cristallizzati

Sartre a cena al famoso ristorante Shinkiraku di Tsukiji a Tokyo. Alla sua destra, s’intravede un uomo: lo scrittore Hotta Yoshie, uno degli esponenti del genere 原爆文学 Genbaku Bungaku o letteratura della bomba atomica.

Ma questo libro è la storia di Tomiko.

Il libro di Asabuki Tomiko e dell’ottimo 玄米茶 genmaicha che ne ha accompagnato dolcemente la lettura.

Ed è grazie all’incoraggiamento e all’affettuosa insistenza di Richard Chambon, amico dell’autrice, che oggi noi abbiamo la possibilità di leggere queste memorie. Nel leggere l’opera, infatti, ho pensato più volte a quel complesso intreccio di emozioni che deve aver provato Tomiko nel ripercorrere quella straordinaria esperienza, rivivendone ogni tappa.

Ho pensato al senso di responsabilità che deve aver accompagnato Tomiko per tutto il viaggio poiché lei era il loro punto di riferimento principale: non solo possedeva un’agile padronanza del francese ma naturalmente conosceva bene il suo Paese ed era perfettamente in grado di mediare tra i due mondi.

Vulnerabilità

Dal libro emerge un ritratto dei due filosofi anche molto intimo perché mette a nudo i loro difetti, le loro debolezze ed idiosincrasie. Ad esempio, apprendiamo dell’abitudine di Sartre di consumare molti alcolici nell’arco della giornata. A tal proposito, l’autrice ricorda un episodio avvenuto durante il loro soggiorno a Kyoto, alla locanda Tawara-ya, in cui il filosofo si ubriacò con il Suntory Old, il suo whisky giapponese preferito. Inciampando, cadde su un tavolino basso dove rimase in uno stato di torpore. Tomiko e de Beauvoir dovettero tirarlo su e – con non poca fatica – accompagnarlo in camera. E poco prima di andarsene, Tomiko di nascosto gli portò via l’ennesima bottiglia di whisky che il filosofo era riuscito ad afferrare.

Anni dopo, in una chiacchierata, Sartre scherzosamente le disse che forse lei non si fidava più tanto di lui visto che gli aveva portato via anche la bottiglia quella volta. Tomiko, altrettanto giocosamente, gli rispose che dopotutto lui sembrava quasi essersi trasformato nella scultura in piombo intitolata La Rivière (Il fiume) dell’artista francese Aristide Maillol.

La Rivière di Aristide Maillol. L’opera si trova al giardino delle Tuileries, a Parigi. Fonte immagine.

L’autrice ci racconta dell’antipatia profonda di Sartre nei confronti della cucina giapponese, con la sola eccezione dei piatti a base di carne, e di una delle tante serate offerte da studiosi e amici e al termine della quale si sentì male dopo aver mangiato del sashimi. Stesse così male che pensò fosse giunta la sua ora.

Poca simpatia per la cucina giapponese classica

Sappiamo, invece, che de Beauvoir amava i crostacei e in particolar modo il cocktail di gamberi che assaporò in varie tappe del loro lungo viaggio giapponese.

Ma entrambi, a parte i piatti di carne e i crostacei per Simone de Beauvoir, non tennero la washoku in grande considerazione. Credo sia comprensibile questo loro atteggiamento: erano persone di una certa età e con abitudini ben radicate. Non deve essere stato semplice. Quello fu, tra l’altro, il loro primo e ultimo viaggio in Giappone.

Nonostante questa loro diffidenza gastronomica, de Beauvoir avrebbe più volte dichiarato il suo apprezzamento per la salsa di soia.

E questo, soprattutto in relazione a Sartre, suscita in me un po’ di tenerezza. Aveva sognato tutta la sua vita di visitare questo Paese riuscendo, finalmente, a concretizzare questo desiderio solo in età avanzata. Sicuramente sperava di farvi ritorno più e più volte ma così non fu.

Un lungo viaggio

Cartina del Giappone su cui sono segnate le tappe del viaggio di Sartre, de Beauvoir e Tomiko. Immagine tratta dal libro.

L’avventura, iniziata con l’atterraggio all’aeroporto di Haneda in una sera di forte maltempo il 18 settembre 1966, si svolse lungo tutto quasi tutto il Giappone, ad eccezione di Hokkaidō e Okinawa.

Il racconto è una vera e propria passeggiata lungo la via del ricordo – ovvero la Stroll Down Memory Lane degli inglesi – che ha il sapore della rievocazione ove i punti sbiaditi dal tempo vengono ravvivati con dettagli forse suggeriti dall’emotività.

L’autrice ci narra di numerosi banchetti organizzati in onore dei due filosofi, di silenziose visite a templi e giardini, di momenti di disorientamento dovuti alle differenze culturali. Come, ad esempio, della ritrosia dei due intellettuali nel seguire l’abitudine giapponese di farsi il bagno la sera e non la mattina, com’erano invece avvezzi a fare. Oppure dello stupore di de Beauvoir nell’osservare il modo molto diverso in cui si comportava socialmente Tomiko in Giappone rispetto ai suoi consueti atteggiamenti a Parigi.

I due filosofi osservano in contemplazione il giardino zen del tempio buddista Ryōanji di Kyoto. È qui che Sartre dice: “È il giardino più bello del mondo”.

L’opera è inframezzata da brani tratti da alcuni interventi dei due filosofi sia nel corso di interviste sia nell’ambito delle tre conferenze per le quali erano stati invitati.

Le scaricatrici portuali di Fukuoka

Ma oltre ciò, Tomiko ci rende partecipi di svariate riflessioni dei due intellettuali, fatte in momenti anche molto informali. Simone de Beauvoir, in particolar modo, era incuriosita dal ruolo delle donne giapponesi. A tal proposito, l’autrice rievoca un momento al porto di Fukuoka, importante città sulla costa settentrionale dell’isola di Kyūshū, quando ebbero la possibilità di scambiare due parole con le scaricatrici portuali, straordinarie donne di mare nonché forza e spina dorsale delle attività marittime della città. Ed è qui che de Beauvoir, avvalendosi naturalmente della mediazione linguistica di Tomiko, domanda a queste donne chi si occupi delle faccende domestiche e quanto collaborativi siano i loro mariti. Indaga inoltre sulle loro condizioni salariali e le differenze in questo senso tra uomini e donne.

Sartre e de Beauvoir, nell’osservare queste donne fisicamente minute ma dotate di strabiliante forza e vigore, provarono ammirazione per la loro capacità di sorridere e coltivare il buon umore nonostante la rigidità ed implacabilità di quello stile di vita.

Un punto di riferimento letterario: Tanizaki Jun’ichirō

La lettura di questo libro è stato un avvicendarsi di pensieri e sensazioni assai contrastanti fra di loro. E questo in parte per le ragioni che ho già spiegato. Ma tanti sono stati anche i momenti che hanno saputo trasmettere soavità, con un pizzico talvolta di ilarità.

Chi mi legge da un po’ forse sa cosa rappresenti per me Jun’ichirō Tanizaki, soprattutto in determinati periodi della sua produzione letteraria. Ne ho scritto molto negli anni. Un altro esempio qui. A Tanizaki è dedicata la mia tesi di laurea.

Valigie piene di libri

Nel leggere dei due esistenzialisti francesi alla volta del Giappone, mi colpì molto il fatto che si portarono dietro tantissimi libri in francese e in inglese. L’ingombro deve essere stato tale da rappresentare un certo disagio nei numerosi spostamenti da una località all’altra. Chissà, forse fu una delle ragioni per cui arrivarono in ritardo in stazione per prendere lo Shinkansen per Kyōto e il capostazione – in maniera del tutto eccezionale – rinviò la partenza di tre minuti per aspettare i due illustri visitatori. Questo fatto scandalizzò abbastanza – e comprensibilmente – l’opinione pubblica giapponese.

Simone de Beauvoir era affascinata dal Genji Monogatari perché rappresentava per lei il massimo ideale estetico giapponese. Ho avuto la sensazione che sperasse di incontrare qualche traccia di quella grande opera nel Giappone che si stava apprestando a scoprire.
Jean-Paul Sartre, invece, aveva una predilezione per Tanizaki. Al tempo, in Francia, non c’erano ancora molte traduzioni delle opere di Tanizaki e così Sartre le leggeva in inglese. Nonostante ciò, la sua influenza sul filosofo fu notevole.

Sartre, infatti, alla prima conferenza stampa rilasciata al loro arrivo presso l’aeroporto di Haneda, nel commentare la sua passione per il grandissimo scrittore disse: “Je regrette beaucoup que sa mort m’interdise de le rencontrer.” (pagina 24). Ovvero: Mi dispiace molto che la sua morte m’impedisca di incontrarlo.
Avrebbe infatti desiderato ardentemente ritrovare qualcosa delle opere di Tanizaki in quel Giappone che finalmente vedeva coi suoi stessi occhi. In particolare, elementi che ricordava dal celebre romanzo Neve sottile (細雪 Sasameyuki) del 1948 e che così tanto aveva amato.

L’incontro con Madame Tanizaki e un po’ di ironia

Ebbero, tuttavia, modo di incontrare Takabatake Masaaki, professore di lettere francesi a Keio e amico di Tanizaki grazie a cui fu possibile conoscere di persona Tanizaki Matsuko, moglie dello scrittore. Madame Tanizaki condusse i due filosofi alla loro residenza di campagna ad Atami dove mostrò ai due lo scrittoio del marito, permettendo loro di toccare con mano e respirare parte della quotidianità privata del celebre scrittore e che Sartre così tanto stimava.

Credo che Tomiko apprezzasse la tagliente ironia del filosofo. Nel visitare la tomba di Tanizaki, Sartre le domandò il significato del carattere inciso sulla lapide. Il carattere, scelto da Tanizaki stesso, è: 寂 jaku.
Serenité du nirvâna” – rispose lei.
Al che lui rispose lapidariamente (è il caso di dirlo!): ” Un peu prétentieux“.

Un pensiero ad una francesista fedele e appassionata

Particolare della foto di copertina che appare sia sull’edizione originale giapponese sia sulla traduzione francese. Qui vediamo da sinistra: Asabuki Tomiko, Simone de Beauvoir, Jean-Paul Sartre, Asabuki Sankichi, vicino al grande torii in legno di cipresso, al santuario Meiji, a Tokyo.
Foto tratta dal libro.

Ho potuto conoscere la figura di questa appassionata traduttrice solo grazie a queste sue memorie. So che ha scritto un’autobiografia e che cercherò di procurarmi, appena possibile. Ma già da queste pagine ho avuto quasi la sensazione di cogliere aspetti anche un po’ reconditi della sua figura. Ho compreso la sua dedizione alla divulgazione della letteratura francese in Giappone, la sua stima infinita per Simone de Beauvoir e il suo rispetto per Sartre. Ho colto l’impegno, quasi una missione, del fare da guida ai due filosofi affinché il loro ricordo del Giappone fosse indimenticabile.
Dai suoi ricordi emerge l’orgoglio per la sua amicizia con i due intellettuali ma anche il pesante senso di responsabilità nel mediare correttamente tra le due culture: avvertiva, a mio giudizio, l’importanza del riuscire ad adempiere al ruolo di ambasciatrice prescelta nonché tramite di comprensione interculturale.

Chiudo il libro ora, nelle giornate già fredde che sanno di novembre. Le pagine, chiudendosi, portano via questi ricordi dei ricordi.

Pregevoli frammenti di un microcosmo che ormai odora di naftalina.

Shuwa-shuwa: l’arte che insegna

È di Shuwa-shuwa che vorrei raccontarvi. Ma cedo il passo, per un attimo alla regina delle stagioni e al suo ingresso in scena

Ben prima che ci raggiungesse, la primavera ci aveva già mandato dei messaggi per avvisarci del suo arrivo imminente. Quel non so che di profumato nell’aria, quei primi raggi di sole ancora brevi ma già intensi. Il piroettare di insetti comparsi quasi d’acchito e spumeggianti cespugli di forsizie dorate. E poi quell’apparizione quasi improvvisa di boccioli impazienti, pronti a svelarsi al via.
Le giornate hanno cominciato ad allungarsi e con esse è ritornato lo stupore sempre bambino del sole fino a tardi.

Sui petali del ricordo

A proposito di fiori, mi viene in mente un’espressione giapponese che mi piace moltissimo:

思い出話に花が咲く

Omoide-banashi ni hana ga saku.

Traduzione: Nel discorrere di ricordi sbocciano i fiori.

La rievocazione di ciò che è stato genera sempre il fiorire di altri ricordi e questo dona brio alla passeggiata di reminiscenza. È un po’ come percorrere molto lentamente un viale lungo cui piccoli fiorellini si schiudono ad ogni passo.

Megumi è venuta a trovarmi nel cuore di marzo. Erano trascorsi già alcuni giorni dalla sua partenza quando, un pomeriggio, mi sono ritrovata a passeggiare per i Giardini Reali di Torino fermandomi più volte a gustare il momento e ad ammirare ciò che mi circondava. Il sole era già incamminato sulla via del tramonto e il cielo aveva iniziato a tingersi di quelle note che fanno da preludio alla sera. È il momento dello 夕暮れ yūgure, come dicono i giapponesi.

Mi sono avvicinata a questo ciliegio dai fiori di un rosa tenue, come quello di un delicato confetto. I suoi rami, generosamente piegati verso il basso, mi hanno permesso di ammirare questa cascata floreale anche nel dettaglio.

Non appena arriva la primavera, l’argomento dei ciliegi in fiore diventa inflazionato tanto da sembrare strano il non parlarne. Ma ho scritto e raccontato molto in proposito negli anni. Mi basta ricordare gli umili ciliegi delle collinette di Zama, nel Kanagawa, che vedevo dalle finestre del mio ingresso. Oppure i rosei tripudi che mi aspettavano avvolti nel silenzio su allo Zama-jinja, il santuario shintoista che visitavo in solitudine.

Ho accolto i primi cenni di primavera così, lungo i viali dei Giardini Reali e con la Mole Antonelliana come fedele compagna nonché inconfondibile simbolo della mia straordinaria città.

Il ritorno verso casa, passando dai Giardini Reali.

Il progetto Shuwa-shuwa

Qualche tempo fa – sinceramente non ricordo nemmeno quando – venni a conoscenza del dolcissimo progetto di una famiglia franco-nipponica. Il progetto, concretizzatosi poi in uno splendido volume, s’intitola “Shuwa-shuwa“.
Si tratta di una vivacissima raccolta di cento espressioni onomatopeiche comunemente usate in giapponese.

La famiglia Lamri-Shigematsu, che artisticamente si fa chiamare M&M&m&m avendo tutti e quattro nomi che iniziano con la lettera M, ha ideato questo libro grazie all’esperienza didattica di apprendimento del giapponese in cui sono impegnati i figli Maïtė e Maceo e il loro papà.

Il libro

Frutto dell’esperienza didattica nell’apprendimento del giapponese di Maïté, Maceo e il loro papà, il libro ha richiesto circa diciotto mesi di lungo lavoro! Il volume, infatti, è anche il risultato di una collaborazione a livello internazionale che ha coinvolto illustratori di quasi quaranta Paesi diversi, inclusa l’Italia!

La prefazione al libro, inoltre, porta il prestigioso nome di Agnès B., stilista francese di fama internazionale il cui marchio ho conosciuto per la prima volta proprio in Giappone dove è molto apprezzata.

Le onomatopee in giapponese

Le onomatopee sono parole che foneticamente imitano il verso di un animale o il suono prodotto da qualcuno o qualcosa. Anche in italiano le abbiamo. Pensiamo, ad esempio, ai miao, bau, cip-cip, muu-muu. Ma pensiamo anche ad onomatopee che riproducono il bum! di un’esplosione; il bla-bla del parlottio indistinto; lo splash di qualcosa che cade nell’acqua; l’etciù dello starnuto; il bang dello sparo; il driiin del telefono o di un campanello. E molte altre.

A me fanno subito pensare ai fumetti; ma anche alle poesie di Aldo Palazzeschi, grande poeta avanguardista italiano, in particolare a quel suo componimento del 1909 intitolato “La fontana malata” che potete leggere qui.

Nel complesso, però, sembrano richiamare alla mente un linguaggio infantile o un contesto giocoso e decisamente non formale.

Tuttavia, in giapponese le cose stanno diversamente.

Coloro che si avvicinano allo studio del giapponese ben presto scoprono che questa lingua vanta un ricchissimo assortimento di queste espressioni. Ma, a differenza dell’italiano, in giapponese sono parte integrante della lingua e non necessariamente legate a contesti di scherzo o di gioco.

E credo stia proprio qui la difficoltà: bisogna considerare queste espressioni al pari di qualsiasi altro vocabolo e appartenenti allo stesso grado di importanza. Sono dunque da imparare a utilizzare con disinvoltura per dare qualche pennellata in più di profondità al proprio pensiero.

Le onomatopee in giapponese a volte arrivano dove il semplice sostantivo o verbo non bastano.

Le cinque categorie di onomatopee del giapponese

Per dare prova della serietà con cui queste espressioni sono annoverate nella lingua naturale è sufficiente notare che ne esistono ben cinque categorie diverse!

Le 擬声語 giseigo: queste riproducono suoni prodotti da animali o persone. Vediamone alcune:

ニャンニャン nyan-nyan : miao miao
ワンワン wan-wan : bau bau
ペラペラ pera-pera: riproduce la scioltezza di chi parla fluentemente una lingua

Vi sono poi le 擬音語 giongo che invece imitano il suono prodotto da oggetti o fenomeni naturali. Vediamone qualcuna:

シュワシュワ shuwa-shuwa (che è anche il titolo del libro!): riproduce il rumore prodotto dalle bollicine di una bevanda effervescente.
ポタポタ pota-pota : imita il suono della pioggia quando cade a goccioloni pesanti.
リンリン rin-rin: replica il suono di un campanellino.

Dalla terza categoria in avanti inizia, a mio avviso, il lato realmente affascinante delle onomatopee del giapponese perché esprimono sfumature di significato che possono rivelarsi estremamente sfuggenti.
Abbiamo infatti le cosiddette 擬態語 gitaigo che descrivono condizioni e stati. Eccone qualcuna:

ビショビショ bisho-bisho: essere bagnati fradici.
グッタリ guttari: essere stanchissimi, senza forze.
ピチピチ pichi-pichi: avere un aspetto giovane e fresco.

La penultima categoria è quella dei 擬容語 giyōgo che comprende le onomatopee dedicate ai movimenti. Qualche esempio:

ダダダダ dada-dada: riproduce il suono di qualcuno che corre trafelato.
スタスタ suta-suta: il suono della camminata a passo svelto, spesso fatta senza guardarsi troppo intorno.
トコトコ toko-toko: il suono dei passettini di un bambino.

L’ultima categoria è quella dei 擬情語 gijōgo, un gruppo che contiene parole dedicate alla descrizione precisa di sentimenti ed emozioni. Questa per me è la categoria più affascinante. Qualche esempio:

飽き飽き aki-aki: descrive la sensazione di noia mortale, il sentirsi stufi.
イライラ ira-ira: sentirsi irritato, fortemente infastidito.
ハラハラ hara-hara: sentirsi agitato, in preda all’ansia.
ワクワク waku-waku: sentirsi molto emozionato e in ansia ma per qualcosa che molto probabilmente sarà positivo.
ラブラブ rabu-rabu: essere innamorati. A questa onomatopea sono affezionata perché me l’aveva insegnata Fusae-san.

La preziosità di Shuwa-shuwa

Questa breve panoramica delle onomatopee in giapponese dovrebbe essere sufficiente per avere più o meno un’idea della loro ricchezza e complessità. Ecco perché sono un aspetto sicuramente intrigante ma anche complicato per qualsiasi studente della lingua: da un lato vi è una complessità numerica (si dice che queste espressioni siano all’incirca quattromila!) e dall’altro la necessità di vederle come parte essenziale della lingua naturale e non come mero abbellimento un po’ burlone.

Per questo motivo vanno studiate con criterio per poterne cogliere le sfumature e i contesti in cui utilizzarle correttamente.

All’università usavamo un libro che si serviva di vignette e semplici illustrazioni per veicolare il significato – anche sottile – di ognuna. Nel fumetto rosso sulla copertina, la promessa: 絵でわかる e de wakaru cioè comprensibili grazie alle illustrazioni. Questo perché a volte non basta semplicemente spiegarle ma è più efficace rappresentarle per poter trasferire più o meno lo stesso concetto in un’altra lingua.

Quando sono venuta a conoscenza del progetto Shuwa-shuwa ripensai subito a questo libro del professor Akutsu…ma con una marcia in più. E avevo ragione.

Cento illustratori che, da ogni parte del mondo, hanno contribuito con i loro straordinari disegni e ognuno con una missione: trasmettere nella maniera più accurata possibile la sfumatura di ogni onomatopea elencata.

In tutte e cento le illustrazioni ritroviamo Maïté e Maceo visti attraverso l’immaginazione e la creatività di questi disegnatori di grande talento. I due ragazzini sono sempre impegnati in svariate situazioni che spiegano esattamente il senso dell’espressione onomatopeica in esame. Ogni espressione è inoltre accompagnata da una frase di esempio in inglese, francese e giapponese e da i riferimenti dell’artista che ha realizzato il disegno.

Nei giorni precedenti all’acquisto ho chiacchierato un po’ con la mamma dei ragazzi che, con grande dolcezza e affabilità, ha accolto il mio entusiasmo per Shuwa-shuwa. Assieme al libro mi ha anche inviato in regalo queste graziose cartoline che riportano alcune delle onomatopee contenute nell’opera:

E una graditissima dedica al fondo del libro!

La magia di queste meravigliose illustrazioni e la passione che chiaramente traspare da tutta l’opera riescono con grande efficacia a trasmettere l’esatto significato di ogni espressione. E quindi, se le si comprende le si riuscirà anche ad usare, arricchendo in questo modo la propria capacità espressiva in giapponese.

Una vera coccola artistica per tutti gli studenti di lingua giapponese, di qualsiasi livello.

Il libro si può acquistare direttamente dalla pagina ufficiale che trovate QUI. E nel frattempo restiamo in attesa del secondo volume che è già in preparazione! Per un piccolo sconto sull’acquisto, usate il codice: SHUWA.

Questo post è dedicato alla famiglia M&M&m&m, in particolar modo a Maïté e Maceo!

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